Tecnologia e società, il dialogo necessario per superare la crisi

L’andamento dell’economia a livello mondiale impone una attenta riflessione che non può più essere solo locale, ma globale. A mio avviso il progresso tecnologico ha portato al punto di rottura il sistema sociale su cui ci siamo sempre basati: il nostro sistema è centrato sull’assunto di “lavorare di più, per produrre di più e guadagnare di più”. Aumentando la produttività, aumenta la ricchezza, i consumatori aumentano e si assumono altri lavoratori. Questo trade off era particolarmente vero in una società preindustriale. Con l’avvento della industrializzazione negli ultimi secoli, si è assistito ad un prosieguo, a mio avviso fittizio, dell’assunto di cui sopra. Perché dico fittizio? Inizialmente l’industrializzazione ha portato un aumento nella produzione di merci con una progressione di poco superiore a quella del passato. Anche se di poco superiore, questa progressione aumentò enormemente la disponibilità delle merci e abbassò il loro prezzo. Al contempo il progresso tecnologico creò nuovi beni, servizi e soprattutto nuovi bisogni: l’industria dell’intrattenimento, ad esempio, è “recente”, ha circa 100 anni; come pure altri settori industriali (auto, frigoriferi, televisione, computer) e altri servizi (servizi finanziari, l’industria del marketing, della pubblicità, del turismo di massa, e così via). Chiaramente la tecnologia ci ha portato immensi benefici: la qualità della vita è enormemente migliorata, e questo è innegabile.Ma questo ci ha resi ciechi di fronte ai pericoli intrinseci, e ci “impedisce” di impostare una analisi seria della situazione attuale. La crisi mondiale ci impone di analizzare la situazione attuale, soprattutto perché, nonostante gli indici di produttività segnino un aumento costante, non altrettanto si può dire con la disoccupazione, vecchia e nuova: nell’ottobre del 2010, gli studi del FMI evidenziarono come non solo non si era ancora assorbita la disoccupazione creata con la crisi del 2008, ma che bisognava “creare” almeno 40 milioni di posti di lavoro annui (su questo punto si veda il rapporto dell’autunno scorso del FMI, su cui mi soffermerò un altro girono), per reggere le pressioni di chi si affacciava al mondo del lavoro nei paesi occidentali, in quelli arabi e senza contare le pressioni demografiche cinesi.Come si spiega l’aumento di produttività, con un indice di disoccupazione che non mostra sensibili miglioramenti? Spesso il problema si pone e viene discusso a livello nazionale, ed è una cosa logica se consideriamo che i politici devono rendere conto al loro elettorato: un politico italiano deve “tutelare” chi lo ha eletto, e quindi gli elettori italiani, la stessa cosa per i politici tedeschi (ricordiamo come la Merkel ritardò molto gli aiuti alla Grecia, proprio perché aveva prima bisogno del consenso popolare della Germania), francesi, statunitensi, cinesi e così via. Ma questo non risolve il problema, perché non lo individua correttamente. Il problema, come ho accennato prima, risiede nel fatto che ormai la tecnologia, permette una produzione sempre più automatizzata, con tassi di efficienza e produttività sempre più alti e sempre meno bisogno di manodopera umana. Per fare degli esempi: nell’industria dell’auto gli impianti sono quasi totalmente automatizzati e una fabbrica con 7000 operai può oggi produrre lo stesso quantitativo di macchine che prima producevano 20.000 operai. Altro esempio è nell’industria dei microchip: oggi si può produrre lo stesso quantitativo di microchip del 2000, impiegando solo un quarto della forza lavoro che serviva nel 2000: in pratica oggi con 25 operai si produce quanto 10 anni fa producevano 100 lavoratori. E questo processo è in atto da anni, solo che non ce ne rendevamo conto, perché con il progresso tecnologico si creavano nuovi settori produttivi (ad esempio il marketing) e nuovi bisogni (ad esempio fino a 20 anni fa, chi aveva bisogno di un cellulare?) su cui si spostava la forza lavoro in eccesso degli altri settori. Oggi purtroppo non si riesce più a creare nuovi servizi, o nuovi prodotti, si tende a migliorare ciò che c’è, e anzi si procede ad una automazione sempre maggiore. In Francia le aziende hanno bloccato le assunzioni, come anche in Italia, e la Germania tiene grazie alle esportazioni, ma anche nel paese della Merkel si notano i primi rallentamenti. Pensare che una nazione possa lavorare ed esportare a tempo indeterminato, è utopico: la tecnologia e il sapere sono facilmente esportabili e replicabili. Il Brasile, la Cina, l’India ne sono un esempio. E quando i lavoratori cinesi e indiani passeranno dall’agricoltura all’industria, cosa avverrà?

Un altro esempio sono gli uffici pubblici o privati: un tempo i documenti dovevano essere archiviati, e vi erano enormi archivi cartacei e persone che si occupavano del loro controllo e dell’archivio, ma oggi con i computer, questo stesso lavoro può essere svolto da una persona.

Le banche, ad esempio, stanno investendo molto sui servizi via internet e sui bancomat “evoluti” dove si può non solo prelevare, ma anche pagare utenze e depositare soldi.
Ma se queste operazioni si possono fare da casa o tramite bancomat, viene meno la funzione di chi lavora allo sportello e con il tempo molte filiali potrebbero chiudere.Giusto per citare una notizia di questi giorni la banca britannica Barclays  ha annunciato che potrebbe tagliare circa 3mila posti di lavoro nel 2011 nell’ambito del piano per ridurre i costi. Il numero uno del gruppo, Bob Diamond, ha detto nel corso di una conference call, che nel primo semestre c’e’ stata una riduzione di 1.400 posti. Il gruppo ha chiuso i primi sei mesi dell’esercizio con un utile netto in calo del 38% a 1,50 miliardi di euro a fronte di un risultato di 2,43 miliardi registrato nello stesso periodo dell’anno precedente. Ma allora quale è la soluzione? Rifiutare la tecnologia? Assolutamente no. Come ho detto la tecnologia ha migliorato la nostra qualità di vita.

Semmai la risposta può essere nel cambiare la nostra struttura sociale, e per fare ciò bisogna che questo problema si ponga a livello internazionale portando avanti nuove regole comuni a tutti.

Il progresso tecnologico, avrebbe dovuto portarci a lavorare meno: con un minore numero di ore di lavoro si può produrre lo stesso quantitativo di prodotti di qualche anno fa.

Oggi, ognuno di noi, tende a lavorare più degli altri, ma la tecnologia ci permetterebbe di lavorare di meno e lavorare tutti: meglio che lavori una persona 8-12 ore e un’altra sia disoccupata, o che tutte e due lavorino magari 4-6 ore a testa?

L’incidenza del “costo umano” con il progresso tecnologico si va riducendo, inoltre il maggiore costo di un maggiore numero di impiigati, verrebbe riassorbito perché se lavorano molte persone, queste stesse persone, avendo uno stipendio, potranno acquistare beni e servizi (mentre è lapalissiano che chi non lavora, non avendo una fonte di reddito, non può spendere).

Questa soluzione potrebbe anche non bastare o non essere gradita.

Allora si potrebbe anche ipotizzare una distinzione tra “beni necessari” e “beni non necessari”: per quelli necessari potrebbe provvedere lo Stato, per quelli non necessari si provvederebbe individualmente con il proprio lavoro. Ad esempio, si può pensare una abitazione standard per tutti, e poi se io lavoro e guadagno posso comprarmi una casa più bella. Il progresso tecnologico ha permesso l’abbattimento dei costi di molti beni di prima necessità.

E’ ovvio che sto solo abbozzando delle ipotetiche soluzioni, ma quel che mi preme è di porre il problema, perché solo ponendolo si può iniziare a trovare una soluzione.

Il vero problema non è la crisi contingente, ma che il nostro modello sociale di sviluppo sta mostrando la corda, ora che il progresso tecnologico ha permesso un aumento esponenziale della nostra produttività.

Se questo problema non verrà dibattuto nelle sedi apposite, dubito che avremo delle soluzioni strutturali ed efficaci ai problemi della disoccupazione mondiale

Riceviamo e pubblichiamo di Mario Pezzati

 

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12 anni fa

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