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«Bettino è stato un innovatore. Svelò il sistema, pagò per tutti»

postato il 20 Gennaio 2025

«Finita la Dc non si può rifare un partito cattolico. Schlein ha rilanciato il Pd, è a metà dell’opera. I finanziamenti illeciti hanno riguardato tutte le forze politiche. Difese la sovranità italiana a Sigonella sfidando gli Stati Uniti»

L’intervista di Antonella Coppari pubblicata sul Resto del Carlino

Nell’ormai lontano 2003, Pier Ferdinando Casini – da presidente della Camera – fu il primo rappresentante delle istituzioni del nostro Paese a recarsi sulla tomba di Craxi ad Hammamet. A soli tre anni dalla sua scomparsa, in molti storsero il naso. Ora l’omaggio non fa scandalo: crea invece perplessità la scelta di non aver agevolato il ritorno del leader socialista per offrirgli le cure necessarie in Italia.

Presidente, come giudica il fatto che Craxi i non si sia potuto curare nel suo Paese?

«Oggi mi sembra orribile, lo era anche ieri ma la vigliaccheria ha fatto mettere a tanti politici al primo posto l’idea che fosse meglio non sfidare l’opinione pubblica – risponde il senatore, eletto come indipendente nelle liste del Pd -. D’altronde, la mancanza di umanità per garantire a Craxi le cure sanitarie migliori coincide con la mancanza di dignità che ebbe il Parlamento quando il leader del Psi fece il famoso discorso sul finanziamento illecito dei partiti, concluso con la chiamata di corresponsabilità e la sfida, a chi volesse smentirlo, a sbugiardarlo in Aula. Tutti rimasero in silenzio».

Visto il clima che c’era all’epoca, perché lei decise di sfidare l’opinione pubblica?

«Mi sembrava giusto riconoscere la dimensione politico-istituzionale di Craxi. La politica non è un pranzo di gala. A volte significa scelte dolorose. È stato giusto liberare un cittadino iraniano per avere Sala indietro? In termini etici forse no, ma in termini politici mi sarei comportato come il governo italiano. Craxi è stato un politico: non era un santo, ma neanche un diavolo. Venticinque anni dopo, la solennità del messaggio del Capo dello Stato mette le cose a posto».

Perché Craxi ha pagato per tutti?

«Perché era un elemento cardine del sistema e perché ha sfidato i giudici ed è diventato l’avversario emblematico. Ma non è stato l’unico: ricordo un galan­tuomo come Forlani condannato ai servizi sociali, Andreotti ac­cusato di essere il mandante di un omicidio con un percorso giudiziario   infinito e, fuori dall’Italia, il più grande statista dell’Europa contemporanea, Kohl, condannato per gli stessi motivi di Craxi. Il clima era giustizialista, però in Italia il sistema si reggeva sul finanziamento illecito. E valeva per tutti: partiti di maggioranza e di opposizione».

Le tangenti non servivano solo per il finanziamento della politica: c’erano anche gli interessi più privati

«C’erano quelli che si arricchivano, ma Craxi non era tra questi».

Come ha cambiato la politica italiana Craxi?

«È stato un innovatore sul piano istituzionale ma anche rispetto alla linea politica del Psi che aveva una tradizione di subalternità al Pci – basti pensare alla sfida ai sindacati con il referendum sulla scala mobile – e soprattutto è stato sublime sul piano della politica estera. Penso alla difesa della sovranità italiana a Sigonella dove ha sfidato gli Stati Uniti, alla consapevolezza che il movimento di liberazione palestinese dovesse essere costituzionalizzato e accettato dalla comunità internazionale come controparte per l’idea di due popoli e due Stati o all’aiuto ai movimenti di liberazione del Sudamerica dalle dittature militari».

Perché l’Italia non ha finito di fare i conti con il craxismo?

«Figuriamoci: l’Italia non ha fatto i conti con la propria storia. Per dire, non abbiamo fatto i conti nemmeno con la Dc, il grande partito della Nazione. Quando sento Meloni dire che finalmente l’Italia ha ripreso il suo posto nel mondo grazie al suo governo mi viene da sorridere. È comprensibile che voglia rivendicare una sua specificità, ma nella globalizzazione l’Italia oggi potrebbe perderlo il suo posto.  Rischiamo l’irrilevanza, nonostante il ruolo della presidente del Consiglio».

Con la fine della Dc si è chiusa per sempre l’esperienza dei cattolici in politica con un loro partito?

«Già negli ultimi anni di vita della Dc non c’era più l’unità dei cattolici attorno al partito, figuriamoci se si può ricreare oggi in condizioni diverse. Chi rappresenta i cattolici? Forse nemmeno il Papa… I cattolici sono una comunità di persone e votano per tutti i partiti, a destra come a sinistra».

Dal progetto di Ernesto Maria Ruffini, lanciato sabato a Milano, può nascere un partito non cattolico ma centrista?

«Mi sembra che sia Prodi che Delrio lo abbiano smentito. Del resto sembra difficile immaginarli fuori dal Pd. Comunque, trovo legittima l’esigenza di allargare la riflessione interna al partito».

Tanto basta per riequilibrare lo sbilanciamento della coalizione a sinistra?

«Bonino, Calenda e Renzi risponderebbero legittimamente di no»

Molti ritengono che questa opposizione non sia in grado di impensierire la maggioranza. È davvero così?

«In effetti, c’è il rischio che l’opposizione di oggi sia un’opposizione di sua maestà: fa il suo lavoro nelle aule parlamentari con grande serietà, ma senza la reale prospettiva di un’alternati­va vincente».

Cosa manca al centrosinistra?

«Schlein ha rivitalizzato il Pd interrompendo la deriva verso una progressiva marginalizzazione. Ma essendo una donna intelligente non può non capire che è solo a metà dell’opera. E senza un disegno credibile che coinvolga settori più ampi e meno omologabili alla sinistra tradizionale non vincerà mai».

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«Craxi, una pagina importante della nostra storia. Ora il coraggio della verità»

postato il 20 Gennaio 2025

«Un gigante in politica estera, rinnovò le istituzioni nazionali. I protagonisti della Prima Repubblica non erano santi né demoni»

L’intervista di Mario Ajello pubblicata sul Messaggero

Presidente Casini, Mattarella descrive Craxi come un gigante in politica estera e una figura controversa in Italia. È così, secondo lei?

«Diciamo anzitutto una cosa. Dall’ambigua ma visti i tempi comprensibile offerta dei funerali di Stato, respinta giustamente dalla figlia Stefania, si arriva, dopo un percorso tortuoso, al messaggio di Mattarella in queste ore. È un percorso caratterizzato da tanti momenti di omaggio e riflessione sulla figura di Craxi. Io andai nel 2003 da presidente della Camera al cimitero di Hammamet. Il presidente Napolitano a più riprese ha detto cose importanti. E così ora La Russa e Tajani, ma ci sono stati tra i loro predecessori altri momenti di ricordo. È chiaro che il percorso è travagliato, perché le condanne giudiziarie a Craxi erano in via definitiva. Non è che le autorità dello Stato potessero far finta di niente. E pur tuttavia, il tempo ha provveduto a contestualizzare tutto».

E con il tempo che immagine di Craxi è emersa?

«È uscita un’immagine del leader socialista come un gigante in politica estera e un rinnovatore nelle scelte istituzionali».

Si riferisce alla Grande Riforma che egli lanciò il 28 settembre 1979 in un editoriale sull’Avanti?

«Sì, ma mi riferisco anche al referendum sulla scala mobile. E diciamo che i due contendenti di allora, Craxi e De Mita, capirono entrambi che le istituzioni così com’erano organizzate non riuscivano più a reggere e identificarono – ma questo fa parte del gioco della politica – strade diverse per rinnovarle».

Però Craxi è morto, abbandonato da tutti, fuori dall’Italia. Non poteva avere qualche riconoscimento in più da vivo?

«Certamente, sì. La crudeltà dell’epilogo che gli è toccato è sotto gli occhi di tutti. Così come l’inadeguatezza delle strutture sanitarie a cui era stato affidato. Non facciamo una classifica dei calvari, ma vorrei sommessamente ricordare l’odissea giudiziaria di Andreotti, addirittura accusato di essere il mandante di omicidi; la condanna di Forlani, da lui accettata veramente con spirito cristiano; e guardando oltre l’Italia la condanna subita da Helmut Kohl, che è stata la figura simbolo dell’Europa contemporanea, per finanziamenti illeciti».

Sta dicendo che non c’è solo Craxi ad aver pagato duramente?

«Sto dicendo che c’è stato un periodo in cui il giustizialismo ha prevalso sulla ricerca della verità. Bisogna riconoscere che la pratica del finanziamento illecito era ampiamente diffusa in tutta l’Europa. Se si vuole ricostruire la storia, non si può pensare che essa sia stata una fiaba. Purtroppo, ci sono pagine oscure che abbiamo vissuto e che vanno collocate nella giusta dimensione».

Lei è proprio un innocentista?

«Io non ho mai pensato che i protagonisti della Prima Repubblica fossero dei santi ma non sono stati i demoni che venivano dipinti. Questo vale anche per chi ha ricevuto dall’Unione Sovietica i finanziamenti illeciti. Quella era la realtà della contrapposizione ideologica e di un mondo diviso da un muro. Ciò non significa che non ci siano stati casi di arricchimento personale illecito. Ma chi ha visto la casa di Hammamet e il livello di vita di Craxi negli anni tunisini capisce immediatamente che lui non fu tra quelli che si arricchirono personalmente».

Se si rivaluta la figura di Craxi non si deve anche rivedere, molto criticamente, l’operazione Mani Pulite e tutto ciò che ne è derivato?

«Occorre rivedere con spirito di verità e senza faziosità l’azione giudiziaria di quel periodo ma vanno anche criticati i comportamenti dei partiti sul finire della Prima Repubblica. Perché al di là del finanziamento illecito, una degenerazione complessiva dei costumi c’era stata».

Quindi non aveva torto Berlinguer a insistere sulla questione morale?

«Come Craxi, Berlinguer ha avuto meriti straordinari. Ne cito due. Il primo: impegnare il Pci in una lotta dura contro il terrorismo, mentre certi intellettuali dicevano né con lo Stato né con le Brigate Rosse. Il secondo: la rottura con l’Unione Sovietica. Di Berlinguer non condivido affatto l’idea che la sinistra potesse ergersi a maestra di superiorità morale».

Ha qualche ricordo personale che la lega a Craxi? «Una volta Forlani mi mandò da lui in Parlamento per chiedergli una certa cosa, si parlava di televisione e io mi occupavo di stampa e propaganda nella Dc, e Craxi davanti a tutti mi investì con una raffica di offese irriferibili. Però poi – davanti alla mia stupefatta risposta: “Se questa è la sua opinione, è inutile discutere” – mi prese sotto braccio e mi portò in Transatlantico a passeggiare parlandomi con un’amabilità che ricordo come una delle mie più belle esperienze politiche. La cosa buffa è che i colleghi giornalisti, alcuni dei quali oggi sono diventati mostri sacri dell’informazione, si chiedevano che cosa mai di tanto importante avesse da dire Craxi per mezz’ora a me che non ero il segretario della Dc. Per giorni tutti mi chiedevano: ma che cosa vi siete detti? Craxi era fatto così. E questa è la ragione per cui sono amico di Stefania e di Bobo da tanti anni. E non mi offendo se la mia amica senatrice inveisce, perché ne conosco i cromosomi familiari e le voglio bene».

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Sicurezza e immigrazione. L’opposizione riparta da qui

postato il 22 Novembre 2024

Serve un’area liberal-democratica, ma deve nascere da sola. Il sindaco Lepore a Bologna ha stravinto il referendum sul suo operato

Casini, che tipo di centro ci vorrebbe oggi in Italia?

“Ricordo che l’Italia non è né l’Emilia-Romagna né l’Umbria. Ci sono tante cose che l’opposizione deve costruire prima di essere competitiva”. Il senatore Pier Ferdinando Casini guarda alle Regionali appena concluse, ai riflessi nazionali, alla sua Bologna distinguendo “l’analisi” del voto dalla “fotografia”. “L’analisi parla di un astensionismo alto e questo è preoccupante per tutti – dice –. La fotografia racconta di un centrosinistra che ha stravinto perché, nonostante i pregiudizi ideologici, in Emilia-Romagna c’è stata una buona amministrazione”.

Elementi che possono essere allargati a livello nazionale?

“Quello che l’opposizione deve fare è, innanzitutto, riuscire a interpretare le priorità della nostra società. Poi serve comprensione di alcuni fenomeni di disagio sociale: parlo di temi come l’ordine pubblico, come si è visto con gli scontri di Bologna, e l’immigrazione. Ed è necessario costruire una componente liberal-democratica. Lo dico io, che alla causa ho dato tanto”.

Occorre un centro più vicino al Pd, secondo lei?

“Un progetto in politica non deve nascere mai dal laccio di qualcuno e un Pd che costruisce in laboratorio un presunto centro è il presupposto per l’insuccesso. I fenomeni politici devono svilupparsi autonomamente per essere credibili. Anche Elena Ugolini esibiva il civismo ed ecco com’è andata a finire”.

Renzi e Calenda come si inseriscono in tutto questo? In Emilia-Romagna sono entrati nella coalizione di centrosinistra.

“Io prediligo una versione inclusiva. Ma constato la differenze tra il voto in Emilia-Romagna, Umbria e Liguria”.

Parlavamo di Elena Ugolini… Secondo lei perché questo civismo non ha funzionato?

“Ugolini è un’ottima persona, ma non basta mettere uno specchietto per le allodole e pensare che la gente vada a votare. L’esperienza di Giorgio Guazzaloca fu molto diversa”.

Come mai?

“Era un civismo imposto ai partiti. Quello di Ugolini, invece, è stato costruito dai partiti. Ricordo che Guazzaloca chiudeva nei locali della federazione dei macellai i manifesti di Berlusconi, impediva allo stesso e a Fini di venire a Bologna. Ugolini ha deciso di corteggiare Meloni, che non si è presentata per non prendere parte a una sconfitta già dichiarata. È autolesionismo definirsi civici, se poi si gira in campagna elettorale sempre con Salvini e i ministri”.

Veniamo alla sua Bologna.

“Il tentativo di scaricare sulla giunta regionale il tema alluvione e sul sindaco di Bologna (Matteo Lepore, ndr) i cantieri e l’alluvione stessa non ha attecchito. Le persone non si sono prestate a questo cinismo”.

C’erano pregiudizi sull’operato di Lepore, secondo lei?

“Il centrosinistra e il Pd hanno vinto benissimo in regione, ma hanno stravinto a Bologna”.

Parla da cittadino bolognese?

“Certamente. I cantieri bloccano il traffico e paralizzano la città? Sì. Le alluvioni hanno colpito pesantemente i bolognesi? Sì. Mettiamoci pure per gli automobilisti il limite di andare a 30 all’ora, che condivido, ma è stato divisivo. Il sindaco non aveva alternative: si è fatto carico di decisioni non rimandabili. Se le Regionali dovevano essere un referendum su Lepore, lui ha stravinto. È un ragazzo intelligente, serio e l’appello alla collaborazione istituzionale che ha fatto dopo la vittoria è il segno che capisce le cose”.  

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Elezioni USA: «I dem hanno esagerato sulla cultura woke. Per Trump non sarà così semplice il nodo Ucraina»

postato il 7 Novembre 2024

Temo ora una Ue disunita, serve una sveglia per uscire dall’infantilismo. Appelli inutili dai billionaire di Hollywood. Trump plasma il conservatorismo su basi nuove. Ma conta Musk, altro che l’agricoltore dell’Ohio

L’intervista di Eugenio Fatigante pubblicata su Avvenire

Nelle dichiarazioni di voto di quelli che chiama «i “billionaire” di Hollywood» Pier Ferdinando Casini dice di aver visto il presagio della sconfitta dei democratici Usa: troppe, evidentemente, le distanze dalle esigenze più sentite dalle masse popolari. Al telefono dalla Cina, dove si trova per un’iniziativa parallela alla visita del presidente Mattarella, il senatore e già presidente della Camera indica un’altra causa negli eccessi della “cultura woke” («Il troppo stroppia»), non scommette su novità immediate per la guerra in Ucraina e spera, a questo punto, in uno scatto della Ue in risposta ai nuovi equilibri mondiali, per uscire da quello che definisce «un infantilismo politico».

Casini, cosa ci insegna questo voto americano?

Il voto insegna che la democrazia è una cosa meravigliosa: decide il popolo e uno vale uno. Il risultato può piacere o dispiacere, ma va comunque rispettato perché è la volontà degli americani.

Quattro anni fa con la sconfitta di Donald Trump si diceva che il sovranismo era finito alle corde. Nel 2024 invece è di nuovo forte, negli States come in Europa. Quale lezione si può ricavarne?

È giusto ricordare che appunto il sovranismo di Trump segna una netta discontinuità con la tradizione conservatrice repubblicana. Così come in Italia la destra che governa ha segnato una netta discontinuità con Berlusconi e con Fini. Bisogna però riconoscere una cosa: che nel reinventarsi la destra è stata più capace di interpretare i malumori crescenti della popolazione. Per ora siamo alla “capacità di intercettare”; perché ben altra è la possibilità di risolvere quelle questioni che stanno davvero a cuore alla gente. In poche parole, io credo che difficilmente le grandi aspettative suscitate troveranno risposta nei fatti. Ma naturalmente questo oggi nessuno è in grado di saperlo, “lo scopriremo solo vivendo’!

In qualche modo Trump ha spostato il senso del limite in politica e ha seguaci anche fuori degli Usa, è quasi un’icona mondiale. Cosa rappresenta nella politica internazionale?

Che Trump sia un’icona non c’è dubbio e che oggi stia plasmando su basi nuove il conservatorismo mondiale, altrettanto. Tra l’altro il suo profeta oggi è Elon Musk, che conta molto di più di tutta la sua squadra elettorale. Chiediamoci che cosa questo significa e le conseguenze che comporterà. Altro che l’agricoltore dell’Ohio!

L’errore dei dem negli Usa, e della sinistra in genere nel mondo, non è quello di trattare con disprezzo l’elettorato di parte avversa?

In quanto a disprezzo, Trump su questo terreno non ha rivali, non credo che sia questo l’errore principale. In verità i democratici americani sono parsi incerti tra la continuità con l’amministrazione uscente e una campagna più accentuata sui diritti. E poi le dichiarazioni di voto dei “billionaire” di Hollywood hanno fatto opinione più sulle elites che sul popolo.

Harris ha impostato in larga parte la sua campagna sui cosiddetti diritti civili. La sua sconfitta prova che si dà loro troppo peso, negli Usa come da noi?

Le espressioni woke hanno certamente finito col favorire la destra: il troppo stroppia. Harris lo ha capito, ma ormai la marcia era innestata.

Pensa che Trump ora abbandonerà in parte l’Ucraina?

Non credo che sia tutto così semplice.

Lei è ora in Cina. Come vede l’evoluzione dei rapporti con Pechino nella nuova era Trump?

La Cina ha apprezzato certe dichiarazioni di Trump su Taiwan, ma teme fortemente la politica dei dazi. E forse dovremmo temerlo anche noi in Europa.

Della premier Meloni aveva colpito la sintonia col dem Joe Biden. La vittoria di Trump sarà o no un “vantaggio” per Palazzo Chigi?

Meloni si era intelligentemente posizionata con l’equilibrio che deve avere il capo del governo. Aveva sintonia con Biden, ma si è anche fatta premiare da Musk. Non credo che avrà particolari problemi.

A proposito di dazi: Trump li minaccia anche contro l’Europa. Pensa che l’Ue saprà reagire a una sola voce o teme il fatto che ogni Stato vada a cercare una sua via d’uscita in un rapporto privilegiato con Washington?

Temo esattamente la seconda cosa.

Per chiudere, è più rasserenato o preoccupato da questo voto? Mi ero preparato per tempo a questa eventualità: penso che a volte da un presunto male può nascere un bene. In questo caso riguarda l’Europa, che finalmente deve assumersi le sue responsabilità ed uscire da uno stadio di infantilismo politico.

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Venezuela: «Risultato poco credibile. Evitiamo che finisca in un bagno di sangue»

postato il 30 Luglio 2024

«Il governo acconsenta a un’indagine Onu»

L’intervista di Mario Ajello pubblicata sul Messaggero

Presidente Casini, il Venezuela ancora nelle mani di Maduro è una buona o una cattiva notizia per quel Paese e per il mondo?
«La notizia era largamente prevedibile. Soltanto gli sprovveduti potevano pensare che Maduro lasciasse spontaneamente il potere. D’altronde, il fatto che sulla regolarità del processo elettorale ci siano tanti dubbi è dimostrato dal rifiuto di Maduro di avere osservatori internazionali indipendenti per il voto. Questa è una cosa molto triste, perché il Venezuela necessita di un po’ di tranquillità e di pace».
Come si possono avere queste condizioni di tranquillità e di pace?
«L’unico modo per dimostrare la buona fede il governo l’avrebbe. Ed è questo: acconsentire a un’indagine internazionale sotto l’egida dell’Onu e a un controllo di tutto il materiale elettorale».

E lei crede che Maduro possa avere questo senso di responsabilità?
«In queste ore, il presidente da un lato sta parlando di una riconciliazione nazionale, e dall’altro denuncia complotti e tentativi di ucciderlo. Evidentemente avverte l’enormità di ciò che è avvenuto. Maduro tutto sommato sarebbe il primo a essere interessato a una transizione pacifica. Io, prima delle elezioni, avevo detto che chiunque avesse vinto non poteva aprire una stagione di vendette. E’ necessario anche a chi eventualmente perde il potere dare delle garanzie o addirittura garantire un’immunità. So che in termini teorici questa strada potrebbe non essere giusta. Ma, come dice il proverbio, delle migliori intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno».

Lei sta ipotizzando una pacificazione modello Sud Africa post-apartheid?
«Io lavoro perché non si finisca in un bagno di sangue. Se chi lascia il potere non riceve le necessarie garanzie, è interessato a tenerlo a qualsiasi costo. Ciò vale per Maduro, per i vertici del Paese e per l’esercito: del resto, la cautela della comunità internazionale nel commentare ciò che sta accadendo in Venezuela è proprio finalizzata a esorcizzare questo pericolo di caos e di violenze».
Ma insomma, i dati del voto sono giusti o manipolati?
«I dati affluiti nelle urne, secondo l’opposizione, corrispondevano ai sondaggi pre-elettorali. Si fa fatica a credere alla veridicità di questo risultato».

Si fa meno fatica a constatare che Iran, Cuba e Putin hanno subito gioito per l’esito del voto e si stanno complimentando con Maduro?
«Questo non mi fa impressione, perché conosco il Venezuela e so che quei Paesi che lei ha citato sono la testa di ponte degli Stati canaglia in Sud America. La drammatica situazione internazionale, tra guerra in Ucraina e conflitto in Medio Oriente, paradossalmente avvantaggia Maduro. Perché, da un lato, distrae la comunità internazionale dalla vicenda venezuelana e, dall’altro lato, rende tutti esitanti ad aprire un altro fronte».

Gli Stati Uniti però sembrano duri contro il presidente venezuelano.
«Il segretario di Stato americano, Blinken, e i governi europei hanno fotografato la situazione. Il problema vero è che è difficile trovare una via d’uscita. Perché nessuno, a cominciare dal sottoscritto, vuole un bagno di sangue. Tutti auspicano una soluzione pacifica. Ma per averla, serve la disponibilità degli attori in gioco. E’ stato molto significativo anche che gli esponenti dell’opposizione, che pure hanno una posizione di avversione totale a Maduro, si erano detti disponibili a dare le garanzie per un trapasso ordinato, nel caso avessero vinto loro. Ma evidentemente, un passaggio come questo è quasi proibitivo per un gruppo dirigente che tiene in ostaggio il Paese e che ormai nella comunità internazionale tutti conoscono».

Lei, qualche anno fa, ha negoziato direttamente con Maduro il rilascio dei parlamentari d’origine italiana trattenuti nella nostra ambasciata. Come fu il suo rapporto con il dittatore sudamericano?
«Io mi sono mosso secondo un principio di realismo. Solo Maduro poteva consentire un’uscita tranquilla per i due colleghi, Mariela Magallanes e Americo Di Grazia, e con lui, dopo aver informato l’opposizione, ho negoziato. Con me è stato corretto ed evidentemente attento a cercare di salvaguardare un suo rapporto con l’Italia e con la comunità dei nostri residenti. Ha anche trovato il tempo, per esibire un ottimo italiano, imparato nel quartiere di Caracas più popolato dai nostri connazionali e per dichiarare il suo amore per la Juventus».

E i suoi oppositori lei li conosce?
«Conosco bene la leader dell’opposizione, Maria Corina Machado: una donna di grande coraggio e di una fede incrollabile verso la democrazia. Non mi meraviglio che in queste ore la indaghino per frode elettorale: è lei la vera nemica da abbattere».

Ha visto che il presidente argentino, Milei, consiglia all’esercito di ribellarsi contro Maduro?
«Milei dice tante cose. Ma dimentica che tra l’esercito e Maduro c’è un patto di complicità e non credo che per scardinarlo basti una dichiarazione di un Capo di Stato straniero. La realtà è che tutti parlano del Venezuela ma nessuno ha la chiave della soluzione. Non ce l’ha nemmeno Lula, il quale si è segnalato nei giorni scorsi come uno di quelli che detto le cose più giuste. Ha detto che Maduro deve imparare questa regola: quando si vince, si resta; quando si perde, si va via e ci si prepara a un’altra elezione. Dobbiamo dire che Lula questa regola la conosce bene, come dimostra la sua parabola di vittorie e sconfitte».

In un mondo già incendiatissimo, mancava solo il Venezuela?
«Purtroppo il Venezuela è un problema drammaticamente aperto da tempo: si è trasformato uno dei Paesi più ricchi del mondo in una terra che spinge milioni di cittadini all’espatrio. E’ una tragedia che riguarda un’intera generazione e che non a caso ha visto più volte il santo padre, Francesco, prodigarsi per trovare una soluzione. La Chiesa, bisogna riconoscerlo, è rimasta un baluardo di difesa dei diritti di quel popolo».

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Senza i moderati il centrosinistra non vince. Marina Berlusconi ha capito che la ricetta è la pluralità

postato il 4 Luglio 2024

Il Fronte popolare non può essere un modello per l’Italia, consegnerebbe il Paese a Meloni. Il mondo cattolico ora è il grande assente

L’intervista di C. Vecchio pubblicata su Repubblica

Pier Ferdinando Casini, come finisce in Francia?

«Mi auguro per l’Italia, e per Giorgia Meloni, che Marine Le Pen non faccia cappotto. E che si crei la possibilità di formare una coalizione repubblicana».

Perché se lo augura anche per Meloni?

«Perché una vittoria delle destre finirebbe per spingerla verso derive lepeniste. Penso che la prima ad augurarsi che non finisca così è lei stessa».

Quindi vede con favore il Fronte popolare?

«Lo vedo con terrore autentico».

Ah, e perché?

«La desistenza in Francia è obbligatoria. Ma non prenderei il Fronte a modello per l’Italia, perché significherebbe consegnare il Paese alla Meloni per altri dieci anni».

È una mossa difensiva?

«È la pars destruens. Noi dobbiamo puntare alla pars costruens. Il modello dev’essere la Gran Bretagna, non la Francia, dove gli esponenti del Fronte fanno il pugno chiuso davanti al Parlamento».

Come la immagina l’alternativa credibile alla destra?

«Senza l’inclusione di un’area moderata convincente nel centrosinistra non si vince».

Ma Renzi e Calenda non hanno dato una mano.

«Il bipolarismo rende inutile il centro autonomo, mentre non lo è affatto se si ragiona in termini di coalizione».

Il Pd è andato bene alle Europee.

«Benissimo, non bene. Ma non è autosufficiente».

Lei vede un leader?

«Si vota tra tre anni. Non impicchiamoci al toto nomi. È necessario avere chiaro il problema. Poi in politica vince chi si prende gli spazi: se c’è qualcuno che se la sente si faccia avanti».

Qual è l’errore da non fare?

«Pensare che con la discriminante ideologica si vincano le elezioni. C’è un’ampia fetta di antifascisti che ha votato per Meloni alle ultime elezioni».

Non è una discriminante l’antifascismo?

«Assolutamente sì. E lo dice uno che lo ha ribadito come valore costitutivo della Repubblica nel suo discorso di insediamento da presidente della Camera. Ma non è una condizione sufficiente. Le pregiudiziali ideologiche sono cadute».

Non si rischia una prospettiva qualunquista?

«No, perché anche nel mio collegio, Bologna, più si va in periferia più i ceti popolari votano per i sovranisti perché si sentono abbandonati. Non li riconquisti con l’antifascismo».

Insomma, la foto di gruppo all’Anpi non le piace?

«Le foto, da quella di Vasto in poi, portano una grandissima sfortuna: è più facile farle che costruire cose serie».

Dentro Forza Italia comincia a farsi largo un’area liberal.

«E va salutata con favore. Del resto Berlusconi aveva radicato il suo partito nel Ppe. Ho trovato molto significativa l’uscita di Marina Berlusconi sui diritti: un avviso a non scivolare nell’oscurantismo».

Marina Berlusconi ha un progetto?

«No. È troppo intelligente per coltivare un disegno politico. Però ha capito che la pluralità fa vincere. Ed è esattamente quel che servirebbe al centrosinistra».

Cosa suggerisce esattamente?

«Di essere concreti nell’opposizione, offrendo alternative senza furori ideologici. Smascherare l’Autonomia differenziata come una riforma pericolosa e pasticciata. Denunciare le inefficienze della sanità, per fare due esempi. E unità sulla politica estera».

Tipo?

«L’Ucraina va difesa senza se e senza ma. E bisogna stare accanto a Israele, lavorando allo stesso tempo affinché si arrivi a uno Stato palestinese. E alzando la propria voce contro la politica di Netanyahu che ha moltiplicato gli insediamenti illegali».

Lei è in campo?

«Sono in Parlamento. E nessuno più di me è interessato alla qualità della democrazia. Ma come diceva il saggio: le città si difendono con le lance dei giovani e i consigli degli anziani. Io al massimo posso offrire qualche consiglio se me lo chiedono».

I cattolici dove sono finiti?

«Il mondo cattolico è il grande assente. Ma se i cattolici si pongono alla sinistra del Pd allora il loro contributo non ha molto senso».

Perché sono scomparsi?

«In parte perché la Chiesa ha chiesto di svolgere un ruolo diverso, e poi perché non sono emerse figure nuove. I tempi sono molto cambiati da quelli di Papa Wojtyla».

Come finirà col premierato?

«Ho fatto un sogno. Che Meloni riponga la riforma nel cassetto».

Pensa che possa perdere il referendum?

«Non c’è il quorum a differenza dell’Autonomia differenziata. Basta quindi votare no se la si vuole mandare a casa. Non penso che sia così autolesionista».

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C’era una volta la DC…

postato il 10 Maggio 2024

«Ci siamo sparsi come lievito. Il centro oggi è vivo»

In Parlamento ininterrottamente dal 1983, l’ex democristiano Casini (ora indipendente del pd) è fiero del dna del grande partito cattolico: «C’è un virus democratico. gli effetti speciali hanno stancato, portiamo normalità»

L’intervista pubblicata su Sette, il settimanale del Corriere della Sera

Eletto otto volte deputato, una presidente della Camera, due volte eurodeputato e tre senatore, le ultime due da indipendente nelle liste del centrosinistra.  Pier Ferdinando Casini è in Parlamento, ininterrottamente, dal 12 luglio 1983: 41 anni, nessuno come lui. Casini conosce ogni cavillo istituzionale, ogni meandro delle stanze del potere, sempre mezzo passo indietro, però. Ago della bilancia di molti esecutivi, mai un incarico di governo. Casini, di fatto, è il centro. Non solo il grande erede della Dc. Chiacchierando con lui mentre attraversa Bologna («Cammino molto sa! Sto un po’ invecchiando…», sorride), ogni poco ci s’interrompe perché c’è qualcuno che ferma «Pier» per salutarlo.

Casini, qui si fa un gran parlare di quanto sia tornato decisivo il «centro». Alle Europee capiremo se è vero. Può spiegare a un 15enne cos’è, il «centro»?

«Una categoria dello spirito, un modo di essere. La convinzione che ognuno deve avere dentro di sé. Una convinzione che rifiuta l’integralismo e la certezza di possedere la verità assoluta. La consapevolezza che possiedi un frammento di verità, ma forse qualcosa di simile è anche nelle tesi del tuo avversario. È l’idea che la democrazia si nutre anche delle opinioni più lontane dalle tue, che vanno rispettate».

Cos’è stato, oltre alla Dc, il centro nella storia della Repubblica italiana?

«Finché c’è stato un mondo diviso dal Muro di Berlino, la Dc ha rappresentato una grande forza inclusiva che ha difeso la democrazia e l’ha sviluppata. Ma il suo vero successo è stato di avere progressivamente condiviso un minimo comun denominatore anche con i propri nemici. La Dc è riuscita a contagiare con il suo virus democratico anche chi ne era distante».

E quando inizia questa missione?

«C’è un momento preciso. De Gasperi nel 1948 vince e ha la maggioranza assoluta. Non ha bisogno di alleati, invece coinvolge i partiti laici e avvia la ricostruzione del Paese. Moro e Fanfani, negli Anni 60, nonostante le resistenze del Vaticano allargano il centriso al Psi, staccando i socialisti dai comunisti e ampliando la coalizione. E poi Moro e Andreotti, con i governi di solidarietà nazionale, coinvolgono il Pci e favoriscono il distacco definitivo di Berlinguer da Mosca: è l’eurocomunismo. Poi non dimentichiamo la costituzione delle Regioni, che consente alla sinistra di governare territori importanti dove il Pci era più forte. O il coinvolgimento istituzionale con la presidenza della Camera all’opposizione. Nel 1983, parte di noi fibrilla perché non vuole votare Nilde lotti, mentre i capi dc ci spiegano che la tenuta istituzionale passa da una compartecipazione del più forte partito di opposizione. E da lotti ricevemmo una lezione di terzietà quando difese le prerogative della Camera rispetto alle volontà dei partiti, incluso il suo».

Poi questo monolite centrista implode?

«La Dc non muore per Tangentopoli, ma per la Caduta del Muro. Il vaso era già pieno, Mani pulite è solo la goccia che lo fa traboccare».

E nascono una lunga serie di centri e «centrini»: Rinnovamento Italiano, i casiniani Ccd e Udc, il Ppi, l’Udeur, La Margherita, il Centro democratico.

«Muore la Dc, non i democristiani, che si spargono come lievito nei poli per portare il Dna della loro esperienza politica».

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“Soldi pubblici e preferenze, basta cedere all’antipolitica”

postato il 9 Maggio 2024

 

La democrazia ha dei costi, un errore abolire le risorse. Vanno ripristinate: tanti in privato lo dicono, speriamo ci sia il coraggio

L’intervista di Francesca Schianchi pubblicata su la Stampa

Sulla vicenda ligure, Pier Ferdinando Casini evita commenti: «Mi rifiuto di farlo su anticipazioni di stampa, i processi si fanno in Tribunale». Sul finanziamento della politica, invece, il senatore in Parlamento da oltre quarant’anni ha delle proposte da fare, «indipendentemente da un caso giudiziario o un altro: il tema in democrazia si pone a prescindere». E, secondo lui, va affrontato occupandosi di una legge sui partiti, ripristinando il finanziamento pubblico e lavorando a una legge elettorale con le preferenze. Perché, ragiona, «siamo in una tempesta perfetta».

Cosa intende?

«Caduta la Prima Repubblica, i partiti come li conoscevamo sono stati sostituiti da partiti personali, la formazione politica non esiste più, così come il radicamento territoriale. La classe dirigente ha subito una metamorfosi: in Parlamento non va più chi ha i voti, ma chi è amico del leader. E in questa situazione di maggiore permeabilità, abbiamo tolto il finanziamento pubblico!».

Lei ha sempre criticato l’abolizione del finanziamento pubblico voluta dal governo Letta nel 2014.

«E’ stato un errore, che mi vanto di non aver fatto: sono stato uno dei pochi che hanno votato contro. Sarebbe stato un errore anche in presenza di bontà e onestà generalizzate».

Perché?

«E’ sempre un errore pagare un prezzo legislativo all’anti­politica, sperando così di placarla. Il risultato è che non hai battuto l’antipolitica e hai fatto una cosa sbagliata. E non è stato l’unico episodio».

A cosa si riferisce?

«La riduzione del numero dei parlamentari, che ha reso meno efficiente il lavoro del Parlamento e privato interi territori di una rappresentanza: anche in quel caso votai contro».

All’abolizione de finanziamento però si arrivò dopo un referendum che la chiedeva col 90% dei sì e dopo che la politica aveva dato troppe volte pessima prova di sé…

«Senta, io sono stato eletto la prima volta nel 1983. Già allora bisognava dichiarare tutti i finanziamenti superiori ai cinque milioni di lire: ebbene, su 630 deputati, a fare questa dichiarazione eravamo pochissimi. Le leggi c’erano, e chi voleva seguirle le ha seguite. Ma c’era, diciamo così, una “disattenzione” all’applicazione della legge. Cosa che è stata pagata cara quando, dopo la caduta del Muro e l’indebolimento della politica, arrivò Mani Pulite».

Chiamiamola disattenzione… Con Mani Pulite venne scoperchiato il sistema.

«Io c’ero in Aula quando Bettino Craxi fece il famoso discorso sulla chiamata in correità. Ci fu la reticenza della politica, nessuno affrontò il problema alla luce del sole perché, diciamo la verità, tutti pensavano che l’onda si sarebbe arrestata al vicino di casa»

Il fatto però è che anche in periodi più recenti ci sono stati scandali.

«Ma è ovvio che la cattiva politica è la più grande alleata dell’antipolitica! Ma, ripeto, per quanto l’abolizione del finanziamento pubblico possa essere stata fatta con le migliori intenzioni, è stata un errore. Perché la democrazia ha dei costi».

Il Movimento cinque stelle risponde a questa obiezione dicendo che si può sopravvivere di microdonazioni.

«Ma sì, si possono mettere dei tetti di massimale alle donazioni, ma io più che sull’entità, mi concentrerei sulla trasparenza. Anche perché le microdonazioni si possono aggirare».

Anche le Fondazioni sono spesso guardate con sospetto.

«Ce ne sono usate per i migliori scopi, come la Fondazione Sturzo o la Fondazione De Gasperi, ma non metterei la mano sul fuoco per tutte. Ma pensi che io, proprio legato a una Fondazione, ho fatto un importante rifiuto a una straordinaria signora».

Cioè?

«Dopo la morte di Andreotti, la figlia di De Gasperi mi chiese di presiedere la Fondazione. Ma io ho una tale idiosincrasia proprio al tema dei finanziamenti, all’idea di doverli trovare, che mi sono spaventato e ho rifiutato. Dissi che non me la sentivo».

Come andrebbe affrontato secondo lei questo tema dei finanziamenti nella politica?

«Servono tre provvedimenti. Il primo: una riforma che restituisca all’elettore la possibilità di scelta. Le preferenze hanno delle controindicazioni, ma non si è inventato un meccanismo migliore».

Gli altri due provvedimenti?

 «Bisogna applicare l’articolo 49 della Costituzione: ci vuole un controllo democratico sulla vita dei partiti. E poi bisogna ripristinare il finanziamento pubblico: in questo modo non dico che avremo sconfitto il malaffare, ma almeno toglieremo l’alibi di dire che è colpa della politica o delle elezioni».

Predisponendo però un occhiuto controllo, direi.

«Ma certo, ci vorrebbe un’autorità indipendente che controlli la trasparenza dei partiti politici».

Pensa che ci sia una maggioranza in questo Parlamento per poter discutere di ritorno del finanziamento pubblico?

«Il buon senso è sempre in minoranza, ma in realtà queste mie riflessioni in privato sono molto diffuse. Spero che ci sia chi ha il coraggio di farle anche in pubblico».

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Navalny: L’Italia ora è unita. Il sì a Kiev sia convinto

postato il 20 Febbraio 2024

«Il sostegno all’Ucraina non è uguale per tutti ma il no alla Russia dei gulag è netto» Le identificazioni a Milano? Sarà stato un funzionario poco intelligente»

Presidente Pier Ferdinando Casini, anche lei era alla fiaccolata in Campidoglio?

«Sì, in certe circostanze la presenza non è un’opzione, è un obbligo morale: il posto della politica era in quella piazza», spiega il senatore eletto nelle liste del Pd ed ex presidente della Camera. 

Perché era così importante una manifestazione unitaria?

«Perché è la dimostrazione simbolica che l’Italia è unita nel ritenere la morte di Navalny una gigantesca ricaduta nella Russia dei gulag. La politica estera di un grande Paese del G7, qual è il nostro deve essere, per quanto è possibile, unitaria. I governi passano ma i Paesi rimangono».

Alla fine una delegazione leghista, guidata dal capo dei senatori Romeo, è venuta alla fiaccolata ma è stata oggetto di contestazioni e insulti.

«Io non li ho sentiti, ma se ci sono stati contraddicono certamente il sentimento collettivo di una piazza che voleva manifestare per la libertà in modo unitario». 

Pensa che l’adesione di M5s e della Lega fosse sincera? 

«È una domanda che va rivolta a loro. Io mi auguro che la solidarietà ai dissidenti russi non sia a intermittenza, secondo le convenienze o le circostanze, ma sia un’adesione di fondo». 

Il consigliere leghista dell’Emilia Romagna, Bargi, ha definito ipocrita la fiaccolata.

«Mi pare che stia facendo autocritica. C’è una famosa frase che dice che la democrazia si deve difendere soprattutto per chi non la pensa come noi. Io difendo la democrazia anche per i filo-putiniani italiani. Non voglio che finiscano in un gulag. Troppi non capiscono le implicazioni che questa vicenda ha con alcune aree di guerra come quella ucraina».

Vale a dire?

«Se non siamo sordi e ciechi dobbiamo aprire i nostri occhi e le nostre orecchie: non abbiamo bisogno di altre dimostrazioni. Se ci eravamo dimenticati chi è Putin, questa vicenda ce lo ricorda. E se noi accettiamo un mondo costruito sull’arroganza e la prevaricazione, è difficile dire dove finiremo».

Dunque? Occorre sostenere Zelensky?

«La resistenza ucraina va sostenuta perché in questo modo difendiamo noi stessi. Tutti noi ci interroghiamo su chi vince tra Trump e Biden. Ma nessuno si chiede chi vince tra Putin e il signor nessuno, perché le prime sono elezioni democratiche, le seconde una finzione. Io voglio vivere in una società in cui non si sa chi vince. Se qualcuno preferisce una società in cui il gioco è truccato, è affar suo».

Si riferisce a qualcuno?

«In linea di massima i partiti italiani, come si è visto nei voti per l’Ucraina, sostengono e hanno sostenuto una posizione prima di Draghi e poi della Meloni».

La sostengono tutti allo stesso modo?

«Certo che no. C’è chi la sostiene per finzione e chi per convinzione. Io mi auguro che emergano i secondi».

A Milano chi manifestava per Navalny è stato identificato. Le sembra normale?

«Secondo me sarà stata l’iniziativa di un funzionario molto zelante, quanto poco intelligente».

Lei ha proposto al sindaco di Bologna, Lepore, di concedere la cittadinanza onoraria per Navalny: lui ha replicato che si può dare solo ai vivi, ma dice che la città lo ricorderà.

«Non mi interessava la cittadinanza onoraria in sé, ma attribuire un riconoscimento alla memoria per sottolineare che, in linea con la sua grande tradizione, Bologna è solidale. Possiamo attribuire un archiginnasio d’oro o un’altra onorificenza per riaffermare quel principio».

C’è altro che può fare l’Italia? Il renziano Nobili propone di intitolare a Navalny la via dell’ambasciata russa a Roma. 

«Al di là dei temi più o meno estemporanei, è importante che l’Italia faccia la sua parte difendendo gli aiuti all’Ucraina e andando avanti su questa strada. E soprattutto, è importante che il nostro Paese capisca quanto sia necessaria una politica di difesa europea, altrimenti ci dobbiamo rassegnare a diventare irrilevanti». 

Qual è il senso politico della morte di Navalny?

«Certamente è un messaggio di Putin agli oppositori interni e all’opinione pubblica che restaura la società della paura: per lui è un’assicurazione sulla vita. È una prova di forza e di debolezza assieme».

Perché Navalny, che era in carcere, rappresentava ancora un pericolo per Putin?

«Mandela, che era in carcere, era un pericolo? No e sì allo stesso tempo. I testimoni disarmati, che hanno quel quid di profetico che li porta a non avere paura, sono i più pericolosi per un regime perché rompono le categorie del terrore che i leader vogliono instillare. Dieci anni fa abbiamo assistito alle manifestazioni di Navalny che non erano represse, oggi si reprime chi deposita un fiore. L’ escalation del terrore serve a Putin per perpetrare il potere».

La morte di Navalny può essere un boomerang per Putin nella guerra in Ucraina?

«Sarà un boomerang per la guerra in Ucraina. Come sarà un boomerang la testimonianza disarmata della moglie di Navalny. In queste ore, ha dato la dimostrazione di come può essere straordinario il coraggio di una famiglia. Lui si era curato in Germania, ed è rientrato in Russia convinto che non gli avrebbero fatto niente». 

Vittima dell’ottimismo della volontà?

«I patrioti veri, quelli che hanno costruito l’Italia, quelli che hanno fatto la resistenza, erano muniti di questo coraggio, quasi ai limiti dell’incoscienza».

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“Se negli Usa vince Trump, sarà un futuro di terrore”

postato il 14 Febbraio 2024

«Netanyahu ha gravi responsabilità. La questione palestinese è un buco nero nelle nostre coscienze»

Io amo Israele ma dissento dalle politiche del governo Netanyahu che ha gravissime responsabilità». Pier Ferdinando Casini, ex presidente della commissione Esteri del Senato, osserva il dibattito sulla guerra in Palestina e dice: «Basta avallare la politica di Netanyahu».

Senatore, torna da una setti­mana negli Stati Uniti dove con l’Unione interparlamentare ha partecipato alle audizioni   con   il   presidente dell’assemblea     generale dell’Onu a New York.  Che aria si respira dall’altra parte dell’oceano?

«Cresce il tema della crisi del multilateralismo   costruito nel dopoguerra per interpretare un mondo che oggi non c’è più e che paralizza le istituzioni internazionali. I sovranisti dicono “il multilateralismo non funziona, buttiamolo via”, io dico riformiamolo e facciamolo funzionare».

E la campagna elettorale americana?

«È forse la più singolare degli ultimi anni. Abbiamo un presidente che io ritengo abbia fatto bene, ma che viene percepito in gran parte inadatto a governare perché troppo vecchio.  Dall’altra parte c’è un signore, quasi coetaneo, che trasmette maggiore vitalità ma che mette sul tavolo questioni che fanno presagire un futuro del terrore. Basti pensare alle parole sulla Nato».

Chi vincerà?

«La mia aspettativa è che vinca Biden, il mio timore e il mio pensiero è che possa vincere Trump. Noi italiani, però, dobbiamo distinguere tra le linee di fondo della politica americana e le estremizzazioni che i candidati ne fanno. Il tema delle spese militari è ineludibile: se l’Europa vuole uscire dall’infantilismo politico ed essere autonoma, non possiamo pensare di affidarci sempre agli americani».

Cosa manca?

«La consapevolezza del momento che stiamo vivendo. Ci sono responsabilità a cui stiamo venendo meno per vigliaccheria.  Oggi la pace in Ucraina non può essere a condizione della scomparsa di Kiev perché significherebbe portare il terrore in Europa. Gli ucraini combattono anche per noi».

Parliamo di Medio Oriente. Ieri alla Camera prove di dialogo tra Pd e maggioranza. Come le giudica?

«Un fatto positivo. La politica estera, per quanto possibile, deve stare al riparo delle turbolenze della politica nazio­nale, proprio perché si tratta di dare un’immagine seria e risoluta del nostro Paese all’estero.  Vorrei dire una cosa scomoda sulla Palestina…».

La dica.

«Amare Israele come io e noi lo amiamo non può interdirci dal dire che la questione palestinese è un buco nero nelle nostre coscienze.  Abbiamo parlato di due popoli e due Stati e non abbiamo detto nulla degli insediamenti israeliani che hanno spezzato la continuità territoriale in Cisgiordania.  Insediamenti illegali che il governo Netanyahu ha aumentato e   incentivato. Mai confondere Hamas con la Palestina, ma abbiamo avallato la politica di Netanyahu che è stata quella di indebolire l’Anp».

Critica il governo israeliano?

«Amare Israele non può significare dover amare il governo Netanyahu. Io dissento dalle sue politiche che hanno gravissime responsabilità.  Due popoli e due Stati è una formula vuota o reale? Perché se è reale non possiamo consentire gli insediamenti nei territori occupati».

Cosa propone?

«Rilanciare davvero la politica due popoli due stati e un cambiamento dell’Anp: penso per esempio a Marwan Barghuthi come personalità nuova.  Altrimenti regaliamo la questione palestinese ad Hamas che agisce per conto dell’Iran e probabilmente della Russia».

È pronto alle critiche?

«Non accetto lezioni. Mi rifaccio alla Dc, a Craxi, alla parte migliore della prima Repubblica. Queste cose le ho imparate quando la politica mediterranea era una cosa seria. L’identificazione tra Israele e Netanyahu serve a Netanyahu, ma non serve a lsraele».

Come giudica l’azione del governo?

«Ritengo che sul piano internazionale si stia muovendo meglio che in altri ambiti. Per il rapporto che Giorgia Melo­ni ha costruito in Europa con Von der Leyen e per come si muove Tajani: non hanno sovvertito i pilastri della politica estera italiana.  Tutto sommato merita un 6, e di questi tempi non è poco»

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