postato il 15 Giugno 2011 | in "Esteri, In evidenza, Riceviamo e pubblichiamo"

In Siria c’è voglia di democrazia, ma il regime risponde con l’esercito

In Siria, la Primavera Araba non ha nulla che ricordi il dolce clima della Bella Stagione, si è abbattuta come un uragano sul regime degli Assad.

Il popolo siriano, fiero ed eroico, da ormai quasi tre mesi sfida la repressione del regime, che non lesina violenze per continuare a perpetrare la propria ossessiva e disperata sete di potere, dissetandosi ogni giorno col sangue di decine di uomini e donne colpevoli di desiderare la propria libertà.

La situazione politica Siriana è certamente molto complessa, benché il fenomeno delle Rivoluzioni che hanno investito gran parte dei paesi dal Nord Africa al Medio Oriente sino al Golfo Persico sembri uniforme, esso va letto nell’ottica delle strutture sociali che sono predominanti nei singoli Paesi interessati. In Egitto ed in Tunisia i movimenti di rivolta hanno raggiunto in breve tempo il proprio obbiettivo, anche grazie ad un tessuto sociale più omogeneo e non polverizzato dall’appartenenza a distinti clan e tribù; ciò ha permesso anche la secolarizzazione dei movimenti di protesta, consentendo l’esclusione da parte dello stessa società civile, di elementi vicini al fondamentalismo.

Diversi sono i casi della Libia, della Siria e dello Yemen. Il regime di Gheddafi poteva contare sino a poco tempo fa su di un efficiente apparato repressivo, retto da membri della sua tribù d’origine, tutt’ora fedeli al rais. L’intervento internazionale ha pesantemente compromesso la possibilità di soffocare nel sangue con successo la rivolta, che divampa tra i clan e le tribù storicamente rivali del Colonnello, concentrate nella Cirenaica.

In Yemen, il fenomeno tribale si fonde in una pericolosa miscela col fondamentalismo islamico; è alto il rischio che lo stato del Golfo, in caso di una prolungata instabilità politica, possa sprofondare in una condizione simile alla Somalia, divenendo un buco nero internazionale.

La Siria a sua volta versa in una situazione diversa rispetto a quelle testè analizzate. Il regime della famiglia al-Asad è al potere ininterrottamente dal 1971. Il padre dell’attuale presidente, Hafiz al-Asad riusci a prendere il controllo del partito di maggioranza nel paese, il Baath, trasformandolo in breve tempo nell’unico ammesso nella vita politica. Paradossalmente il partito Baath, socialista e nazionalista era lo stesso al potere in Iraq sotto la guida di Saddam Hussein, tuttavia i rapporti tra le due nazioni furono a lungo molto tesi in quanto i vertici alla guida dei rispettivi partiti rappresentavano due linee politiche avverse. L’apice dello scontro fu raggiunto nel 1991, con l’adesione della Siria all’Operazione Desert Storm a guida statunitense.

Il “Camerata Combattente” (come la propaganda definiva il dittatore) faceva parte di una minoranza religiosa sciita, quella Alawita, di cui fa parte anche l’attuale capo di stato, Bashar al-Asad. L’appartenenza a questa minoranza permise da una parte di tenere accentrato il potere nelle mani di una ristretta cerchia di persone; il problema si fece tuttavia rilevante quando negli anni ’80 i Fratelli Musulmani, forte movimento sunnita, si sollevarono nel paese, liberando la città di Hama. La reazione del regime anche allora fu incredibilmente dura: Hafiz al-Asad, ex generale dell’aeronautica, ordinò l’assedio ed il bombardamento con l’artiglieria. Nella repressione che seguì alla caduta della città si stima che le vittime fossero state tra le 10.000 e le 20.000.

Il regime fu scosso solo dal proprio interno, con alcuni tentativi di golpe mai portati a termine: il più famoso fu quello promosso dallo stesso fratello del presidente. Una volta sventato, fu inviato su ordine diretto del capo di stato in “missione permanente” in Francia.

Negli anni ’90 si fece pressante il problema della successione nella carica di presidente. Originariamente il delfino era Basil al-Asad, figlio maggiore di Hafiz e fratello dell’attuale rais. Tuttavia, alla sua morte in un misterioso incidente stradale, fu designato questo schivo giovane oftalmologo come erede al trono. Bashar, ritenuto da sempre poco interessato alla politica successe al padre nel 2000. Il mondo ripose in lui nei primi anni una flebile speranza di modernizzazione e progressiva apertura del paese.

Apparve però presto chiaro che i poteri forti del regime indirizzavano la sua linea politica verso una continuità con quella paterna, dimostrandosi tuttavia a tratti persino più intransigente, come nel caso dello stop imposto ai negoziati iniziati dal defunto presidente con Israele per la risoluzione della questione del Golan. Bashar oggi incarna la parabola di una continuità perversa; un giovane leader che non riesce a smarcarsi da una politica ormai superata, la cui legittimazione promana esclusivamente dall’alto ed è totalmente scissa dalla volontà popolare, la perpetrazione di un sistema politico vecchio, che lotta per non annegare nel mare della Rivoluzione.

L’Occidente si è dimostrato cauto, ma non a torto: in ballo c’è la partita nucleare con l’alleato storico della Siria: l’Iran. E’ evidente che un intervento più incisivo delle sanzioni in discussione in questi giorni da parte del Consiglio di Sicurezza, non sarebbe immaginabile. Nel paese convergono infatti gli interessi strategici degli attori internazionali che si oppongono al declinante potere degli Stati Uniti: la Russia, con la sua base navale a Tartus e la Cina, che vede nella Siria la testa di ponte per una penetrazione in Medio Oriente, non sembrano interessate a mettere in discussione la propria strategia geopolitica e le commesse di armi per diversi centinaia di milioni di Euro.

Nella partita gioca un ruolo rilevante la consapevolezza di questi stati di rischiare di trovarsi domani un governo ostile se la Rivoluzione avesse un esito positivo, rischio che ad oggi sembra siano disposti a correre, appoggiando tacitamente la repressione siriana. Israele intanto attende gli sviluppi di una situazione che potrebbe invece alleggerire la pressione dei paesi confinanti sui propri confini.

Siria e Israele sono tutt’oggi ufficialmente in guerra, poiché sin dalla conclusione della Guerra dei Sei Giorni, ed in seguito da quella dello Yom Kippur, non fu mai siglato un trattato di pace. Tel Aviv occupa ancora il 95% delle Alture del Golan, posizione strategica che consente allo Stato Ebraico di avere una preminenza militare ed un vantaggio in termini di gestione delle risorse idriche regionali.

Con l’ascesa al potere di Bashar al-Asad, sono tornati a soffiare venti di guerra sul confine, culminati nell’ operazione “Orchard” delle forze aeree israeliane nel 2007, diretta ad arrestare l’avvio di un programma atomico siro-iraniano nel sito di Al Kibar. In Libano le conseguenze delle proteste potrebbero essere altrettanto incisive. La storia dei rapporti tra il Paese dei Cedri e l’ingombrante vicino è da sempre difficile.

Nel 1976 fu dispiegata in Libano una forza multinazionale a guida siriana, per tenere sotto controllo l’escalation di violenza a seguito dell’esplosione della guerra civile. Benchè sin dagli anni ’80 il mandato non fosse stato rinnovato dal governo libanese, la presenza militare siriana permase sino al 2005.

Il ritiro fu ultimato a seguito delle proteste popolari per l’uccisione dell’ex premier libanese Rafiq Hariri in un attentato dinamitardo, che una commissione d’inchiesta indipendente ha attribuito ai servizi segreti di Damasco. Noto è anche il coinvolgimento insieme all’Iran, nel finanziamento di movimenti riconducibili alla galassia fondamentalista, tra cui preme ricordare Hezbollah.

La maggiore aggressività mostrata dal giovane presidente in politica estera nei primi anni di governo potrebbe essere dovuta ad una necessità di legittimarsi di fronte all’ala oltranzista dell’establishment. In tutto ciò la diplomazia europea potrebbe avere una funzione potenzialmente decisiva, visti gli interessi economici che l’Iran, spesso visto come deus ex machina delle decisioni di Damasco, nutre nei confronti del Vecchio Continente.

Sta alle potenze occidentali trovare il coraggio di schierarsi con i popoli oppressi che chiedono a gran voce una cosa troppo a lungo negatagli: la Libertà.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Federico Poggianti



Twitter


Connect

Facebook Fans

Hai già cliccato su “Mi piace”?

Instagram