Se Orbán torna alla carica e pensa a sostituire la democrazia

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

Della difficile e controversa situazione ungherese mi sono già occupato precedentemente, quando il premier di centrodestra del Paese, Viktor Orbán, aveva dato avvio a una preoccupante “svolta a destra”, smettendo i panni dell’uomo di governo moderato e liberale e indossando quelli dell’uomo forte, presunto artefice della rinascita nazionalista della “Grande Ungheria”. Avevo già all’epoca espresso profonda preoccupazione per come gli avvenimenti stavano precipitando (anche dal punto di vista economico, visto che l’Ungheria risente pesantemente della crisi) e avevo avanzato l’idea che l’Europa – a riprova del fatto che è comunità democratica, prima che sede di scelte tecniche – non potesse restare inerme mentre in uno dei suoi Paesi membri la Democrazia veniva messa a dura prova.

Ora, la situazione – che sembrava inizialmente rientrata nei binari – è tornata in una fase critica. Due giorni fa, Orbán, intervenendo a un meeting dell’associazione degli imprenditori magiari, ha addirittura evocato la possibilità di dover inventare un “nuovo sistema” che sostituisca quello democratico, perché il suo popolo, “semi-asiatico”, “capisce soltanto la forza”: “noi speriamo che non sia necessario introdurre un nuovo sistema che rimpiazzi la democrazia, ma noi abbiamo comunque bisogno di nuovi sistemi economici e di nuove idee”; mentre a un raduno studentesco nella città di Baile Tusnad ha attaccato duramente la UE, accusandola di perdere tempo dietro “ai giocattoli per maiali e allo stato d’animo delle oche, mentre centinaia di migliaia di cittadini stanno perdendo il lavoro e la moneta unica sta collassando”. Due attacchi, speculari e complementari, che chiariscono il modello di azione politica che Orbán sembra ormai deciso a portare fino in fondo: rafforzamento del potere centrale in patria (non escludendo svolte veramente autoritarie) e progressivo sganciamento dalle istituzioni comunitarie, approfittando del malcontento popolare e delle difficoltà del momento.

Già in Ungheria le reazioni sono state di sdegno diffuso. Népszava, quotidiano di sinistra sottolinea che “se qualcuno dubitava ancora che Orbán fosse un partigiano dei regimi autoritari e non della democrazia ci ha pensato lui stesso a dimostrarlo. Il suo discorso non è stato un lapsus, ma un’espressione dei suoi pensieri più reconditi. Ora sappiamo cosa pensa dell’Europa, dell’Ungheria e della democrazia”. Persino Magyar Nemzet, il quotidiano tradizionalmente più vicino al primo ministro, fa fatica a difenderlo. Secondo il quotidiano “la diagnosi sull’Unione è abbastanza pertinente: il problema è trovare il giusto mezzo tra interesse nazionale e interesse comune. Quello che abbiamo ascoltato da Orbán è un monologo, e non un dialogo. Questo non è un buon segno”. Ma le parole più nette arrivano dal settimanale liberale Magyar Narancs, che scrive: “se daremo una nuova chance a Orbán nel 2014 gli daremo ragione, perché dimostreremo che siamo veramente un popolo semi-asiatico”.

Appare chiaro, quindi, come le prese di posizioni di Orbán siano ben oltre il livello di guardia consentito. È qui che entriamo in gioco noi, con l’UE: se vogliamo mantenere l’Ungheria di Orbán all’interno dei limiti di una democrazia veramente tale, dobbiamo agire, scegliendo accuratamente i nostri obiettivi e il metodo da seguire (distinguendo le scelte politiche non condivisibili ma legittime, dal resto) e ribadendo la difesa dei nostri principi democratici e costituzionali. Contro ogni involuzione reazionaria e autoritaria. Contro il ritorno di spettri che questa crisi economica rischia di rendere più consistenti.



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