Tutti i post della categoria: Economia

La Windjet affonda. Cosa succede nei cieli italiani?

postato il 16 Agosto 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

L’estate è divenuta improvvisamente molto amara per tutti i viaggiatori che avevano scelto la Windjet come compagnia aerea. A questi problemi, dobbiamo aggiungere da un lato i rischi professionali per gli 800 dipendenti che adesso vedono per loro un futuro molto nero e dall’altro i tanti interrogativi che solleva una vicenda che si presenta alquanto intricata, tanto che il Segretario regionale dell’Udc Gianpiero D’Alia afferma: “è vicenda molto grave e dai contorni oscuri. Bisogna fare subito chiarezza sul perché Alitalia rompe la trattativa alla vigilia di ferragosto e su quali sono le reali condizioni economiche di Windjet e se ci sono responsabilità dell’attuale management”.

E aggiunge: “esprimiamo totale solidarietà ai lavoratori Windjet. Non si può pensare di fare una trattativa al ribasso sulla pelle di 800 lavoratori. Auspichiamo che il tavolo convocato dal ministro Passera possa produrre risultati e sollecitiamo tutte le parti in causa ad adoperarsi con senso di responsabilità perché la Sicilia e l’Italia non possono permettersi un ennesimo fallimento”.

Recentemente un articolo de Linkiesta a firma di Marco Giovanniello ha lanciato l’ipotesi di “licenziare” Riggio, presidente dell’ENAC, perché non avrebbe vietato alla compagnia aerea catanese di vendere biglietti aerei, oltre che avere impedito a Lufthansa di insediarsi a Malpensa.

Duole dirlo, ma la vicenda è più complicata di così.

Chiariamo alcuni punti, dicendo alcuni fatti certi (ma, mi rendo conto, noti solo a pochi) e poi avanzerò alcune considerazioni:

1) che windjet fosse in via di fallimento, si sapeva da mesi. E per mesi intendo almeno 12-18 mesi;

2) non sta all’ENAC stabilire se una compagnia è finanziariamente solida. Questo spetta ai giudici (in caso di fallimento e/o truffa), o ai proprietari. In ogni caso ricordo che ci sono organi preposti al controllo e verifica dei bilanci, ma non si tratta dell’ENAC, che deve solo verificare il rispetto delle norme di sicurezza e all’assegnazione degli slot (ovvero le finestre di atterraggio e decollo), assieme all’Antitrust, sugli aeroporti italiani.

3) Lufthansa decise di non investire su Malpensa, non certo per i capricci dell’Enac, ma perchè si ritrovò una situazione “pesante”: stiamo parlando del 2008, ovvero del piano di salvataggio Alitalia. All’epoca il governo decise: A) di tutelare Alitalia-Cai, mantenendo e rafforzando il monopolio su Roma (i vincoli che bloccavano l’antitrust sono caduti solo in questi mesi e l’antitrust sta già imponendo a Cai di lasciare alcuni slot); B) di non aiutare l’altro hub, Malpensa, che ha sempre avuto il problema di una fortissima concorrenza con Linate (e anche Bergamo-Orio al Serio) che, unito ai collegamenti non proprio ottimali, ha sempre reso problematica lo scalo di Malpensa (per inciso, ha problemi anche come scalo merci, visto che la tav latita ancora).

4) Windjet, è posseduta da una finanziaria chiamata Finaria (posseduta a sua volta da Pulvirenti), la quale è finanziariamente solidissima (secondo Pulvirenti ha un giro di affari di 400 milioni a fronte di un indebitamento di 20 milioni), semplicemente non vuole più operare in perdita e non si vogliono fare travasi di risorse dalla suddetta finanziaria a Windjet.

5) chiudendo windjet, gli slot saranno liberi, ma non credo che, per motivi di antitrust, Cai possa prenderseli (se non quelli in fasce secondarie). Più probabile Meridiana (che attualmente li sta occupando) o Ryan Air o altri operatori.

Questi sono i fatti, certi e acclarati.

Passiamo ad altri fatti e alcune considerazioni.

La trattativa per l’acquisizione di Windjet, da parte di Alitalia Cai, va avanti da mesi (per inciso pare che vi sia anche una trattativa sotterranea tra Cai e Meridiana; la trattativa in questione è stata chiusa e riaperta varie volte a seconda delle disponibilità degli Emiri arabi e di Cai), ma solo recentemente si era giunti alla stretta finale. In base all’acquisizione, Alitalia doveva (per imposizione dell’antitrust) cedere alcuni slot altrimenti avrebbe operato in posizione di monopolio assoluto. A questo punto, Alitalia Cai fece una offerta che Pulvirenti giudicò irricevibile e la rispedì al mittente (fine giugno 2012) e quindi la compagnia guidata da Ragnetti decise di alzarsi dal tavolo non proseguendo più con le trattative (per inciso, Cai non si siederà al tavolo convocato da Passera e ha chiarito che non intende in alcun modo proseguire la discussione con Windjet mentre Pulvirenti fa sapere di stare trattando con altri vettori e di volere proseguire le trattative in solitario.

Detto quanto sopra, facciamo un esercizio di ipotesi (ed ecco le famose considerazioni).

Probabilmente, stiamo assistendo ad un gioco delle parti.

Avendo chiuso la partita con la vecchia Alitalia che verrà liquidata definitivamente (quando si chiuderà la CIG straordinaria per i dipendenti rimasti e non inseriti in CAI, la vecchia società potrà chiudere definitivamente i battenti, anche perché gli asset venduti e vendibili non bastano a rimborsare tutti i creditori integralmente), Alitalia Cai ha interesse a cercare di sopravvivere (ha i bilanci in perdita) fino al Gennaio 2013 e presentarsi a quella data con una certa “consistenza” in termini di slot, aerei, traffico. Perchè? Perchè (altro fatto noto e acclarato e lo trovate negli accordi del 2008) nel 2013 vi sono due scadenze importanti: nel gennaio 2013 scade la prima clausola di Lock-up per gli azionisti, ovvero il divieto di vendere la propria quota, e quindi gli azionisti potranno vendere agli altri azionisti (tra cui figura Air France) la propria quota. Si sa per certo che molti azionisti non vedono l’ora di liquidare , anche in perdita, la propria quota (per inciso hanno provveduto, Autostrade, Marcegaglia e Benetton in primis a svalutare in bilancio la quota Alitalia di loro pertinenza). Si pensava che Air France si sarebbe fatta avanti, ma anche AF ha i suoi problemi di bilancio e per un paio di anni non credo se ne parli dell’acquisto di Alitalia (almeno stando alle dichiarazioni ufficiali dell’Amministratore Delegato di Air France). La seconda scadenza è settembre 2013, in cui scade la seconda clausola di lock-up, alla scadenza della quale gli azionisti potranno vendere a chi vogliono la loro quota.

Quindi, da gennaio a settembre 2013, potranno vendere la loro quota solo agli altri azionisti, da settembre 2013 potranno venderla a chiunque si presenti alla loro porta.

2 Commenti

L’intervento del Gip di Taranto sull’Ilva danneggia tutti

postato il 12 Agosto 2012

L’ordinanza del gip di Taranto sull’Ilva rischia di segnare il punto di non ritorno di una vicenda drammatica che coinvolge migliaia di lavoratori e le loro famiglie e arriva dopo anni di incuria e di noncuranza in primo luogo da parte delle autorità locali preposte alla funzione di vigilanza e di controllo della salute dei cittadini.
In tutto il mondo questa decisione verrà interpretata come esempio di una cultura anti-industriale che sta sedimentandosi nel nostro Paese. Tanto era ragionevole la decisione del tribunale del riesame che conciliava l’esigenza di risanamento e la difesa dei posti di lavoro, così questo intervento a gamba tesa del gip fa solo danni a tutti.
L’autonomia della magistratura è un principio che va difeso e che sempre abbiamo difeso ma il protagonismo di certi magistrati di dubbia competenza fa più male alla credibilità della magistratura di tanti suoi incalliti denigratori.

Pier Ferdinando

14 Commenti

Ecco il “Percorso famiglia” del governo

postato il 3 Agosto 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Il governo Monti prosegue la sua attività e ha lanciato il progetto “Percorso Famiglia” con lo scopo di lanciare una serie di misure urgenti per sostenere i nuclei in difficoltà, e associa misure strutturali e misure di emergenza.

Questo progetto, presentato lo scorso 31 luglio dal Ministro della Cooperazione Internazionale e dell’Integrazione, con delega alla Famiglia, Andrea Riccardi, dal Presidente dell’ABI, Giuseppe Mussari e da alcune associazioni dei consumatori firmatarie dell’accordo (Acu, Adiconsum, Adoc, Asso-Consum, Assoutenti, Casa del consumatore, Cittadinanzattiva, Confconsumatori, Federconsumatori, Lega Consumatori, Movimento Consumatori, Movimento Difesa del Cittadino, Unione Nazionale Consumatori), è stato quasi totalmente ignorato dai grandi media, pur presentando delle misure molto importanti per le famiglie. Questo progetto è la risposta a quanti accusano questo governo di inerzia verso i problemi delle famiglie.

Sostanzialmente cosa prevede questo “Percorso Famiglia”?

Prima di tutto un sostegno per l’acquisto dell’abitazione, tramite la modifica del Fondo Per la Casa, un fondo consente alle giovani coppie di ottenere un mutuo agevolato per l’acquisto della prima casa anche se sono precari. Le modifiche renderanno l’accesso più semplice e renderà i tassi maggiormente in linea con il mercato attuale, abbassando il tasso di interesse. Concretamente, le associazioni prevedono di sbloccare 1 miliardo di euro di mutui per le giovani coppie italiane (in cui uno dei due componenti ha un contratto precario).

Il punto successivo è la proroga triennale (proroga che è stabilità dall’articolo 12 della legge di stabilità 2012) del Fondo di credito per i nuovi nati. Il fondo risale al 2009 e nacque con lo scopo di permettere, ai genitori di figli nati tra il 2009 e il 2014, di richiedere prestiti a tasso agevolato fino ad un massimo di 5mila euro. Per inciso, la domanda deve essere presentata entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello di nascita o di adozione del figlio per cui si richiede il prestito (quindi fino a giugno 2015), indipendentemente dal reddito e dalle motivazioni alla base della richiesta.
Dal 1 gennaio 2010 al 30 giugno 2012, le banche hanno confermato 25.986 garanzie e sono stati erogati finanziamenti per 127.266.226,70 euro, concessi da 141 banche in tutte e 20 le regioni.
Oltre che sul sito del fondo (di cui abbiamo riportato il link) maggiori informazioni si possono avere al numero verde 803-164.

Il progetto prevede altri due punti denominati “crescita della famiglia” e “maturità della famiglia”.

Il primo prevede un sostegno per lo studio dei figli facilitando l’erogazione dei finanziamenti del Fondo Studenti (sbloccando finanziamenti per 400 milioni di euro).

Il secondo, invece, prevede la proroga della sospensione dei mutui per le famiglie con difficoltà a pagare le rate. La sospensione ha validità per un anno e si può attivare in caso di perdita del posto di lavoro, cessazione del contratto a termine, morte, grave infortunio, entrata in cassa integrazione. Su invito del governo, inoltre, le associazioni di categoria e l’ABI si sono formalmente impegnate a trovare misure aggiuntive a sostegno delle famiglie che, scaduto l’anno di moratoria, abbiano ancora problemi con le rate e tale impegno ha prodotto dei risultati concreti fin da subito, infatti, hanno determinato che:

– le domande possono essere presentate entro il 31 gennaio 2013
– la scadenza entro cui si devono verificare gli eventi che determinano l’avvio della sospensione, è prorogata al 31 dicembre 2012
– sulla base delle disposizioni di vigilanza per le banche, per l’accesso alla misura di sospensione, l’arco temporale per la definizione di ritardo nel pagamento delle rate è rimodulata a 90 giorni;
– alla sospensione delle rate dei mutui potranno essere ammesse soltanto le operazioni che non ne abbiano già fruito.

Secondo i dati forniti, al 31 marzo 2012 i mutui sospesi dalle banche sono circa 68.000 (8 miliardi di debito residuo). Questo ha garantito alle famiglie interessate una liquidità aggiuntiva di circa 7mila euro a nucleo, 513 milioni di euro in totale.

4 Commenti

Se i consumatori sono costretti a pagare i costi di investimenti sbagliati

postato il 27 Luglio 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giovanni Portonera

Qualche giorno fa la Camera ha approvato, all’interno del decreto sviluppo, un emendamento bipartisan che introdurrà il capacity payment, una remunerazione degli impianti calcolata in base alla potenza messa a disposizione e non alla semplice produzione. Si tratta di un salvagente per le centrali termoelettriche messe in difficoltà in questi mesi dall’alta penetrazione delle fonti rinnovabili, in particolare il fotovoltaico, che ormai sono arrivate a produrre kwh a costi minimi e con priorità di dispacciamento.

Le fonti rinnovabili sono però intermittenti e non programmabili, quindi è necessario tenere centrali termoelettriche a ciclo combinato in funzione, pronte a riequilibrare il sistema elettrico in caso di mancanza di approvvigionamento da energia verde. I costi saranno pagati però dai consumatori e la bolletta potrebbe subire un aumento di 500-800 milioni di euro, con un carico maggiore per le pmi e le famiglie. Questo senza contare che nel mercato elettrico italiano c’è una sovraccapacità di circa il 30%, che in questo momento non serve ai consumatori: con il capacity payment questa potenza in eccesso verrà remunerata e per il consumatore si tratterà di una doppia beffa, perché si tratterebbe di un prelievo oneroso per un bene di cui non ha bisogno.

A cosa si deve questa situazione di stallo? Principalmente alla mancanza di un serio piano energetico nazionale, più volte chiesto dagli operatori del settore, e da scelte avventate – e alla prova dei fatti, non proficue – di imprenditori che, pur consapevoli della possibile espansione del settore delle rinnovabili, hanno continuato a fare investimenti sbagliati. Infatti le centrali termoelettriche dovrebbero lavorare per circa 5000 ore  per ripagare i costi fissi: oggi, però, ne lavorano per 3000-4000 a causa del fotovoltaico e per rifarsi dei mancati guadagni alzano il prezzo dell’energia durante le ore serali in modo ingiustificato. Un comportamento economico, suicida e ingiustificato, oltre che inaccettabile per i consumatori.

Commenti disabilitati su Se i consumatori sono costretti a pagare i costi di investimenti sbagliati

Se la Grecia diventa un monito

postato il 24 Luglio 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

In questi giorni i mercati finanziari europei sono scossi da impetuosi venti ribassisti che hanno molteplici radici accomunate tutte da un palese nervosismo motivato da una paura verso il fallimento della Spagna. I recenti sviluppi, alla luce di alcuni fatti riportati in passato, impongono una riflessione molto seria.

Se la Spagna cadesse, la prossima a rischiare potrebbe essere la Germania a causa della fragilità del sistema bancario tedesco, inoltre ho affermato che se la Grecia dovesse dichiarare fallimento, le perdite per il sistema industriale tedesco si aggirerebbero intorno ai 200 miliardi di euro (circa il 10% del PIL tedesco); la Cina sta rallentando pesantemente e questo apre un possibile scenario di crisi anche in Asia; questi sono fatti oggettivi. In questi giorni, tra altro,  l’agenzia Moody’s ha abbassato a “negative” le prospettive future per l’economia tedesca.

I recenti sviluppi sono legati ad alcune dichiarazioni: pochi giorni fa il ministro spagnolo Montoro ha dichiarato che, se la BCE non avesse comprato i titoli di stato spagnoli (Bonos), il paese iberico non avrebbe avuto la liquidità (ovvero i soldi in cassa) per pagare i servizi.

E’ una dichiarazione pesante, resa al parlamento spagnolo, quindi un contesto ufficiale e nel quale le parole vengono scelte accuratamente e pesate e sono state dette per motivare le pesantissime misure prese dal governo spagnolo. A questo aggiungiamo le recenti richieste da parte di alcune regioni spagnole (Valencia e soprattutto la Catalogna, che, per importanza economica, è la seconda regione del paese iberico). Domenica, invece, il ministro tedesco Rosler ha affermato che l’eventualità del default della Grecia è una ipotesi concreta e che non preoccupa. Ipotesi che anche l’FMI sembra che stia considerando.

Detto ciò, cosa possiamo concludere? E’ possibile che la Germania accetti tranquillamente il costo che comporta il default greco per il suo sistema industriale?

La risposta è si. Nonostante le recenti dichiarazioni da parte del Presidente dell’Eurogruppo Juncker. Evidentemente la riflessione della Germania parte dal presupposto che ormai per la Grecia non ci siano più speranze, ma questo non basterebbe a giustificare l’uscita del ministro.

A mio avviso, la dichiarazione tedesca fa eco a quella del ministro Monitoro e ha un duplice scopo: da un lato spingere affinché Madrid approvi il prima possibile il piano stabilito dal governo, e dall’altro lato usare la Grecia (e le conseguenze che avrebbe il popolo greco uscendo dalla UE) come monito e come esempio verso quelle persone che non accettano il piano di tagli e risanamento varato dai vari governi.

Insomma, si può ipotizzare che la Grecia venga usata come esempio (in negativo) di quel che può accadere se non si rispetta un piano di austerity e si va in default.

Se questa mia personale riflessione è corretta, nel giro di poche settimane vedremo l’uscita della Grecia dalla UE e la sua contestuale dichiarazione di default, con tutto quello che comporterà (aumento dell’inflazione, della disoccupazione e, potenzialmente, disordini).

In ogni caso, nei prossimi giorni vedremo un aumento della volatilità sui mercati finanziari e altri ribassi, come avevo affermato in passato, ma ribadisco che se la Spagna cade, la prossima a seguirla potrebbe essere il sistema bancario tedesco.

20 Commenti

Cosa è il fiscal compact

postato il 21 Luglio 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Nell’era della globalizzazione fa figo parlare in inglese e così sappiamo che in questi giorni il parlamento ha approvato il “Fiscal Compact”. Stupendo. Ma cosa è?
Per dirla in “politichese” è stato ratificato il Trattato di stabilità sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria, che detto così fa ancora più impressione, ma non c’è nulla di strano in quanto il fiscal compact è semplicemente un accordo di diritto internazionale, stipulato al di fuori del diritto comunitario. L’accordo riprende le norme del Six-pack, ovvero il nuovo Patto di stabilità e crescita, e impone di inserire nella costituzione il principio del pareggio di bilancio e la correzione automatica in caso di sforamento. La convergenza verso gli obiettivi di medio termine potrà avere uno scostamento massimo per il deficit strutturale pari allo 0,5% del Pil, salvo in caso delle circostanze eccezionali considerate nel Six-pack. In caso di sforamenti o deviazioni dai target stabiliti, vi saranno dei meccanismi automatici di correzione, mentre è confermato l’obbiettivo di ridurre, a partire dal 2015, di un ventesimo l’anno del debito eccedente il 60% del Pil, salvo periodi di congiuntura particolarmente sfavorevole.
Con l’approvazione del fiscal compact abbiamo dimostrato responsabilità e soprattutto svincoliamo la finanza pubblica dagli interessi individuali, in quanto non potrà più essere usata per ottenere voti e per sprechi, perché per attuare questa norma vi dovrà essere non solo maggiore rigore, ma soprattutto dei controlli oggettivi sui conti pubblici, svincolandoli dalle beghe dei partiti e dall’utilizzo improprio (ad esempio approvare progetti inutili che hanno lo scopo di cercare facile consenso).
Ora abbiamo una tabella da rispettare, in soldoni si tratta di trovare 50 miliardi di euro l’anno e come possiamo trovarli? La risposta è molto semplice: dalla lotta all’evasione che sta venendo attuata, finalmente, in forma dura. Ogni settimana sui giornali leggiamo di indagini della guardia di finanza che trovano irregolarità, d’altronde secondo l’Agenzia delle Entrate sarebbero circa 120 miliardi i capitali sfuggiti alle casse dello Stato e in base ai dati raccolti dall’Istat, il valore dell’economia sommersa e dell’evasione in Italia, sarebbe quantificabile tra i 250 e i 275 miliardi di euro. Per intenderci tra il 16 e il 18% circa del Pil. Secondo Confcommercio questo significa circa 154 miliardi di tasse non pagate. Basterebbe fare emergere questa massa di denaro per avere i soldi necessari per rilanciare la crescita e diminuire il debito pubblico, riuscendo anche ad abbassare le tasse.
Indubbiamente il fiscal compact si può prestare a critiche, ma è indubbio che fosse necessario ed è un passo verso l’integrazione fiscale europea, obbiettivo divenuto imprescindibile alla luce degli ultimi sviluppi in Spagna, dove, pur essendo in crisi da un anno, solo ora si stanno prendendo misure urgenti e pesanti (diminuite le tredicesime, blocco delle assunzioni nel settore pubblico, privatizzazioni, aumento dell’iva). D’altronde questo era un passo necessario, soprattutto alla luce di quanto affermato dal ministro delle finanze spagnolo, Cristobal Montoro, il quale ha detto che senza l’intervento della BCE, la Spagna non avrebbe avuto i soldi per pagare i servizi. In pratica il paese iberico sarebbe stato ad un passo dal default.
Ovviamente la situazione spagnola, unita all’annuncio che la regione di Valencia chiederà un intervento statale per ripianare i suoi debiti, mentre come se non bastasse l’esecutivo spagnolo ha rivisto al ribasso le stime del pil per il 2013 e la Bce, con un tempismo davvero fatale, ha fatto sapere che i titoli di Stato della Grecia non saranno più idonei come collaterali. Questo mix di notizie ha generato pessimismo e ha spaventato gli operatori finanziari, facendo partire vendite a raffica e consegnando un venerdì nerissimo per la borsa, ulteriore riprova che vi è un diffuso clima di sfiducia sulla tenuta dei conti.
Proprio per questo dobbiamo continuare sulla strada tracciata di rigore e di attenti interventi nel taglio delle spese improduttive.

13 Commenti

Nessuna nuova manovra

postato il 19 Luglio 2012

Sintonia su progetto Stati Uniti UE

Questa mattina ho incontrato il Presidente del Consiglio Mario Monti: c’e’ sintonia sulla necessità di procedere non verso una nuova manovra, perché il Paese ha già fatto i compiti a casa, ma verso un’iniziativa europea che porti progressivamente agli Stati Uniti d’Europa.

Pier Ferdinando

 

 

 

17 Commenti

Pier Ferdinando Casini ospite di Radio Anch’io

postato il 18 Luglio 2012

Ospite di ‘Radio Anch’io’ Pier Ferdinando Casini risponde a giornalisti e ascoltatori sui principali temi dell’attualità  politica:  dal sostegno a Monti alle strategie per affrontare un possibile attacco dei mercati, dallo scontro Quirinale-Magistrati alle alleanze in vista della scadenza elettorale di inizio 2013.

Riascolta la puntata

 

 

Commenti disabilitati su Pier Ferdinando Casini ospite di Radio Anch’io

Cosa serve (davvero) alla Sicilia

postato il 14 Luglio 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

Gian Antonio Stella, sul Corriere della Sera di oggi, ha scritto un articolo durissimo – fin dal titolo, “Il Festival degli sprechi” – sul recente stop di 600 milioni di euro di fondi dall’Ue alla Regione Sicilia. L’analisi è impietosa: dal 2000 al 2006, la Sicilia ha ricevuto 16,88 miliardi di fondi europei (il quintuplo dei fondi destinati a tutte le regioni del nord); di questi il 30-40% pare sia gestito dalle mafie. Di 2177 (duemilacentosettasette) progetti finanziati, ne sono stati completati solo 186 (centoottansei): l’8,6% (otto virgola 6 percento). Più di uno spreco, uno scandalo. Per anni in Sicilia sono piovuti miliardi, che invece di trasformare l’Isola in positivo, hanno solo aggravato, peggiorato, portato alla cancrena la situazione. Il centro studi Svimez ha calcolato che il Pil pro capite delle regioni del Sud dal 1951 al 2009, anziché crescere, ha subito rispetto al Nord un netto arretramento, passando – in modo constante – dal 65,3% al 58,8%.

Cos’è che quindi serve davvero alla Sicilia, per invertire la vergognosa tendenza? Di sicuro, meno soldi. Basta rubinetti aperti che servono solo a ingrassare clientele e a offrire una succulenta moneta di scambio a una classe politica parassita e parassitaria. Serve, poi, meno spesa pubblica, tagli netti alla pletorica e non funzionale macchina amministrativa/burocratica della regione. Serve avere il coraggio di dire basta alle infornate per stabilizzare migliaia di precari ogni anno (perché non è così che si crea lavoro!). Serve, quindi, un netto cambio di rotta: innanzitutto serve – paradossalmente – meno politica: serve cioè più spazio per l’iniziativa privata; in Sicilia i livelli di penetrazione industriali sono bassissimi e le varie aziende che nascono sopravvivono spesso solo grazie a incentivi vari, mentre proprio la stessa burocrazia regionale le strangola lentamente (del resto, ce lo insegnò Hayek: chi possiede tutti i mezzi, stabilisce anche tutti i fini). Viva la concorrenza, viva la libertà di investire, vincere (o fallire) quindi! Bisogna poi recedere in profondità i canali di collegamento tra i politici che spartiscono fondi pubblici per interessi privati. Perché, facendo questo, si assesta anche un colpo mortale alla corruzione e ai mille tentacoli delle piovre mafiose: l’Ue ha bloccato la tranche di 600 milioni di euro, perché non condivideva la sua divisione in mille rivoli – una marea di “misure” e “sottomisure” (gli ambiti di intervento) – tali da rendere sempre più piccoli gli importi ma anche più difficili i controlli.

Qualche tempo fa, il ministro della Coesione territoriale Fabrizio Barca spiegava che il dato che più impensieriva gli organismi internazionali non era il pur spropositato livello della nostra spesa pubblica nazionale, quanto l’improduttività di gran parte dei suoi capitoli: in parole più semplici, l’incapacità della spesa pubblica (che è uno strumento utilissimo, da gestire con molta attenzione) di creare ricchezza. E, provate a indovinare, quali sono le regione che più appesantiscono con le loro cattive performance questo già triste bilancio. In Sicilia, per esempio, la spesa pubblica per le infrastrutture è altissima, ma le infrastrutture non esistono. E i soldi stanziati, che fine fanno? Eh.

Se, come è vero, a Ottobre si tornerà a votare per le elezioni regionali, questi saranno i temi che diventeranno ineludibili. Perché, in un momento di stringente crisi come questo, i rubinetti sono destinati a chiudersi, bruscamente. Questo vuol dire che se arriveremo impreparati a quel momento, continuando magari allegramente a spartire posti e incarichi di sottogoverno, il default sarà assicurato.  La scelta sta a noi. Diciamo basta alla Sicilia-Crono che divora i suoi figli e agli interventi palliativi per pony: diamo avvio a una seria cura da cavallo, per rimettere in sesto la nostra terra.

11 Commenti

Expo 2015: il tempo passa, ma a che punto siamo con i lavori?

postato il 7 Luglio 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

In passato ho scritto dell’expo in varie occasioni e ho sempre sollevato dei dubbi in merito alla tempistica e ai costi dei lavori, senza contare i problemi e le vicissitudini dei vertici della società che gestisce tutto l’affare “Expo”.

Oggi i miei dubbi permangono.

Il 30 settembre scorso il consiglio generale di Fondazione Fiera Milano, dopo avere recepito la volontà degli enti locali (Regione Lombardia e Comune di Milano), di comprare i terreni che ospiteranno l’Expo 2015 attraverso la società per azioni Arexpo, aveva deciso di entrare nella suddetta società con una quota del 27,7% del capitale (il Comune di Milano e la Regione Lombardia hanno circa il 69% della società) tramite il conferimento ad Arexpo di una parte, (circa 158 mila metri quadri), delle aree di sua proprietà necessarie alla realizzazione del sito Expo, a un valore pari a 26 milioni di euro. In pratica, la Fondazione Fiera Milano, entra nell’affare fornendo una parte dei terreni (che aveva di proprietà) conferendoli ad una società di cui acquista una parte della proprietà. Sembra uno scioglilingua, ma, questo escamotage assolutamente legale (tengo a precisarlo), di fatto permette alla Fondazione Fiera Milano di entrare nell’affare con un esborso minimo.

Anche il governo sta valutando il suo ruolo, dato che contribuisce alla realizzazione del sito con 823 milioni. Tra le ipotesi c’è anche l’ingresso del ministero delle Finanze dentro Arexpo, oppure la possibilità di uno sconto per lo Stato sulle opere di smantellamento a fine rassegna. A tal proposito riporto la dichiarazione rilasciata qualche giorno fa da Mario Catania, ministro dell’agricoltura, che ha affermato: ”Per l’Expo di Milano faremo tutto il possibile e tu e la tua organizzazione, come l’intero settore agricolo ci darete una mano”. Catania ha ribadito un convinto sostegno all’Expo del 2015 che servirà a ”dare un messaggio e un’immagine del sistema complessivo dell’agroalimentare italiano”.

Ma a che punto siamo con i lavori? Intanto premetto subito che si può rinunciare all’EXPO 2015, infatti, il regolamento del Bie (Bureau International des Expositions, ovvero l’ente supremo che gestisce i vari EXPO) prevede la possibilità di ritirarsi. Il ritiro, a partire da maggio 2012 e fino ad aprile 2013, comporterebbe una penale di 51,6 milioni di euro.

Se invece si continua sull’EXPO 2015, è bene dire che gli interventi previsti costeranno, in base alle ultime stime, fino a 25 miliardi tra opere e costi diretti, cioè creazione degli spazi espositivi di gestione. Questa cifra immane comporta la necessità, per il Comune di Milano, di ottenere una deroga al patto di stabilità interno. Per evitare tale deroga, l’alternativa sono gli investimenti dei privati che coprirebbero tali spese, ma al di là degli impegni verbali, l’intervento dei privati latita. Il Comune meneghino ha preparato un pacchetto di undici progetti obbligatori e di sette qualificanti che, per la maggior parte, dovranno essere finanziati da Palazzo Marino. Il problema, però, è che il Comune non può indebitarsi a causa dei vincoli imposti dal Patto di Stabilità. E il rischio è la paralisi.
Proprio per questo motivo, a Milano è divenuta concreta l’ipotesi che i lavori per la Pedemontana, le nuove linee metro e la bretella di raccordo tra Fiera di Rho e Malpensa, non vengano conclusi per il 2015. A questi problemi aggiungiamo anche il giudizio espresso nel dossier sui sistemi infrastrutturali dell’Osservatorio del Nord Ovest di Assolombarda, stilato lo scorso dicembre che afferma: “dal punto di vista procedurale, si segnala che diverse opere essenziali e connesse non hanno ancora un progetto preliminare approvato, con possibili ripercussioni sulla possibilità di realizzare gli interventi in tempo per l’Expo”.

A fronte di queste spese, quali sono i possibili ricavi (che, sono solo preventivati e ipotizzati, quindi assolutamente non certi)? Questi i numeri previsti: 20 milioni di visitatori di cui un terzo stranieri, settemila eventi in sei mesi, 181 paesi partecipanti, 61 mila posti di lavoro l’anno nel decennio 2011-2020, 3,5 miliardi di euro per la spesa turistica indotta e una produzione nel secondo decennio del secolo di 69 miliardi di euro, il tutto per una crescita del Pil dello 0,18 per cento. Sono numeri credibili? Sui posti di lavoro è lecito sollevare dei dubbi, visti i ritardi nei lavori, ma quel che più preoccupa è che ad oggi, solo 81 nazioni abbiano dato per certa la loro partecipazione firmando i relativi documenti. Vi sono poi una diecina di nazioni tra cui USA, Brasile e Cina che hanno espresso il loro interesse a partecipare, ma solo verbalmente e senza avere sottoscritto alcun impegno vincolante.

Da quanto detto è chiaro che siamo di fronte ad un opera faraonica, ma che, proprio per questo motivo, richiede celerità e massima attenzione per evitare che si facciano “cattedrali nel deserto” come fu per “Italia 90”.

4 Commenti


Twitter


Connect

Facebook Fans

Hai già cliccato su “Mi piace”?

Instagram