100% Made in Italy, il fattore umano dell’impresa, il federalismo: la parola a Confartigianato
La redazione del blog pierferdinandocasini.it intervista quest’oggi il Presidente Nazionale del gruppo Alimentari Vari di Confartigianato, dott. Mauro Cornioli che ringraziamo per la disponibilità.
Il suo settore come sta vivendo la crisi internazionale di questi anni?
Nonostante la crisi finanziaria, posso affermare che il settore alimentare si sta comportando molto bene. Consideri inoltre che la piccola impresa si difende meglio perché realizza un prodotto tipico di una determinata zona, che da un lato non è facilmente omologabile o replicabile altrove, e dall’altro si presta bene anche ad essere esportato quando è un prodotto di qualità.
D’altro canto mi sembra che, nello specifico della sua azienda, il settore erboristico ha vissuto con la globalizzazione e l’import-export con i paesi orientali come ad esempio la Cina, e quindi siete “abituati” a confrontarvi con il Mondo.
Indubbiamente si. Basti pensare a Marco Polo e alla “via della seta” con la Cina su cui transitavano anche spezie e piante officinali. Si importavano prodotti 500 anni fa dalla Cina, si importava dalla Cina 100 anni fa, si continua ad importare dalla Cina anche adesso.
Oggi però vi sono stati alcuni cambiamenti: alcuni prodotti che venivano importati dalla Cina, ad esempio, ora sono importati dall’Est Europa, e certe merci importate dall’Est Europa sono di nuovo prodotte in Italia e poi esportate. Ma questo non è l’unico mutamento.
Un cambiamento molto importante, e che premia l’economia italiana, proviene dal rialzo del costo della manodopera cinese a seguito della crescita di questo paese e il risultato è una crescente difficoltà per i cinesi nei settori dove è preponderante appunto il costo della manodopera.
In molti si lamentano della scarsa capacità competitiva dell’Italia, per migliorare questa situazione, lei cosa farebbe?
E’ importante ripristinare la verità rispetto alla confusione che impera attualmente. Per fare un esempio: una etichettatura trasparente sarebbe molto importante. Ci sono le intenzioni, ma poi queste ultime non si traducono in fatti. La legge Reguzzoni – Versace sul Made in Italy che fine ha fatto? E’ una vergogna che la legge, anche se approvata, sia sparita perchè i decreti attuativi non sono stati fatti. Come vede ci sono buoni slanci, ma poi ci si ferma. E questo non è possibile
Lei cosa suggerisce a tal proposito?
Non mettiamo i dazi, ma trovo che sia una vergogna che i paesi del Nord Europa dicano che l’Italia, paese con una grande tradizione manifatturiera ed estremamente competitivo in termini di manualità, di idee e di inventiva, non possa proteggere il Made in Italy. Il consumatore deve essere informato e deve essere certo che contenuto ha quel prodotto, perché, se vuole un prodotto italiano, deve sapere come e dove è stato prodotto, come diceva le legge Reguzzoni – Versace.
Quindi mi sembra di capire che lei sostenga che la legge Reguzzoni – Versace avrebbe permesso di distinguere tra un prodotto etichettato Made In Italy, ma che di italiano ha solo il passaggio finale e che magari è prodotto altrove, ed un prodotto che è fatto interamente in Italia.
La legge Reguzzoni – Versace cosa diceva? Dava forza ad un nuovo marchio che era culturalmente forte e vincente, ovvero il marchio “100% made in Italy”, così il consumatore sapeva che il marchio “Made in Italy” poteva indicare anche un prodotto che in parte era fatto anche in Cina, mentre il marchio “100% Made In Italy” indicava un prodotto fatto interamente in Italia, tutti così sarebbero stati coscienti di quel che compravano. La piccola impresa che produce esclusivamente in Italia, sarebbe stata premiata.
A proposito di grandi imprese: in questi giorni vi è stato il “referendum” di Mirafiori. A mente fredda, lei che impressione ha avuto dell’intera vicenda?
In questo momento il sindacato deve svincolarsi dal difendere chi fa assenze ingiustificate o chi non comprende l’importanza di essere altamente produttivi. Ecco, se il sindacato continua questa difesa, allora sbaglia.
Ma sbaglia anche Marchionne, perchè non si possono buttare via 60 anni di relazioni in 5 minuti. La trattativa doveva essere gestita meglio e la vittoria è stata sofferta. Per altro nessuno ha parlato della cosa più grave che è successa, ovvero che la Fiat è uscita da Confindustria.
Scusi, potrebbe esplicitare meglio questo suo concetto su Confindustria e Fiat?
Io mi chiedo: cosa farà ora Confindustria senza la Fiat? E le altre imprese resteranno in Confindustria o anche loro se ne usciranno? Lo stile Fiat diventerà un modello per tutti ? Anche perchè bisogna vedere cosa decide di fare la Confindustria che è pur sempre uno dei maggiori sindacati datoriali, inteso come sindacato dei datori di lavoro. Bisogna vedere, infatti, se manterrà un concetto etico fondato sulle relazioni sindacali e il confrontro con lo Stato o se deciderà di raggiungere Fiat nelle sue scelte di rottura. Inoltre si apre un altro quesito molto importante: considerando che all’interno di Confindustria vi sono aziende a partecipazione statale (le ferrovie, Finmeccanica, Enel, Eni per citarne alcune), è giusto che lo Stato paghi Confindustria seppur attraverso il constributo associativo? O questo non genera un conflitto di interessi visto che, senza Fiat, cresce il peso dello Stato all’interno di Confindustria che a sua volta dovrebbe confrontarsi con il governo sui temi lavorativi? Ecco, queste sono domande importanti a cui bisognerebe dare risposta, ma che sembrano non trovare posto nel dibattito odierno.
Sostanzialmente lei afferma che vi è il rischio che in Confindustria restino solo le aziende a partecipazione statale o che quanto meno abbiano un peso preponderante; e considerando che queste stesse aziende pagano un grosso contributo associativo a Confindustria, si potrebbe prefigurare una sorta di conflitto di interessi, giusto?
Assolutamente si, anzi vi è anche una concorrenza sleale verso le altre associazioni datoriali, come Confartigianato, CNA, Confcommercio, e così via, che per essere più forti hanno dato vita a Rete Imprese per porsi come quarta gamba del tavolo nelle trattative. Però noi viviamo solo delle quote associative pagate dalle piccole imprese totalmente private, mentre Confindustria, come detto, ha anche questo contributo da parte delle aziende a partecipazione statale.
A proposito di Rete Impresa, Guerrini, il presidente dell’associazione, ha parlato del rischio che il federalismo fiscale porti nuove tasse alla piccola impresa. Lei che ne pensa?
Consideri che la fiscalità generale è rimasta elevata, e in più sono stati aggiunti in questi anni, tutta una serie di balzelli locali anche in ossequio a direttive europee, come quella per i controlli sui prodotti alimentari attuata dalle ASL ad esempio. E qui mi chiedo: il federalismo fiscale non è che porterà nuove tasse a livello comunale, provinciale, regionale? Tenga presente che il piccolo imprenditore non ha usufruito dello scudo fiscale, perchè la grandissima maggioranza delle piccole imprese pagano regolarmente le tasse. Noi vogliamo vedere, ad esempio, come si svilupperò il discorso sugli studi di settore e il redditometro, che può anche essere utile nella lotta all’evasione. In questo momento bisognerebbe tutelare davvero la piccola impresa che fa fatica a chiudere i bilanci, anzi capita che vi è gente che lavora anche in perdita pur di ammortizzare i costi fissi.
Per finire mi piacerebbe un suo giudizio sul ruolo delle banche in Italia. Verso gli istituti di credito vi è un rapporto ambivalente da parte del grande pubblico: da un lato si chiede rigore agli istituti di credito per evitare che possano esservi fallimenti come è accaduto negli USA, dall’altro si chiede maggiore elasticità verso il credito alle famiglie e alle imprese. Lei da imprenditore, sente le banche italiane come amiche o pensa che sono “fredde” verso il sistema produttivo e le sue esigenze?
Questo inseguire il modello americano, non è l’ideale, perchè il modello anglosassone ha prodotto la crisi, di contro il sistema bancario italiano, con le sue particolarità si è difeso meglio: grazie all’aver evitato di concedere credito facile garantendosi sempre della capacità di rimborso, sul credito al consumo, su investimenti rischiosi. Però il sistema bancario italiano ha perso il rapporto che aveva prima con l’imprenditore. Troppa attenzione ai bilanci e poca verso l’imprenditore, verso la famiglia, verso le persone .
Bisogna recuperare la dimensione dei valori, dove è necessario mantenere l’attenzione ai bilanci delle piccole imprese, ma poi la banca deve anche valutare il passato e le prospettive future dell’imprenditore. Un imprenditore che magari non ha il bilancio in attivo, ma che investe nella propria impresa, dove la famiglia intera partecipa all’attività imprenditoriale , è un imprenditore che meriterebbe di essere aiutato. Bisogna recuperare il rapporto umano tra l’imprenditore e la banca.