postato il 30 Luglio 2012 | in "In evidenza, Politica, Spunti di riflessione"

L’identikit del leader

di Michele Salvati

«Das Madchen», la ragazza, così Helmut Kohl chiamava Angela Merkel, con affetto e condiscendenza. E che dire del confronto tra Hollande e il grande «florentin», François Mitterrand? O, ancora più schiacciante, tra Sarkozy e de Gaulle? O tra Tony Blair e Ed Miliband? Carità di patria mi trattiene dal paragonare i nostri attuali leader politici con i padri della Repubblica e questi pochi riferimenti servono solo a ricordare quanto siano comuni tali confronti, non solo in Europa. E quanto siano unanimi nel doppio giudizio che esprimono: non ci sono più i grandi leader democratici del passato e questo è insieme causa ed effetto del decadimento delle nostre democrazie. Quanto c’è di vero in questo doppio giudizio?

Prima di rispondere, chiediamoci chi sono i grandi leader democratici. Sono leader democratici coloro che non sovvertono le istituzioni fondamentali di una democrazia liberale: per un grande leader, per chi è profondamente convinto della necessità storica del proprio progetto, la tentazione di liberarsi degli impacci dei partiti, della rappresentanza e del parlamentarismo può essere molto forte. Essi sono dunque un sottoinsieme dei grandi leader, di coloro che cambiano il corso della storia, del loro Paese o di aree più vaste: Napoleone, Mussolini o Lenin sono stati grandi leader, grandi capi carismatici, ma non leader democratici. Cavour o Gladstone o de Gaulle lo sono stati. Questo precisato, chiediamoci ancora quali sono i caratteri essenziali e storicamente accertabili di un grande leader democratico, oltre a quello di porre come vincolo alla propria azione innovatrice le istituzioni di base di una democrazia liberale. Volendo molto semplificare, a mio avviso i caratteri essenziali sono due.

Il primo ha a che fare con la natura del progetto politico al quale essi dedicano la loro vita. Deve trattarsi di un progetto storicamente progressivo, che apre nuovi orizzonti di sviluppo economico, sociale e culturale al Paese di cui hanno la responsabilità politica e al contesto internazionale in cui è inserito. Di solito si tratta di rompere una situazione di stallo o di ristagno, prodotta da tenaci forze di conservazione che tenderebbero a perpetuarla. Il secondo carattere ha a che fare con la difficoltà del progetto, con la resistenza delle forze nazionali e internazionali, economiche, sociali e politiche, che devono essere piegate per realizzarlo. Più grande e innovativo il progetto, più tenaci le forze di conservazione, maggiore è la grandezza del leader, se riesce ad attuarlo e a mantenersi nei confini della democrazia. Ma chi valuta se il progetto era un grande progetto, un progetto che era giusto perseguire, e quanto fossero elevati gli ostacoli che vi si frapponevano? Valuta la storia, naturalmente, e la storia — ovvero il consenso delle principali correnti di studi storici — non è un giudice perfetto: giudizi dissidenti, a volte vere inversioni nel consenso dominante, sono comuni tra gli studiosi seri. E più veniamo a leader vicini nel tempo, meno distanti dai problemi politici che ancor oggi affrontiamo, maggiori sono ovviamente i dissidi.

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