postato il 13 Dicembre 2009 | in "Immigrazione, Interventi, Politica"

Intervento in Aula sulle nuove norme sulla cittadinanza

La questione demografica ed economica legata all’immigrazione

Agli inizi del ‘900, un secolo fa, gli abitanti dell’Europa occidentale rappresentavano il 17% della popolazione mondiale. Oggi sono il 7%. Nel 2050, scenderanno, anzi scenderemo, al 5%. Questo significa che se già oggi l’Europa conta pochissimo negli equilibri mondiali, nel futuro sarà destinata a contare sempre meno se non saprà modificare i propri tassi di natalità da una parte e accogliere ed integrare i migranti extracomunitari dall’altra.  

La debolezza demografica del nostro Continente fa sì che il nostro benessere stesso dipenderà sempre di più dalla capacità di attrarre ed integrare lavoratori stranieri, e non, al contrario, di respingerli.

Anche perché  le stime delle Nazioni Unite dicono che da qui al 2050 gli uomini e le donne che faranno il loro ingresso nel mondo del lavoro saranno 438 milioni e il 97% saranno persone nate in Paesi in via di sviluppo.

L’Italia avvertirà l’esigenza di integrare la propria forza lavoro con persone provenienti dall’estero ancora di più degli altri Paesi europei perché i nostri tassi di natalità sono drammaticamente bassi. Siamo il secondo Paese più vecchio al mondo dopo il Giappone. Gli uomini in Italia vivono attualmente in media 78,3 anni, le donne 83,8: ormai il 20% degli italiani ha più di 65 anni, e il 5,3% più di 80 anni. Agli inizi del ‘900 la vita media in Italia era di 42 anni. Nel 2050 sarà più del doppio, 86 anni.

Ecco perché  se non si invertirà il trend del nostro tasso di natalità, tutti i demografi sono concordi nel ritenere che dovremo accogliere ogni anno per i prossimi 40 anni 300 mila nuovi immigrati se vogliamo mantenere i tassi di sviluppo che avevamo raggiunto prima della crisi globale.  

Peraltro non possiamo trascurare il fatto che se ci chiudiamo a riccio nei nostri confini, chiudiamo anche la possibilità per le nostre imprese ed i nostri prodotti di affermarsi su mercati in grande espansione lasciando il campo alle aziende degli altri Paesi europei nostri competitori. Negli ultimi anni i Paesi del Mediterraneo dell’Africa e del Medio Oriente sono cresciuti a ritmi ben superiori rispetto all’Europa e anche in questa fase di recessione continuano a crescere più rapidamente di noi. Sono mercati che, considerando anche il Golfo Persico, già oggi rappresentano il 10% del totale delle nostre esportazioni e che si apprestano ad arrivare a rappresentare oltre il 5 della produzione del Pil mondiale. 

Di fronte a questi dati incontrovertibili, esistono due modi di affrontare la realtà dell’immigrazione dunque. Uno ha il senso della realtà, è politico perché prova a governare e guidare i processi, l’altro è populistico e demagogico, lancia slogan ma non produce nessun risultato. Punta tutto sulle paure, fa credere agli italiani che gli immigrati siano assai più di quelli che sono – secondo un recente sondaggio si pensa siano il 25% della popolazione residente in Italia quando sono il 7,2% – li si illude di poter risolvere il problema dell’immigrazione clandestina respingendo le carrette del mare – che in realtà rappresentano appena il 10-15% del totale degli arrivi, mentre l’85%-90% arrivano in gran parte con regolari permessi turistici che vengono lasciati scadere senza più uscire dall’Italia o per transitare verso altri Paesi europei.  

Una demagogia ipocrita che si riempie la bocca con la promessa di aiutarli a casa loro, quando la realtà è che l’Italia destina assai meno dello 0,7% del suo Pil annuo al sostegno e allo sviluppo dei Paesi poveri, e che il vero sostegno semmai lo forniscono proprio i migranti che vengono a lavorare in Italia con le loro rimesse verso i Paesi di origine.

In pratica sono proprio i nuovi poveri della nostra società a tendere la mano ai poveri del Terzo mondo. 

E d’altro canto mentre si fanno discorsi farneticanti di ronde, medici e presidi spia, di cassa integrazione ridotta per gli stranieri, di referendum per dire no a moschee e minareti, di reato di clandestinità, di immigrati che verrebbero in Italia per ammazzare quando ormai sono quattro milioni i lavoratori extracomunitari regolari che danno un contributo essenziale alla nostra economia, mentre si esaltano sui mezzi di informazione disposti a fare da grancassa gli straordinari risultati ottenuti con i respingimenti, la verità è che nel solo 2008 sono arrivati in Italia altri 460 mila immigrati, più del doppio di quelli che si aspettava l’Istat.

Ma una scelta tra la demagogia e la responsabilità, tra le chiacchiere a vuoto e la realtà si impone anche di fronte ad un puro calcolo egoistico tutto italiano: l’Italia è il paese dell’Ocse con il più alto livello di spesa pensionistica, pari al 14% del Prodotto interno lordo nel 2005. Nel decennio 1995-2005 la spesa previdenziale è aumentata del 23%. Solo Giappone, Corea, Portogallo e Turchia hanno avuto aumenti simili (o superiori). La spesa pensionistica assorbe il 30% del bilancio dello Stato. Quasi il doppio rispetto alla media degli altri paesi Ocse che è del 16%. E i contributi pensionistici in Italia raggiungono quasi il 33% dei guadagni, contro una media del 21% negli altri paesi Ocse.

Può un Paese con un sistema pensionistico così a rischio, con una demografia così drammatica, permettersi di rinunciare all’apporto di quattro milioni e mezzo di lavoratori stranieri in regola?

Possiamo pensare di rinunciare al 10% del nostro Pil di punto in bianco, solo perché dovremmo dare ragione a chi urla e strepita contro lo straniero? Possiamo dire che i 5 miliardi e 600 milioni di tasse che versano ogni anno al nostro fisco, lo stesso introito del tanto decantato scudo fiscale più o meno, non ci servono?

E ancora. Possiamo dire ai 7 bambini su 10 nati in Italia da figli immigrati che in questo momento frequentano le nostre scuole dell’infanzia, che domani si iscriveranno alle nostre scuole elementari, che poi prenderanno il nostro diploma di licenza media e magari superiore e la laurea, che non li vogliamo perché dobbiamo difendere il manifesto dello ius sanguinis? Possiamo trattare questi bambini come un problema di sicurezza, negare loro diritti, presente e futuro? E quale sarebbe l’interesse per noi di questa scelta? Che cosa guadagneremmo dalla presenza sul nostro territorio di centinaia di migliaia di nuovi emarginati?  
 Osservazioni generali in materia di cittadinanza 

Le grandi trasformazioni sociali del nostro tempo e la crescente realtà cosmopolita delle nostre società ci inducono a considerare la necessità di politiche di integrazione che favoriscano, in modo equilibrato, l’acquisizione dei diritti di cittadinanza, nel rispetto dei principi fondamentali della Costituzione, dei diritti umani e della coesione sociale.

Infatti, il massiccio fenomeno immigratorio degli ultimi anni, le difficoltà  del dialogo interculturale ed interreligioso, gli sviluppi del processo di unificazione europea e gli scenari della globalizzazione dei mercati hanno creato dizioni diverse da quelle che, nel 1992, portarono alla definizione del quadro normativo sulla cittadinanza attualmente in vigore.

L’Unione di Centro da tempo considera l’opportunità di intervenire legislativamente per adeguare la disciplina attualmente vigente al mutato contesto economico e sociale, caratterizzato dal multiculturalismo derivante dalla convivenza tra cittadini e persone immigrate di breve e lungo periodo: una situazione, questa, che implica un’attenta riflessione sul concetto di cittadinanza e sul significato stesso di identità nazionale.

Fermo restando l’apprezzamento per lo sforzo compiuto in commissione dal relatore, al fine di realizzare una sintesi delle diverse proposte di legge presentate, permangono tuttavia questioni irrisolte.

Nel dibattito attuale sul tema della cittadinanza, degli anni necessari per chiederla, del contesto entro il quale si deve favorire l’appartenenza per sangue o per territorio ad una determinata identità nazionale, non sembra che sia stato fino ad ora adeguatamente approfondito l’aspetto concernente il rapporto tra regole della cittadinanza, identità nazionale e nuova epoca della cosiddetta “globalizzazione”.

Se, infatti, si prende finalmente atto che siamo in presenza di un periodo storico radicalmente nuovo, anche le regole della cittadinanza dovranno essere collocate in una nuova ottica.

Di fronte a questo fenomeno straordinariamente nuovo si possono infatti assumere sostanzialmente due atteggiamenti: di radicale chiusura egoistica basata sulla consanguineità (il criterio dello ius sanguinis attribuisce, infatti, la cittadinanza sulla sola base della situazione giuridica di filiazione) o di presa d’atto della globalizzazione, nella ricerca di un nuovo equilibrio tra identità nazionale e globalizzazione medesima.

Per quel che concerne l’Italia è questo dunque il momento di andare oltre, potenziando il meccanismo dello ius soli che attribuisce la cittadinanza a colui che nasce nel territorio dello Stato, indipendentemente da quella dei genitori.

D’altra  è l’intero orizzonte culturale e politico a suggerire una radicale capacità di adeguamento degli istituti anche giuridici della vecchia statualità nazionale alle nuove sollecitazioni dell’epoca attuale.

Occorre, inoltre, partire dal concetto che la cittadinanza non è di per sé un fattore di integrazione, bensì l’arrivo di un percorso di integrazione culturale. Essa, infatti, non costituisce soltanto il riconoscimento di una lista di diritti, ma rappresenta qualcosa di più strettamente connesso con i principi fondamentali e con i valori fondanti la nazione.

Il nostro ordinamento, anche grazie alle regole del diritto internazionale e dell’Unione europea, garantisce oggi a tutte le persone residenti nel suo territorio, a prescindere dalla cittadinanza, i diritti umani fondamentali, diversi strumenti di protezione sociale (che, per i minori, comprendono anche il diritto all’educazione scolastica), nonché il pieno godimento  dei diritti sociali a tutti coloro che in maniera regolare e con un reddito sufficiente lavorano in Italia.

Per queste ragioni, non è la cittadinanza l’unica garanzia di tutela giuridica: ecco perché, in tale visione, lo Stato nel concederla e nel riconoscere uno status che comporta una piena partecipazione alla vita pubblica (compresi i diritti politici) debba pretendere che sia stato effettuato un certo percorso culturale e a determinate condizioni.

Si profila pertanto necessaria, come giustamente evidenziato nella relazione alla proposta di legge Sarubbi, una svolta paradigmatica nella concezione del meccanismo di attribuzione, passando da un’ottica “concessoria” e “quantitativa” a un’ottica “attiva e qualitativa”.

La cittadinanza deve diventare per lo straniero adulto un processo certo, ricercato e formativo:  il punto di arrivo, come già precedentemente sottolineato, di un percorso di integrazione sociale, civile e culturale, nonché punto di partenza per il suo continuo approfondimento.

L’idea fondamentale è, da un lato, quella di fornire tutti gli strumenti idonei a favorire il processo che porta al pieno riconoscimento dei diritti di cittadinanza a chi dimostri di volersi integrare nel tessuto sociale e civile della nazione che lo ospita; dall’altro, quella di non far scattare automatismi laddove questa volontà non sia espressa in modo esplicito.

È difficile sostenere, infatti, considerata l’entità dei flussi, che le vigenti norme sulla cittadinanza abbiano costituito un incisivo deterrente contro l’immigrazione nel nostro Paese: inefficaci in questo, esse rischiano, invece, di costituire un poderoso argine contro il processo di integrazione, con ricadute dirette sulla stabilità sociale e, quindi, sulla sicurezza reale e percepita dei cittadini.



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