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Passa dalle famiglie il futuro dell’Italia

postato il 11 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Roberto Dal Pan

“La condizione di povertà economica delle famiglie con figli si è aggravata” ed ancora “Secondo stime effettuate dalla Banca d’Italia, tra il 2007 ed il 2010 il reddito equivalente sarebbe diminuito in media dell’1,5 per cento. Il calo sarebbe stato più forte, oltre il 3 per cento, tra i nuclei con capofamiglia di età compresa tra i 40 ed i 64 anni”. Non lasciano spazio a dubbi interpretativi le frasi pronunciate dal Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi durante un convegno tenuto lo scorso fine settimana all’Abbazia di Spineto a Sarteano (SI) ed organizzato dall’intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. Nel corso del suo intervento, il prossimo presidente della Banca Centrale Europea ha richiamato ancora una volta l’attenzione sul gravissimo problema dell’assenza di misure strutturali che favoriscano l’uscita del Paese dalla situazione di stagnazione economica, sottolineando nuovamente come la speranza di crescita economica sia direttamente collegata alla risoluzione dei problemi dei giovani e delle famiglie con figli.

Quasi nelle stesse ore in cui si svolgeva il convegno all’Abbazia di Spineto, il Consiglio Direttivo del Forum delle Associazioni Familiari, con parole molto simili, lanciava l’allarme sulla condizione delle famiglie italiane stigmatizzando l’assoluta insufficienza degli strumenti finora messi in campo dal Governo attraverso la manovra finanziaria e sollecitava lo stesso Governo a porvi rimedio attraverso una riforma del fisco e del sistema tariffario da inserire nelle misure a sostegno della crescita che dovrebbero venire presentate nei prossimi giorni. Il Forum ribadiva la necessità di introdurre nel sistema impositivo i correttivi specificamente previsti nel progetto “Fattore Famiglia” al fine ricondurre lo stesso a maggiori criteri di equità e giustizia sociale, completando la proposta con la riforma dell’ISEE per puntare ad una migliore rimodulazione anche della tassazione locale.

Il “Fattore Famiglia” è la proposta introdotta verso la fine del 2010 dal Forum delle Associazioni Familiari ed è volta al miglioramento di alcune criticità del quoziente famigliare, specialmente nella parte in cui, analizzando quanto accade in Francia, parrebbe avvantaggiare i redditi più alti. Si tratta in effetti di un sistema abbastanza semplice ed intuitivo che parte dalla determinazione di una zona “no tax” entro la quale non vi è alcuna imposizione fiscale; il livello sotto al quale non vi è tassazione viene calcolato avendo riguardo alla soglia di povertà relativa calcolata annualmente dall’ISTAT ed utilizzando come base di partenza il costo di mantenimento della persona singola da moltiplicare per il “Fattore Famiglia” estratto da una scala di equivalenza ottenuta applicando sostanzialmente il cosiddetto “quoziente Parma”. Il “Fattore Famiglia” può essere ulteriormente precisato mediante aliquote opportunamente aumentate in presenza di specifici fattori di bisogno quali, ad esempio, la presenza di persone con disabilità oppure non autosufficienti, etc.

Dal dossier dedicato alla proposta e pubblicato sul numero 50/2010 di “Famiglia Cristiana” apprendiamo che – secondo i dati ISTAT – l’11,3 per cento delle famiglie italiane, pari a 21.832.811 nuclei, si trova al di sotto della soglia di povertà relativa e quasi la metà sono famiglie con figli; con l’aumentare del numero di figli la situazione si aggrava tanto che se il 9 per cento delle famiglie con un figlio si trova sotto la soglia di povertà relativa, tale dato sale al 16 per cento con la presenza di due figli, al 25 per cento con tre ed al 30 per cento con quatto o più. Ipotizzando una “no tax area” di base a 7.000 euro (quasi pari cioè alla soglia di povertà relativa secondo gli ultimi dati ISTAT per una famiglia monocomponente e cioè 599,80 € mensili) ed una scala di Fattore Famiglia con coefficienti pari a 1.60 per due componenti, 2.20 per tre, 2.80 per quattro, 3.60 per cinque, 4,40 per sei, 5.20 per sette e 6.00 per otto, si ottengono i diversi importi della soglia sotto la quale non vi è tassazione diretta.

Un interessante convegno sul tema, tenutosi nell’aprile del 2011 a Roma ed organizzato in collaborazione tra il Forum Famiglie e l’Associazione Nazionale Tributaristi LAPET con la collaborazione dell’Università Unitelma Sapienza, ci consente di fare qualche calcolo sull’ammontare economico della manovra così intesa: basandoci sempre sui dati ISTAT disponibili l’applicazione del Fattore Famiglia così ipotizzato costerebbe allo Stato in totale poco meno di 17 miliardi di euro per mancati introiti; in base al tasso di propensione al risparmio per le fasce di reddito analizzate ed ai relativi capitoli di spesa, di tale importo circa 1,6 miliardi andrebbero a confluire nel risparmio privato mentre circa 15,3 miliardi di euro verrebbero utilizzati per l’aumento dei consumi delle famiglie interessate, generando quindi nuovi introiti per lo Stato dalla tassazione indiretta.

Un aspetto correlato alla rimodulazione dell’imposizione fiscale a carico della famiglie con figli e non meno importante dell’aumento della disponibilità finanziaria all’interno del nucleo famigliare è quello evidenziato proprio dal Governatore di Bankitalia nel suo intervento citato più sopra: “il legame tra i redditi dei genitori e quello dei figli in Italia è molto stretto, quasi a livello di quelli dei paesi anglosassoni” e molto diverso da quello rilevato nei paesi del centro e nord Europa; ciò significa che, aggiunge Mario Draghi, il successo professionale di un giovane sembra dipendere più dalle condizioni della famiglia d’origine che dalle capacità personali ed in ragione di ciò possono essere utili strumenti che, sono ancora parole di Draghi, “assicurino condizioni di partenza meno diseguali ai giovani che si affacciano alla vita adulta”.

Dalle considerazioni che precedono, dovrebbe essere evidente la convenienza anche economica per lo Stato nel favorire, con appropriati strumenti legislativi, le famiglie con più figli o quanto meno mitigare le situazioni economiche che ora penalizzano i giovani che tentano di crearsi una propria famiglia. A queste considerazioni economiche se ne aggiungono altre che, per chi come noi ritiene di guardare alla vita pubblica tenendo presenti anche gli insegnamenti cristiani, hanno un valore almeno equiparabile se non – a volte – superiore.

Mercoledì 5 ottobre u.s., in occasione della presentazione del rapporto “Il Cambiamento demografico. Rapporto-proposta sul futuro dell’Italia.”, il Cardinale Angelo Bagnasco nel corso del suo intervento ha affermato che “la nostra cultura fa talvolta vedere i figli come un peso, un costo, una rinuncia, ma i figli sono prima di tutto una risorsa” per poi continuare dicendo che “la ragione del calo delle nascite non può essere soltanto di tipo economico. Si tratta piuttosto di una povertà culturale e morale, che ha di molto preceduto lo stato di innegabile crisi che caratterizza la congiuntura presente” e concludendo con l’ammonizione “se non si riusciranno a far scaturire, nel breve periodo, le condizioni psicologiche e culturali per siglare un patto intergenerazionale l’Italia non potrà invertire il proprio declino: potrà forse aumentare la ricchezza di alcuni, comunque di pochi, ma si prosciugherà il destino di un popolo”.

“Un politico pensa alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni” recita un noto aforisma; mai come in questo caso si può dire che l’attenzione ai problemi delle famiglie e, per estensione, del nostro Paese è lo strumento che ci consentirà di stabilire quanti tra i politici attuali potranno fregiarsi dell’appellativo di “statista”.

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Nuovi calcoli per le pensioni del futuro

postato il 10 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Secondo nuovi calcoli elaborati dall’INPS le pensioni del futuro saranno leggermente più alte di quanto ipotizzato alcuni mesi fa, quando si scatenò una polemica sulle pensioni del futuro (e tutti paventavano pensioni al 30%). Stando ai nuovi calcoli, un lavoratore dipendente andrà in pensione con il 70% dell’ultimo stipendio, mentre un lavoratore autonomo andrà in pensione con il 57% dell’ultimo reddito; tale differenza è da ricercare, motiva l’INPS, nel differente grado di contribuzione: mentre il dipendente versa il 33% dello stipendio lordo, la percentuale del lavoratore autonomo è del 20%.

Ma come si sono svolti questi calcoli? Si è partito dall’assunto che chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995 potrà andare in pensione solo con 65 anni e 3 mesi (nel 2046), qualora avesse i 35 anni di contributi necessari per la pensione anticipata (ovviamente non si calcolano le differenze tra uomini e donne). In alternativa, dovrà attendere fino a 69 anni e 3 mesi, ovvero l’età di pensionamento di vecchiaia richiesta nel 2046, per effetto di tre misure: finestra mobile (la pensione decorre con ritardo di 12-18 mesi rispetto alla maturazione dei requisiti); aumento a 65 anni dell’età di vecchiaia per le donne; adeguamento automatico ogni tre anni dell’età pensionabile alla speranza di vita. In ogni caso anche le pensioni di vecchiaia avranno alla fine almeno 35 anni di contributi alle spalle.

Ma torniamo ai calcoli. Stefano Patriarca, responsabile dell’area pensioni dell’ufficio studi dell’Inps, afferma che se una persona inizia a lavorare oggi, e decide di andare in pensione con 35 anni di contributi nel 2046, avrà il 70% dell’ultimo stipendio (percentuale che, come detto, scende al 54% per un lavoratore autonomo).

Se ipotizziamo invece un lavoratore precario a vita, la pensione sarebbe pari al 57% dell’ultimo stipendio. Certo sono cifre più alte rispetto ai calcoli di qualche mese fa, quando si parlava di pensioni pari al 30% dell’ultimo stipendio, almeno per i precari.
Ovviamente tutti questi calcoli sono al netto delle tasse, e se consideriamo che nelle pensioni non si pagano contributi e si pagano meno tasse rispetto alla retribuzione lavorativa, ecco che il pensionato migliora la propria situazione, rispetto a quanto ipotizzato alcuni mesi fa, soprattutto se andiamo a considerare anche il TFR. Questo miglioramento riguarda anche l’ipotesi di un lavoratore discontinuo, che riesce ad avere “almeno 10 anni di lavoro in nero, 6 da parasubordinato e 22 da lavoro dipendente, si arriverebbe a un assegno pari al 59% dell’ultima retribuzione”.

Patriarca, tra l’altro, ci da ragione su tutta la linea relativamente al considerare il vecchio sistema pensionistico non più sostenibile, affermando che “bisogna dire una volte per tutte che il vecchio mix anzianità-sistema retributivo, che ancora si applica alla stragrande maggioranza dei nuovi pensionati, chi nel ’95 aveva meno di 18 anni di servizio, è insensato”. E questa affermazione nasce da alcuni calcoli elementari, infatti Patriarca ha calcolato che un lavoratore che nel 2010 è andato in pensione a 59 anni con 2.031 euro al mese, che poi è quanto viene liquidato in media dall’Inps ai pensionati di anzianità, avrebbe dovuto prendere, ipotizzando che i contributi versati siano indicizzati e rivalutati con un interesse annuo generoso del 9,5%, non più di 1.050 euro. “La differenza è come se fosse pagata con le entrate dei parasubordinati, degli immigrati, dai contributi di coloro che non arriveranno ad avere la pensione previdenziale anche se hanno pagato i contributi, e con i trasferimenti dello Stato. I 2.031 euro al mese sarebbero equi e corrispondenti ai contributi pagati andando in pensione a 75 anni”.

Allora tutto è a posto? A mio avviso non condivido il leggero ottimismo che pervade l’analisi dell’INPS; non contesto i calcoli, ma è chiaro che se parliamo di un lavoratore precario che arriva a 1000 euro al mese (uno stipendio medio), allora questa persona prenderebbe il 59%, ovvero 590 euro al mese, che è una cifra bassa per poterci vivere con tranquillità. Anche se aumentiamo lo stipendio di partenza, e lo portiamo a circa 1300 euro, che è lo stipendio medio in Italia, otteniamo 767 euro. Non è certo tantissimo, se consideriamo il costo medio della vita. Se parliamo di un lavoratore dipendente, otteniamo rispettivamente 700 euro e 910 euro, cifre che non permettono certo una vecchiaia tranquilla.

Allora il problema è nel calcolo delle pensioni? La realtà è che il vecchio sistema non è sostenibile, quindi bisogna passare al sistema contributivo. Il vero problema è nel mercato del lavoro: lo stipendio medio degli italiani deve essere necessariamente innalzato e bisogna sostituire contratti di lavoro stabili, ai contratti di lavoro precari. Questo non può avvenire con una imposizione da parte dello Stato, ma creando le condizioni per rilanciare lo sviluppo in Italia, che si traduca in maggiori posti di lavoro e quindi un innalzamento delle retribuzioni (è storicamente dimostrato che durante le crisi o durante la stagnazione economica, gli stipendi tendono a contrarsi, mentre quando vi è un aumento dell’occupazione, gli stipendi per effetto del mercato del lavoro e delle sue dinamiche, tendono ad aumentare).

A tal proposito, fa bene l’on.le Casini a volere proporre delle proposte per favorire i contratti a tempo indeterminato tra i giovani, combattendo in tal modo il precariato a vita, come ha affermato recentemente.

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Nuovo condono per premiare i disonesti, una idea che mi fa ribrezzo

postato il 8 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Come già ventilatoprende copro l’idea di un condono fiscale ed edilizio, e questa ipotesi mi fa ribrezzo. Dirò di più, mi fa schifo. Scusate le parole forti, sono opportune. Per finanziare lo sviluppo, invece di andare a colpire l’evasione, si preferisce premiare chi viola la legge, chi evade il fisco, chi deruba gli italiani onesti, chi costruisce in barba ad ogni legge ambientale e di sicurezza. Si dica chiaramente, a questo punto, che lo scopo di questo governo è penalizzare i cittadini onesti, perché non possiamo chiedere sacrifici agli italiani, alle famiglie e ai pensionati se poi premiamo gli evasori.

Se l’idea del condono su cui riflette Berlusconi coincidesse con quella di Scilipoti, sarebbe davvero una tragedia. Cosa prevedeva l’ipotesi di Scilipoti? Far pagare agli evasori solo il 5-10% di quanto dovuto e, in caso di cifre molto pesanti, una rateizzazione pluriennale; a questo condono, poi, si doveva associare un condono edilizio «per i piccoli abusi» residenziali, ovvero tutti gli abusi realizzati fino al 31 dicembre 2010, per una volumetria pari a 400 metri cubi (una casa di circa 150 metri quadri) anche se non «aderente alla costruzione originaria» e indipendentemente dai vincoli ambientali, demaniali, storici.

Da quanto detto, si capisce perché il mio giudizio sia così negativo; se l’ipotesi di questo condono passasse, sarebbe uno schiaffo in faccia a chi paga regolarmente le tasse, uno schiaffo per chi si impegna, e per chi lavora onestamente o che paga regolarmente le tasse, sia che parliamo di pensionati sia di pubblici dipendenti o del “POPOLO DELLE PARTITE IVA”.

Su questa linea si inserisce l’on.le Galletti che ha dichiarato: “Ammesso e non concesso che sia eticamente accettabile che in un periodo di grave crisi si premino ulteriormente i furbetti, il condono sarebbe una medicina peggiore del male. Non è premiando gli evasori che si favorisce lo sviluppo e la crescita di un Paese”. Ed ancora:”Puo’ servire a far cassa ma continuare a riempire una bottiglia bucata non serve a nulla se non la si ripara. All’Italia come ha dichiarato in maniera esemplare il governatore Draghi occorrono riforme strutturali pesanti e incisive per rilanciare sviluppo e crescita e chi pensa di non farle utilizzando il condono, somministra a un malato grave un farmaco inefficace che renderà la malattia irreversibile”.

Naturalmente, da parte del Governo c’è subito stato un balzello di dichiarazioni, c’è da fidarsi?

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Il pericolo dello Stato criminogeno

postato il 6 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Roberto Dal Pan

Qualche tempo fa mi è capitato fra le mani un libretto del 1997 edito da Laterza ed intitolato “Lo Stato criminogeno”; il suo autore era un professore universitario che da poco aveva iniziato la sua carriera politica peraltro con un certo successo avendo rivestito per qualche mese anche il ruolo di Ministro delle Finanze: il suo nome era, ed è, Giulio Tremonti. Quel volumetto, che ho tratto dall’oblio in cui giaceva sui miei scaffali, era una coraggiosa opera di denuncia contro “lo stato giacobino che tutto vorrebbe controllare” ed anche “un manifesto liberale per ritrovare la via dello sviluppo”; i tre lustri seguiti all’uscita del volume hanno provveduto a dimostrare quanto sia difficile in questo Paese passare dalle parole ai fatti.

La definizione di “Stato criminogeno”, usata da Tremonti per indicare un Governo che “obbliga” i propri amministrati a trasgredire le leggi che lo stesso produce, mi è tornata in mente quando ho avuto modo di leggere una relazione a firma di Corrado Baldinelli, capo del Servizio Supervisione Intermediari Specializzati della Banca d’Italia, in cui si tratta di intermediazione finanziaria e comparto del “gaming”. L’alto funzionario nella sua nota si sofferma ad analizzare gli aspetti meno conosciuti ma non meno preoccupanti del fenomeno del gioco d’azzardo legalizzato e ne delinea uno scenario non proprio tranquillizzante.

Tanto per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno, guardiamo alle cifre ufficiali fornite dall’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato che gestisce l’intero comparto: nell’anno 2010 la raccolta totale delle giocate effettuate ammontava a 61,4 miliardi di euro, nel solo periodo gennaio-agosto 2011 siamo già arrivati a 48,3 miliardi con un aumento pari al 23,85 % rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente che, se mantenuto, porterebbe l’ammontare annuale delle giocate per l’anno in corso alla fantastica cifra di 76 miliardi di euro .

Analizzando più in dettaglio le cifre e prendendo ad esempio il mese di agosto 2011, ultimo dato definitivo finora disponibile, si scopre che nel mese in esame sono stati giocati dagli italiani ben 6.418 milioni di euro di cui 3.229 milioni provenienti dagli “apparecchi di intrattenimento” cioè le macchinette da videopoker e simili che vediamo installate nei locali pubblici. Non meno sorprendente appare la rilevazione disaggregata su base regionale da cui emerge che la parte del leone la fanno le regioni del nord ed in particolare la Lombardia che contribuisce al totale già citato di 6.418 milioni di euro con la ragguardevole quota di 1.070 milioni di cui ben 632,7 provenienti da slot machines e videopoker. Il dettaglio più preoccupante, tuttavia, deriva non già dalla raccolta delle giocate ma dalle vincite dichiarate in quanto, sempre per rimanere ai dati di agosto 2011 resi noti dall’AAMS, a fronte della raccolta di 6.418 milioni di euro di giocate sono stati pagati 4.955 milioni di euro di vincite di cui 2.571 pagati da videopoker e slot machines. Nel periodo gennaio-agosto 2011 sono state pagate vincite dagli apparecchi da intrattenimento per un totale di 21,8 miliardi di euro e di questo fiume di denaro in moltissimi casi si fatica a conoscere la provenienza e soprattutto la destinazione.

L’allarme sulle zone d’ombra del sistema dei giochi in Italia era stato già lanciato, tra gli altri, da un corposo e documentato saggio apparso su GNOSIS, rivista dell’AISI – Agenzia Informazioni Sicurezza Interna, all’inizio del 2010; in quel pregevole lavoro si passavano in rassegna gli aspetti normativi del comparto e le sue più recenti evoluzioni con particolare attenzione all’esposione dei giochi on-line e relative problematiche. Nelle considerazioni finali del rapporto si rilevava come la preoccupazione investigativa dovesse rivolgersi, oltre che al tradizionale settore dei giochi illegali, anche verso il gioco regolamentato poichè la stessa Direzione Nazionale Antimafia aveva richiamato l’attenzione sul fatto che l’interesse della criminalità organizzata sia ultimamente rivolto verso il gioco legale “sia per scopi di riciclaggio sia per consentire alla propria rete territoriale di usurai di disporre di un numero enorme di potenziali clienti”.

Tornando alla relazione della Banca d’Italia citata in apertura, in essa si rileva come nel gioco tramite rete fisica “le prassi operative fondate sull’anonimato e sull’utilizzo di contante possono favorire comportamenti irregolari e l’infiltrazione della criminalità organizzata”, arrivando poi a segnalare il fatto che “si è creato una sorta di mercato secondario dei ticket vincenti che, configurandosi come titoli di incasso anonimi sostitutivi del contante, sono in grado di alimentare fattispecie di riciclaggio”. La relazione si conclude quindi con l’auspicio dell’adozione di nuove e più stringenti normative che vadano verso l’adozione obbligatoria di mezzi di pagamento tracciabili anche in relazione al gioco in sede fisica oltre che a quello on-line per finire alla necessità di applicazione di standard di tipo finanziario a tutela degli ingenti trasferimenti di valuta originati dal mondo del gaming. A riprova della correttezza dello scenario ipotizzato si consideri che, secondo il bollettino dell’Unità di Informazione Finanziaria della Banca d’Italia, le segnalazioni di attività sospette nel settore dei giochi connesse ad ipotesi di riciclaggio sono state 34 nel 2010 e ben 48 nel solo primo semestre dell’anno in corso.

Pur considerata la massima latina secondo la quale “pecunia non olet”, non può non rilevarsi che il settore del gioco legale – che pure garantisce circa il 15% del fatturato totale delle casse dello Stato – trae la sua sussistenza in un segmento sociale spesso costituito da soggetti deboli ed in condizione di minorata difesa a causa di carenze personali, educative o di censo. Non sono poche ormai le strutture che si occupano di ludopatie, ossia dei comportamenti compulsivi legati al gioco, anche perché il numero stimato dei soggetti potenzialmente esposti alla problematica viene valutato dell’Organizzazione Mondiale della Sanità attorno al 3% della popolazione italiana con già 700.000 soggetti affetti da sindrome del gioco patologico.

Il pericolo di un indiscriminato aumento delle possibilità di gioco d’azzardo, ancorchè sotto il controllo statale, era peraltro già stato abbondantemente segnalato in passato; basti citare la conclusione dello studio del dott. Mauro Croce pubblicato sulla Rivista della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze già nel 2005: “Attraverso il gioco, infatti, la criminalità può ricattare persone indebitate od usurate sotto diverse forme. Concedere credito a tassi di usura a cittadini insospettabili ed incensurati, favorire il loro accesso a forme di gioco controllate direttamente dalla criminalità permette alla stessa di potersi avvalere di persone successivamente ricattabili chiedendo di prestarsi ad azioni delittuose, a coperture, protezioni, all’avere accesso ad informazioni riservate o di infiltrarsi e controllare sotto coperture in imprese, esercizi, e quant’altro”.

Di tali preoccupazioni si sono opportunamente fatti interpreti due illustri esponenti dell’Unione di Centro, che proprio nelle ultime ore hanno fatto sentire la loro voce in merito alla problematica evidenziata. Il capogruppo UDC in Senato Gianpiero D’Alia, durante la discussione della relazione Antimafia sul gioco d’azzardo, ha rilevato come affrontare il tema delle ludopatie e del gioco o d’azzardo voglia dire spalancare gli occhi su di una vera e propria emergenza sociale che pervade l’intera nazione e rende necessario calendarizzare leggi di contrasto al gioco d’azzardo perché esso rappresenta il punto d’incontro di gravi distorsioni dell’assetto socio-economico e favorisce il crimine organizzato anche attraverso il collegamento con fenomeni quali usura, estorsione e riciclaggio. Il Senatore D’Alia ha sottolineato inoltre che si sarebbe aspettato un vero dibattito parlamentare sulla questione mentre invece il Governo é rimasto cinicamente assente disinteressandosi del tutto, a maggior riprova del fatto che le evidenti incentivazioni a comportamenti patologici sul fronte del guioco corrispondono alla volontà di introdurre forme occulte di prelievo dalle tasche dei cittadini mascherandole con ammiccanti forme di intrattenimento.

Nell’altro ramo del Parlamento, l’On. Antonio De Poli, membro della Commissione Affari Sociali della Camera, ha presentato un progetto di legge teso a modificare il Regio Decreto n. 773 del 1931 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) al fine di impedire l’installazione delle slot machine nei luoghi pubblici o aperti al pubblico, nei circoli e nelle associazioni. Nel presentare la proposta di legge, anche l’On. De Poli ha rilevato come negli ultimi anni si sia potuto assistere ad una evidente incentivazione del gioco d’azzardo anche attraverso la legalizzazione di giochi prima proibiti. Ciò che doveva rappresentare solo un piacevole passatempo rischia però di trasformarsi per molte persone in una vera e propria dipendenza del tutto assimilabile a quella da sostanze stupefacenti, con la conseguenza che il benessere futuro di intere famiglie viene messo a repentaglio dal comportamento compulsivo di chi si trova imprigionato nei meccanismi del gioco patologico. Una analoga proposta di legge volta a modificare il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza era già stata presentata in Consiglio Regionale del Veneto dal Capogruppo dell’UDC Stefano Valdegamberi.

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L’orizzonte dei cattolici in politica è ben più ampio dei problemi di Berlusconi

postato il 2 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

Il dibattito che si è sviluppato nei media e in campo politico intorno alla prolusione del cardinale Angelo Bagnasco è stato in molti casi riduttivo se non ridicolo. Certa stampa ha colto del complesso discorso del cardinale Bagnasco esclusivamente il richiamo al pubblico decoro, che ha inevitabilmente indirizzato al Presidente del Consiglio, e su questa scia si sono mossi i commenti di altre illustri firme e di autorevoli esponenti del mondo politico. Da qui le inevitabili elucubrazioni sulle “manovre occulte” della gerarchia ecclesiastica  per riposizionarsi dopo il crepuscolo berlusconiano lanciando una specie di Dc 2.0 o Tecno Dc, secondo la versione di Marco Damilano su L’Espresso, che vada da “Formigoni a Fioroni”. I retroscena, le grandi manovre e le strategie politiche sono sicuramente la specialità di alcuni notisti politici e rappresentano un piatto succulento per quanti si interessano di politica, capita però che questi diventino esaustivi di tematiche ben più complesse, come nel nostro caso; ridurre il dibattito sulla presenza politica dei cattolici in Italia alle bacchettate al Premier per la sua condotta morale o alla risurrezione della balena bianca non è solo riduttivo, ma anche offensivo per i cattolici italiani. Ciò non significa assolvere i discutibili comportamenti privati del Presidente del Consiglio, ma significa dire chiaramente che dietro le parole dei vescovi italiani non c’è nessuna volontà di abbattere Berlusconi, con buona pace di quei “bacchettoni e fedeli per finta” che pensano di battere Berlusconi anche con l’ausilio delle parole dei prelati che in altre occasioni hanno definito “indebite ingerenze”.

Le parole chiare dei vescovi italiani hanno fini più nobili, e se queste fanno male al Presidente Berlusconi e alla sua parte politica evidentemente lui e i suoi sodali hanno qualcosa da rimproverarsi, delle incoerenze da risolvere. E ciò è sotto gli occhi di tutti. Assodato che le immoralità del Primo ministro non sono l’orizzonte dell’impegno dei cattolici italiani occorre ricordare alcune cose fondamentali per una discussione più ampia e profonda.

Le gerarchie ecclesiastiche non si occupano di formare partiti politici, la Chiesa, e quindi non solo le gerarchie, si occupa soltanto di formare coscienze e non lo fa ripetendo semplicemente e solamente le parole della società civile, di cui pure c’è bisogno per mostrarsi consapevolmente partecipe di una sensibilità civile, ma lo fa ricorrendo al suo patrimonio peculiare: il Vangelo.

Le coscienze formate dalla Chiesa devono essere coscienze scomode per i poteri mondani, scomode come quelle dei santi, come scomodo fu lo stesso Gesù per i farisei, i sadducei e i dottori della Legge. I cattolici in politica devono essere capaci dello stesso grido dei profeti biblici: essi devono gridare perché sia applicata la dottrina sociale della Chiesa in difesa dei poveri, dei più deboli e della moralità della vita pubblica.

Coscienze scomode, capaci di denuncie forti ma anche di essere propositive. La Chiesa ha a cuore la giustizia e il bene comune, se nel nostro Paese ci sono innumerevoli problemi, la Chiesa, nel suo compito educativo, e i laici nella vita civile non possono non farsi carico di questi temi. Se la Chiesa e i cattolici si mettessero da parte, questo loro appartarsi o defilarsi sarebbe la spia di un grave problema ecclesiale. Dunque è necessario un impegno che, però, richiede qualcosa in più: la charitas, l’agape, cioè lo Spirito Santo, l’amore di Dio diffuso nei cuori degli uomini. Pertanto il cristiano non può non caricarsi di questi problemi, omettendo di portare il suo specifico contributo. Il cristiano crede di vivere in comunione con Dio e cioè crede che lo Spirito Santo lo ha unito a Gesù Cristo. Il cristiano quindi partecipa di questo corale sforzo della società civile che favorisce la crescita di ogni uomo e ogni donna con lo specifico della carità, del dono dello Spirito, che attinge nella comunità ecclesiale di cui è membro.

Questi in estrema sintesi i contenuti, a cui deve seguire non una strategia ma persone che sappiano incarnare e vivere questi valori.  Quel che conta, come ha recentemente sottolineato Giuseppe De Rita, per il futuro dei cattolici in politica è l’identità nuova, una cultura fondante e soprattutto chi riuscirà ad impersonarla.

 

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Caro Casini, ci voleva un referedum per cambiare la legge elettorale?

postato il 2 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Luca Pedrizzi

Buongiorno on. Casini,

ho sempre esercitato il diritto di voto, ritenendolo un dovere civico ben più che un rito. Ma alle ultime due politiche, con quei listini bloccati, mi sono sentito limitato… Sara’ l’ora di cancellarli?
Il dibattito politico sulla riforma della legge elettorale è infruttuoso e dal Parlamento, in tre anni, nessuna riforma.
La gente e’ stufa ed in oltre un milione hanno firmato per il referendum. Il Min. Maroni l’ha capito e cavalcato.
Siamo ad una svolta?

 

La risposta del leader Udc

Gentile lettore,

la mia posizione sulla legge elettorale e’ chiarissima. Sono per il sistema proporzionale tedesco e non ho alcuna nostalgia per le ammucchiate né per le decine di minipartiti dell’epoca del mattarellum. Peraltro, il Terzo Polo e l’Udc esprimono un’esigenza reale nel Paese e, con qualsiasi sistema elettorale, saranno decisivi per governare l’Italia. Per questo, vi sorprenderò, ma trovo che Maroni abbia perfettamente ragione. Con una maggioranza come questa, in stato confusionale, fare una legge elettorale seria e condivisa è come scalare l’Everest a piedi nudi. Molto meglio dare la parola ai cittadini, che è sempre un grande fattore di democrazia.

Pier Ferdinando

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Lo strano caso delle frequenze del digitale televisivo

postato il 30 Settembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

L’asta per le frequenze 4G è andata a buon fine, ma c’è una domanda che sorge spontanea: se avessimo venduto anche le frequenze del digitale televisivo? Il quesito è più che legittimo, perché oggi si è chiusa l’asta per le frequenze 4G, con un incasso di 3,9 miliardi di euro, ovvero circa il 60% in più di quanto preventivato. Da mesi l’Udc sostiene che il governo doveva vendere e non regalare le 6 frequenze del digitale terrestre, soprattutto in un periodo in cui lo Stato cerca di racimolare soldi per rilanciare l’economia e pagare i debiti.

A tal proposito l’on. Roberto Rao si chiede “ora che si è conclusa l’asta per l’assegnazione delle frequenze 4G con un incasso di circa 4 miliardi di euro, circa il 60% in più di quanto previsto del Governo, ci chiediamo cosa sarebbe successo se non si fossero assegnati i sei multiplex delle frequenze radiotelevisive attraverso il beauty contest”.

Ricordiamo che una stima conservativa, attribuiva a queste 6 frequenze un valore complessivo di 3 miliardi di euro, ma il governo ha deciso di rinunciare a questi soldi. Incomprensibile risulta il balletto del ministro Romani a giustificazione dell’ingiustificabile. L’on. Romani afferma che “in caso di gara economica  i nuovi entranti avrebbero protestato sostenendo che il governo vuol far pagare barriere di accesso al settore e avvantaggiato chi è già dentro”. Inoltre, sostiene Romani, “in Europa nessuna concessione televisiva è mai stata data a pagamento”.

Ma allora perché Telecom, Vodafone e Wind hanno pagato oltre 500 milioni di euro per le stesse frequenze che Rai e Mediaset avranno gratis? Il ministro risponde che il “settore tv è diverso da quello delle Tlc, oggi chi fa tv deve poter competere con i nuovi entranti”. Ma quali nuovi entranti se le frequenze sono state regalate ai soliti noti? ovvero a Rai e Mediaset che sono da anni nel mercato televisivo?

Quindi per il Ministro, Rai e Mediaset dovevano avere le frequenze gratuitamente perché sono dei nuovi competitor, ma allora mi chiedo: Canale 5, Rete 4, Italia 1, non sono Mediaset? Per tutelare i nuovi favorisco i vecchi? Da questi quesiti, che non possono avere una risposta coerente, osserviamo che il governo è privo di logica, e, pur di nascondere la realtà, afferma tutto e il contrario di tutto.

I fatti parlano chiaro: avevamo delle frequenze che valevano 3 miliardi di euro, e sono state regalate a Rai e Mediaset, mentre gli altri attori hanno pagato. Poi però il governo parla di valorizzare il proprio patrimonio, potevano pensarci due settimane fa, adesso ci ritroveremmo con 3 miliardi di euro in più in tasca.

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La banda larga per battere la crisi

postato il 29 Settembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Il governo continua nel suo indecoroso balletto di promesse tradite, spot elettorali, ripensamenti.

L’ultima puntata riguarda gli investimenti per lo sviluppo della banda larga: il ministro Romani afferma che la banda larga è un pilastro per la crescita e il suo sviluppo sarà uno dei pilastri del  prossimo piano per lo sviluppo economico dell’Italia, dichiarando che il 50% dei soldi provenienti dalla gara per le frequenze della banda larga della telefonia mobile (asta arrivata a circa 3 miliardi di euro complessivi).

La notizia deve essere accolta con favore, soprattutto visto che da più di un anno proprio l’Udc ha lanciato una campagna per lo sviluppo della banda larga, vista come uno strumento di sviluppo per l’economia italiana. Purtroppo credo che la promessa del ministro Romani sia da prendere con le molle, visto che due mesi fa, ad Agosto, il governo stesso aveva cancellato i fondi per le infrastrutture legate ad internet.

Cosa è cambiato da Agosto ad oggi?

Evidentemente il governo ha imparato a contare e, facendo due conti, si è reso conto di ciò che l’Udc dice da più di un anno, ovvero che lo sviluppo di Internet e la banda larga sono una strada per abbattere il gap tecnologico che ci separa dagli altri paesi e soprattutto che è un investimento con un potenziale enorme che si ripaga da solo.

Secondo le stime della banca mondiale c’è un aumento dell’1,20% del Pil per ogni 10% di diffusione della banda larga, a cui aggiungere un risparmio pari a 40 miliardi di euro annui (2 mld per il telelavoro, 1,4 mld per l’e-learning, 16 mld per l’e-government e l’impresa digitale, 8,6 mld per l’e-health, 0,5 mld per la giustizia e la sicurezza digitale, 9,5 mld per la gestione energetica intelligente).

Ma quanto costerebbe sviluppare la banda larga in Italia? Secondo le ultime stime basterebbero circa 10-14 miliardi di euro, che produrrebbero un aumento del PIL tra il 3 e il 4% del Pil, quindi tra i 55 e i 73 miliardi di euro. Sembrano cifre alte? Mica tanto, infatti se consideriamo il rapporto di Boston Consulting e Google, scopriamo che internet in Italia pesa per il 2% del PIL e produce un fatturato di 31,6 miliardi di euro; se confrontiamo l’Italia con altre nazioni come Gran Bretagna e Danimarca, scopriamo che internet ha un ruolo marginale da noi, infatti nei due paesi il peso è pari rispettivamente al 7,2% e al 7,3%. In questo studio, si scopre che con una crescita annua attesa fra il 13% e il 18% dal 2009 al 2015, l’Internet economy italiana rappresenterà nel 2015 fra il 3,3% e il 4,3% del Pil, cioè fra i 59 e i 77 miliardi di euro.

Riassumendo: con un investimento di 14 miliardi di euro, possiamo risparmiarne 40 e possiamo aumentare il PIl di circa 65 miliardi di euro; ecco perché da un anno proponiamo incessantemente maggiori investimenti sulla banda larga e speriamo che finalmente anche il governo impari a contare e capisca la nostra proposta.

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Turismo e archeologia per rispondere alla crisi

postato il 27 Settembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Davide Delfino

In tempi di crisi economica, parlare di turismo in un Paese come l’Italia povero di risorse naturali, puó significare molto per il rilancio dell’economia nazionale. Ma vi sono molti tipi di turismo: tra questi quello culturale é forse il meno gettonato per quanto riguarda gli investimenti e la legislazione, ma puó essere una notevole fonte di rilancio soprattutto per gli Enti pubblici territoriali. Il turismo culturale puó includere vari aspetti:

1) la valorizzazione del Patrimonio giá esistente, o meglio, giá conosciuto;

2) la ricerca storico-archeologica per scoprire altro Patrimonio da valorizzare;

3)la presenza su un determinato territorio di studiosi o studenti a causa del Patrimonio di questo territorio e delle attivitá scientifico-didattiche che vi si svolgono.

In tutti questi tre tipi di turismo culturale, chi vince sempre é il territorio e chi vi lavora: infatti in tutti i casi si portano persone sul territorio in questione, il che significa lavoro in piú per gli esercenti alberghier e di ristorazione, i negozi, gli stessi privati che possono affittare immobili per il pernottamento.

Per avere un esempio chiarificatore, si prenda il caso di un piccolo Comune portoghese, probabilmente unico nel suo genere. Mação (distretto di Santarém), fa circa 1800 abitanti e ha un discreto patrimonio archeologico, soprattutto in Arte Rupestre: circa 6 anni fa un accordo tra il Comune (Câmara Municipal) e l’ Instituto Politécnico de Tomar portó al rilancio del museo locale, installandovi la sede di un Master Erasmus Mundus in “Archeologia preistorica e Arte Rupestre”, portandovi le attivitá di un dottorato di ricerca e creando eventi “ad hoc” come corsi sulla Gestione del Patrimonio Culturale e di Archeologia Ibero Americana, sfruttando una rete creata tra varie Universitá in Europa e nel Sud America; solo due anni fa fu infine creato un centro di ricerca interno al museo (Instituto Terra e Memória) attorno al quale ruotano progetti di ricerca, convegni annuali e corsi che coinvolgono ricercatori e studenti da diversi Paesi del mondo. Questa struttura costa  al Comune solo le spese di luce, internet e manutenzione delle strutture di proprietá comunale, in quanto per il resto si povvede con progetti dell’ Unione Europea; la ricaduta economica sul terriotorio é visibile in un’ indagine fatta un anno fa, che attesta che il 10% degli introiti dei soli esercenti é fatta grazie a questo progetto, in quanto in media ogni anno tra studenti del Master locale e del Dottorato, dei corsi organizzati, ricercatori, interessati vari e visitatori  del museo, vengono a Mação circa 5200- 5300 persone che pernottano, consumano e comprano nel Comune per periodi da un minimo di due giorni ad un massimo di un anno intero.

Al dilá dell’esempio fatto, é importante che gli stessi abitanti di un territorio siano consapevoli della potenzialitá culturale e turistica della loro terra e che siano coinvolti in prima persona nel rilancio del proprio Patrimonio culturale in funzione di portare maggior movimento economico sul territorio: in questo il ruolo dell’archeologo, come dello storico dell’arte, é fondamentale. Queste figure professionali sono il tratto d’unione tra il territorio e il suo Patrimonio culturale , oltre che gli attori principali della sensibilizzazione della comunitá locale e del conseguente rilancio di alcune attivitá economiche. Per chiarire, si fará qui un altro esempio, relativo al Brasile.

Nella legislazione relativa al Patrimonio culturale e all’ Archeologia preventiva (Campos de Sousa, M. (2010) (ed) Arqueologia preventiva; gestão e mediação de conflitos. Estudos comparativos, São Paulo: Superintendência Regional do Iphan, 306 p.) vi sono una serie di norme interessanti che qui vengono riassunte:

1)      Nessuna opera pubblica di una certa rilevanza puó essere eseguita senza un progetto di archeologia preventiva (le aziende costruttrici non possono quasi accedere ai bandi di appalto se il progetto non prevede un progetto archeologicon preventivo

2)      Un progetto archeologico preventivo non viene neanche preso in considerazione se non ha uno sviluppo che va dallo studio preventivo, allo scavo, alla valorizzazione, con particolare attenzione all’ educazione patrimoniale, connesso con il patrimonio “salvato” e se non viene firmato da un dottore di ricerca in Archeologia

3)      Se durante il corso di un’opera pubblica di non alta rilevanza (a livello di importo di appalto), vengono causati danni ad un eventuale patrimonio archeologico incontrato, l’impresa responsabile é sempre costretta per legge federale a finanziare il recupero, lo studio, la valorizzazione e l’educazione patrimoniale del sito danneggiato

Inoltre piú volte l’archeologo é anche il gestore dei potenziali conflitti che sorgono tra impresa e comunitá locale (intese come abitanti in un territorio, non solo come “tribú indigene”): questo fa sí che la figura dell’archeologo diventi quello di un manager che media tra le imprese costruttrici e la comunitá locale facendo studi di impatto sociale e culturale delle opere in progetto, facendo progetti di educazione patrimoniale per sensibilizzare le comunitá sul loro patrimonio ed insegnare loro a divulgarlo, difenderlo, farlo fruttare per lo sviluppo economico locale. Di recente gruppi di archeologi sono stati inseriti nel mercato del lavoro assieme alle imprese di consulenza per i lavori pubbici e per l’ambiente. Inoltre per fare ció, non é inusuale che le universitá in accordo con l’I.P.H.A.N.- Instituto do Patrimônio Histórico Nacional (l’ equivalente della Direzione Generale per le Antichitá del Mi.Bac.) creino dei “Centri della Memoria” nelle cittadine interessate da frequenti lavori pubblici e con patrimonio archeologico a rischio, per avere da una parte degli archeologi presenti capillarmente sul posto e dall’altra una presenza attiva (con ricerca, didattica, valorizzazione) che muova la comunitá locale (http://www.anglogoldashanti.com.br/Paginas/QuemSomos/CentroMemoria.aspx). Attorno a ció si é sviluppato da anni un dibattito in seno agli archeologi brasiliani, fatto di ragionamenti sulla situazione e di proposte: ci si interroga sulla responsabiltá di un’archeologia che sia socialmente utile, su un turismo ecosostenibile e sostentabile e le sue implicazioni con la conservazione e la protezione del patrimonio archeologico. É interessante notare come sia in Brasile che in Portogallo il nostro termine “Bene Culturale” sia detto semplicemente “Patrimono”…forse riflette il concetto “lusofono” del “bene culturale” come un piccolo tesoro da conservare per il futuro.

In riferimento alla realtá italiana, forse sono da prendere alcuni di questi esempi, anche in funzione della maggior ricchezza di Patrimonio culturale che ha il nostro Paese rispetto a Portogallo e Brasile. Il nostro “Patrimonio” puó essere veramente la grande ricchezza del paese, partendo dal beneficiare le realtá territoriali. In questo frangente vi sono due problemi: il primo riguarda la concezione sempre troppo incentrata sulla tutela e sulla prevenzione e poco sulla valorizzazione del “Patrimonio” (che é la parte che puó avere piú ropercussioni positive sul’economia del territorio), anche in virtú degli ultimi interventi legislativi in merio all’ Archeologia preventiva (DL 26/04/2005 n.º 63). Il secondo problema dell’ Italia é che gli attori principali della scoperta, protezione, valorizzazione di un mezzo che puó contribuire al rilancio delle economie locali, sono spesso considerati in modo poco corretto. Questi attori sono gli archeologi: ritenuti degli “Indiana Jones” dalle persone comuni, oppure come poco piú che manovali dalle imprese di archeologia preventiva, perché “l’archeologo é quello che scava”, questa categoria professionale si trova ad oggi in una situazione disperata: spesso sottopagata, rispetto al titolo di studio e agli di esperienza sul campo, e quasi senza tutele dal punto di vista legale e sindacale. Sarebbe l’ora che, almeno dal punto di vista legislativo, si iniziasse a considerare l’archeologo come un manager culturale (sulla scia dell’esempio brasiliano), che deve essere pagato per quello che é il suo peso professionale e il suo titolo di studio (spesso un Dottorato e/o una Specializzaione post laurea come i medici), istituendo una regolamentazione in seno al Ministero dei Beni e Attivitá Culturali che dica:

1)      Chi puó fare lavori nell’ambito dell’archeologia

2)      Quanto possono essere pagati gli archeologi ( stabilire un tetto minimo e una scala a seconda del titolo di studio e dell’esperienza professionale)

3)      Che cosa fa l’archeologo

Sarebbe inoltre opportuno prevedere delle facilitazioni per i liberi professionisti, come l’inserimento della voce “operatore arheologico-culturale” nelle categorie per aprire una partita I.V.A. e legiferare in modo da istituzionalizzare la figura professionale dell’ archeologo. Una soluzione potrebbe essere, sempre sull’esempio del Portogallo (Decreto-Lei nº 380/99, de 22 de Setembro), creare la figura dell’ archeologo municipale e permettere, operando a livello di legislazione, a qualsiasi Comune di assumere un archeologo, senza ovviamente l’ obbligo di farlo: questi lavorerebbe a fianco del funzionario di zona della Soprintendenza Archeologica competente e risolverebbe sia il grave problema del controllo del territorio (vi sono ad ora solo 350 funzionari per  tutta Italia), sia il gravissimo problema del “sotto”precariato di tanti archeologi qualificati ( ad oggi piú di 7000 e tra i quali ben il 33% non vive dei suoi studi, il 15% si ricicla come guida turistica e il 16% fa un lavoro totalmente diverso, dal call center, all’attore fino all’elettricista).

Rilanciare, infine, il nostro “Patrimonio” partendo dalle realtá locale e garantire qualitá e tranquillitá del lavoro ai professionisti del settore facendo una regolamentazione nazionale, sarebbe un notevole passo in avanti per rilanciare l’economia, dare piú qualitá di vita alle comunitá locali e preservare i nostri archeologi, molto rinomati in tutto il mondo, dal rischio di dover espatriare per poter degnamente esercitare la propria professione.

 

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Più veloci della luce e delle polemiche

postato il 25 Settembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Jakob Panzeri

Faster than light, più veloce della luce. La comunità scientifica internazionale è sospesa tra incredulità ed entusiasmo. Ci vorranno mesi probabilmente per avere conferma del risultato da parte di altri esperimenti, e almeno un anno per studiare l’effetto su altre particelle dotate di massa, come l’elettrone. Ma una cosa è certa. Se davvero questo evento sarà confermato, ci troveremmo in una nuova stagione della fisica, paragonabile alla straordinaria avventura di inizio Novecento, che portò allo sviluppo della meccanica quantistica e alla teoria della relatività. Ma se allora protagonisti di questa rivoluzione furono individualità geniali, anticonformisti giganti della scienza come Max Planck ed Albert Einstein, ora si tratta di un vero e proprio lavoro di squadra che ha coinvolto circa 160 fisici, ingegneri, tecnici di 31 istituzioni e 11 paese diversi coordinati da Antonio Ereditato, ricercatore napoletano alla guida dell’Istituto di Fisica delle particelle dell’Università di Berna. Questo progetto, denominato “Opera” ha visto l’Italia svolgere una parte da leone, con la mobilitazione di nove centri universitari, da Padova a Bari passando per Bologna a Roma e il sostegno economico di 45 milioni di euro del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca. Ma la scossa parte in profondità, a circa 1800 metri sotto Campo Imperatore, nei Laboratori Nazionali del Gran Sasso, intuizione del noto fisico Antonino Zichichi che li volle nel 1982. Un vero terremoto, che potrebbe rivelarsi la scoperta del secolo. La velocità della luce nel vuoto è infatti il massimo valore per trasmettere segnali ed è considerato un vero e proprio limite universale. La cosiddetta “Relatività ristretta” che Einstein sviluppò partendo dalla relatività galileiana ha come base fondamentale il fatto che non deve esistere alcuna particella che possa viaggiare a velocità superiore a quella della luce, che è di circa un miliardo di chilometri l’ora. Eppure, neutrini che scorrono sotto la superficie terrestre tra i laboratori europei del CERN, a Ginevra, e i Laboratori nazionali del Gran Sasso sono un po’ più veloci della luce.

Nel percorso tra il CERN e il Gran Sasso, circa 732 km, se viaggiasse nel vuoto la luce impiegherebbe circa 2,4 millesimi di secondo. I neutrini inviati da Ginevra ci mettono un po’ meno. La differenza è di appena 60 nanosecondi (un nanosecondo è un miliardesimo di secondo) : poco in assoluto ma una differenza significativa se si pensa che oggi esistono orologi con precisione molto più accurata e che l’incertezza sulla distanza misurata con il GPS non è più di 20 centimetri. Già da tre anni circa erano noti questi risultati ma, con la cautela tipica del metodo scientifico, si è prima cercato di verificare accuratamente i risultati considerando anche eventuali errori dovuti alla strumentazione se non addirittura al terremoto dell’Aquila. Lunedì sarà un giovane ricercatore italiano dal nome ancora poco conosciuto, Pasquale Migliozzi, ad esporre agli occhi e alle orecchie del mondo questa importante scoperta avvenuto per caso, o per serendipità come dicono gli addetti ai lavori. Questa rivelazione avviene pochi giorni dopo che l’European Physical Society ha assegnato i suoi riconoscimenti, considerati inferiori solo ai Nobel, a cinque fisici italiani tra cui il presidente del Centro Nazionale di Ricerca Luciano Maiani. La fisica italiana è sul tetto del mondo. Dobbiamo essere fieri dei giovani e anche dei meno giovani, come il celebre Antonino Zichichi, che si sono resi protagonisti del progetto Opera. Giovani che rappresentano davvero l’Italia migliore. “Chi ha raggiunto lo stadio di non meravigliarsi più di nulla dimostra semplicemente di aver perduto l’arte del ragionare e del riflettere”. Queste parole di Max Planck celebrano a mio parere il vero senso della scienza: una continua lotta, una continua scoperta in un mondo immenso, misterioso, magnifico, un universo dalle mille forze, mille amori e profondità. Dedicare la propria vita alla ricerca è una scelta ardua sorretta dalla passione dove spesso si rimane soli e privi di considerazione , di fondi e di sostegni, ma se non si demorde mai si può giungere a risultati straordinari. Onore davvero alla fisica italiana e ai suoi giovani, onore anche al nostro Ministero dell’Università e della Ricerca nonostante la brutta gaffe del ponte sotterraneo apparsa in un comunicato… ma oggi non vogliamo fare polemica, oggi si deve imbandire il vitello grasso per festeggiare i fisici italiani simbolo di un’Italia migliore augurandoci che aprano una nuova stagione nella fisica e anche una nuova stagione sulla considerazione e l’economia della ricerca italiana.

PER APPROFONDIRE:

Per i meno esperti: una spiegazione semplice e divulgativa di Antonino Zichichi

Per gli appassionati e gli studiosi, il paper della scoperta

Per i curiosi, un consiglio di lettura sul mondo delle scienze

“Solo lo stupore conosce, l’avventura della ricerca scientifica” di Marco Bersanelli e Mario Gargantini

 

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