postato il 10 Ottobre 2011
“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati
Secondo nuovi calcoli elaborati dall’INPS le pensioni del futuro saranno leggermente più alte di quanto ipotizzato alcuni mesi fa, quando si scatenò una polemica sulle pensioni del futuro (e tutti paventavano pensioni al 30%). Stando ai nuovi calcoli, un lavoratore dipendente andrà in pensione con il 70% dell’ultimo stipendio, mentre un lavoratore autonomo andrà in pensione con il 57% dell’ultimo reddito; tale differenza è da ricercare, motiva l’INPS, nel differente grado di contribuzione: mentre il dipendente versa il 33% dello stipendio lordo, la percentuale del lavoratore autonomo è del 20%.
Ma come si sono svolti questi calcoli? Si è partito dall’assunto che chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995 potrà andare in pensione solo con 65 anni e 3 mesi (nel 2046), qualora avesse i 35 anni di contributi necessari per la pensione anticipata (ovviamente non si calcolano le differenze tra uomini e donne). In alternativa, dovrà attendere fino a 69 anni e 3 mesi, ovvero l’età di pensionamento di vecchiaia richiesta nel 2046, per effetto di tre misure: finestra mobile (la pensione decorre con ritardo di 12-18 mesi rispetto alla maturazione dei requisiti); aumento a 65 anni dell’età di vecchiaia per le donne; adeguamento automatico ogni tre anni dell’età pensionabile alla speranza di vita. In ogni caso anche le pensioni di vecchiaia avranno alla fine almeno 35 anni di contributi alle spalle.
Ma torniamo ai calcoli. Stefano Patriarca, responsabile dell’area pensioni dell’ufficio studi dell’Inps, afferma che se una persona inizia a lavorare oggi, e decide di andare in pensione con 35 anni di contributi nel 2046, avrà il 70% dell’ultimo stipendio (percentuale che, come detto, scende al 54% per un lavoratore autonomo).
Se ipotizziamo invece un lavoratore precario a vita, la pensione sarebbe pari al 57% dell’ultimo stipendio. Certo sono cifre più alte rispetto ai calcoli di qualche mese fa, quando si parlava di pensioni pari al 30% dell’ultimo stipendio, almeno per i precari.
Ovviamente tutti questi calcoli sono al netto delle tasse, e se consideriamo che nelle pensioni non si pagano contributi e si pagano meno tasse rispetto alla retribuzione lavorativa, ecco che il pensionato migliora la propria situazione, rispetto a quanto ipotizzato alcuni mesi fa, soprattutto se andiamo a considerare anche il TFR. Questo miglioramento riguarda anche l’ipotesi di un lavoratore discontinuo, che riesce ad avere “almeno 10 anni di lavoro in nero, 6 da parasubordinato e 22 da lavoro dipendente, si arriverebbe a un assegno pari al 59% dell’ultima retribuzione”.
Patriarca, tra l’altro, ci da ragione su tutta la linea relativamente al considerare il vecchio sistema pensionistico non più sostenibile, affermando che “bisogna dire una volte per tutte che il vecchio mix anzianità-sistema retributivo, che ancora si applica alla stragrande maggioranza dei nuovi pensionati, chi nel ’95 aveva meno di 18 anni di servizio, è insensato”. E questa affermazione nasce da alcuni calcoli elementari, infatti Patriarca ha calcolato che un lavoratore che nel 2010 è andato in pensione a 59 anni con 2.031 euro al mese, che poi è quanto viene liquidato in media dall’Inps ai pensionati di anzianità, avrebbe dovuto prendere, ipotizzando che i contributi versati siano indicizzati e rivalutati con un interesse annuo generoso del 9,5%, non più di 1.050 euro. “La differenza è come se fosse pagata con le entrate dei parasubordinati, degli immigrati, dai contributi di coloro che non arriveranno ad avere la pensione previdenziale anche se hanno pagato i contributi, e con i trasferimenti dello Stato. I 2.031 euro al mese sarebbero equi e corrispondenti ai contributi pagati andando in pensione a 75 anni”.
Allora tutto è a posto? A mio avviso non condivido il leggero ottimismo che pervade l’analisi dell’INPS; non contesto i calcoli, ma è chiaro che se parliamo di un lavoratore precario che arriva a 1000 euro al mese (uno stipendio medio), allora questa persona prenderebbe il 59%, ovvero 590 euro al mese, che è una cifra bassa per poterci vivere con tranquillità. Anche se aumentiamo lo stipendio di partenza, e lo portiamo a circa 1300 euro, che è lo stipendio medio in Italia, otteniamo 767 euro. Non è certo tantissimo, se consideriamo il costo medio della vita. Se parliamo di un lavoratore dipendente, otteniamo rispettivamente 700 euro e 910 euro, cifre che non permettono certo una vecchiaia tranquilla.
Allora il problema è nel calcolo delle pensioni? La realtà è che il vecchio sistema non è sostenibile, quindi bisogna passare al sistema contributivo. Il vero problema è nel mercato del lavoro: lo stipendio medio degli italiani deve essere necessariamente innalzato e bisogna sostituire contratti di lavoro stabili, ai contratti di lavoro precari. Questo non può avvenire con una imposizione da parte dello Stato, ma creando le condizioni per rilanciare lo sviluppo in Italia, che si traduca in maggiori posti di lavoro e quindi un innalzamento delle retribuzioni (è storicamente dimostrato che durante le crisi o durante la stagnazione economica, gli stipendi tendono a contrarsi, mentre quando vi è un aumento dell’occupazione, gli stipendi per effetto del mercato del lavoro e delle sue dinamiche, tendono ad aumentare).
A tal proposito, fa bene l’on.le Casini a volere proporre delle proposte per favorire i contratti a tempo indeterminato tra i giovani, combattendo in tal modo il precariato a vita, come ha affermato recentemente.