Partecipazione, la scommessa per il futuro

“Riceviamo e pubblichiamo” di Carlo Lazzeroni

Il tema della “partecipazione” mi affascina molto da quando, ormai dieci anni fa, frequentando il Master in Analisi Politiche Pubbliche ho avuto la fortuna di conoscere quel filone di studio e di “pratica” della forma di democrazia, definita deliberativa / partecipativa e il suo massimo esponente in Italia, il prof. Luigi Bobbio. A queste teorie e pratiche io mi riferisco quando si parla oggi di partecipazione alle scelte pubbliche, seguendo appunto quanto già sperimentato da tempo negli Stati Uniti (dove questa metodologia è nata) e in molti altri paesi anglosassoni e del Nord Europa, dove di fronte a delle scelte pubbliche, si avviano processi di inclusione dei cittadini e/o dei vari attori portatori di interesse, per arrivare a decisioni più ampiamente dibattute e condivise.

Questo nuovo e maturo “approccio” democratico nella gestione della cosa pubblica, mi pare ancora più utile nel nostro paese per tre motivi: – il crescente movimento di cittadini e comitati frutto della sindrome Nimby (dall’inglese Not In My Back Yard, che significa “Non nel mio cortile”), di fronte ad ogni tipo di opera proposta sul territorio; – una classe politica sempre meno autorevole e all’altezza di guidare democrazie sempre più complesse; – un crescente interesse dei cittadini, specialmente i più giovani che, con la rivoluzione tecnologica godono di un accesso di informazioni molto più elevato rispetto al passato, vogliono sempre più essere protagonisti delle scelte che riguardano il bene comune e la società, anche quando non direttamente “nel proprio giardino”. E’ infatti assodato che nelle nostre democrazie, ogni intervento di un certo impatto economico, ambientale o sociale che sia, provoca scontenti e potenziali “conflitti” sul territorio coinvolto. E se un tempo era relativamente facile assolutizzare l’interesse generale dichiarando, per esempio, una certa opera «di interesse nazionale» e troncare così le possibili opposizioni, liquidandole come espressioni localistiche, particolaristiche o miopi, oggi questa operazione risulta molto più complicata.

Di fronte a tutto questo sicuramente non basta più lo slogan “Sono stato eletto e devo governare!”, così come insufficiente appare l’approccio tradizionale: io Autorità decido una cosa (ad esempio il sito di un impianto di smaltimento dei rifiuti o il passaggio di una autostrada) con criteri tecnici e poi cerco di mostrare la bontà di questa scelta alle comunità locali e ai cittadini. Questi quasi sicuramente daranno vita a comitati che protestano, si oppongono e bloccano l’opera. Da lì si cercherà di negoziare e correre ai ripari, ma ormai è troppo tardi. L’approccio della democrazia partecipativa invece si basa sullo “Svegliar il can che dorme”, cioè non nascondere le criticità di un progetto, coinvolgendo direttamente e fin dall’inizio le comunità locali, gli attori più coinvolti e i cittadini nei criteri di scelta. La regola principe dovrebbe essere: non mettere più la gente di fronte a una soluzione, metterla di fronte al problema, espresso bene da uno studioso del tema con queste parole: “Guardate che il problema in questi casi, non è quello di trovare un sito, come luogo fisico, bensì una comunità che sia disposta ad accoglierlo”.

Questi concetti stanno dentro un principio che dovrebbe essere fondamentale nelle nostre società moderne e cioè che i cittadini che subiscono degli impatti (ambientali, sociali, economici) dovrebbero essere rappresentati nei processi decisionali. “Nessun impatto senza rappresentanza” che, in fondo, è una parafrasi del principio: no taxation without representation, all’origine del parlamentarismo moderno. Anche in Italia ormai dalla fine degli anni ’90 ci sono stati diverse sperimentazioni e applicazioni di queste teorie. E’ la Toscana però la prima regione in Italia e al Mondo che ha deciso addirittura di dotarsi di un’apposita legge, la 69 del 2007. Legge che, attraverso la costituzione di un’Autorità regionale per la partecipazione (indipendente) mira a promuovere sia in generale, sia su tematiche specifiche e locali, il coinvolgimento dei cittadini nelle politiche pubbliche. Io avevo mostrato delle perplessità sulla necessità di un’apposita norma in materia. A distanza di quattro anni e di un bel po’ di esperienze e progetti finanziati dalla legge (86 di fronte a 164 richieste pervenute), si deve però riconoscere che la nostra regione può a buon diritto rivendicare l’esperienza più avanzata in Italia e una delle più avanzate in Europa in questo tipo di “approccio” democratico.

Rimane però un punto critico secondo me molto importante: la pratica partecipativa come l’abbiamo finora intesa non è stata ancora sperimentata in nessun progetto a forte criticità e rilevanza sul territorio. E se è vero che ogni progetto di partecipazione messo in piedi arricchisce comunque il capitale sociale di un territorio e quindi della società, credo che molto della sfida futura della democrazia partecipativa (e della stessa sopravvivenza della legge) si giocherà sulla riuscita applicazione del processo partecipativo su qualche opera importante, anche per superare le evidenti difficoltà, come dicevo prima, della “democrazia rappresentativa”. Che non è e non dovrebbe sentirsi in contrapposizione con questo “nuovo” approccio, visto che quasi sempre è proprio la politica e gli amministratori a rimanere protagonisti, perché sono loro a scegliere, su un certo tema, di dare vita ad un percorso di maggiore inclusione della popolazione.

L’ha capito bene il sindaco di Firenze, Matteo Renzi che, pur avendo un profilo di politico decisionista da “uomo del fare”, con le due edizioni dell’iniziativa “100 luoghi”, ha dato vita contemporaneamente a cento assemblee strutturate per ascoltare e coinvolgere i cittadini, su cento spazi della città da trasformare, immaginare e costruire. Quella di Renzi è un’iniziativa che mette in campo principi e metodi della “partecipazione”, seppure in forma estemporanea (una giornata) e con effetti un po’ da spot (non a caso non è uno dei progetti finanziati dalla legge regionale), ma al confronto con gli altri amministratori, il sindaco di Firenze appare un rivoluzionario. Tornando alla legge regionale sulla partecipazione, credo invece che il percorso intrapreso in questi mesi per la costruzione di una Moschea a Firenze, faccia parte di uno di quei progetti che potrebbero essere di “svolta” sul futuro della legge. Se infatti, come credo, attraverso questo percorso “difficile” si arriverà ad una scelta condivisa, o comunque si avrà una percezione positiva sul cammino intrapreso da parte dei cittadini e di tutti gli attori coinvolti, ci saranno degli innegabili effetti positivi, utili anche per convincere i politici più scettici (quasi tutti, anche coloro che hanno proposto e voluto la legge) ad utilizzare ed investire su questo tipo di metodi democratici. Altrimenti credo che la legge sia a rischio (visto che essendo innovativa, si è data anche una scadenza naturale, il 2012, a meno di nuove scelte legislative) e questo sarebbe una sconfitta. La Moschea allora ci salverà?

 



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