Perché sulla Legge Elettorale serve, prima di tutto, buon senso
“Riceviamo e pubblichiamo” di Francesco Scavone
Il dibattito politico, negli ultimi giorni, si è concentrato sul tema della legge elettorale. Su tv e giornali si soprappongono quotidianamente voci discordanti, spesso con toni abbastanza forti, che rischiano di soffocare il vero tema di fondo e far cadere nel nulla ogni sforzo per riformare l’attuale sistema.
Ma chiariamo prima un concetto fondamentale: sono molti coloro i quali pensano che il tema in questione sia di poco conto, che la politica dovrebbe concentrarsi sulle questioni vere e non perdersi in estenuanti confronti su argomenti del genere. Sia chiaro: una migliore legge elettorale non potrà risollevare direttamente le condizioni delle nostre famiglie, non potrà apparentemente dare risposta alle difficoltà dei cittadini. Ma se facciamo un’analisi più attenta, ci accorgiamo che è proprio dalla legge elettorale che possono provenire quelle stesse risposte. È infatti la legge elettorale che determina la composizione del Parlamento, la scelta dei nostri rappresentanti, momento non secondario nella vita di un Paese che vuole pensare a risollevarsi.
Chiarito questo, risulta inevitabile affermare la necessità non più rinviabile di mettere mano alla legge tuttora vigente. Sin dall’avvento del Governo Monti le forze politiche hanno sempre concordato su questo punto, avviando un dialogo interminabile che ad oggi non ha ancora visto il raggiungimento di un’intesa, nonostante i continui e attenti moniti di Napolitano. Si sono susseguiti tavoli di confronto, dichiarazioni, smentite, passi indietro che hanno travagliato sempre di più il percorso della nuova legge elettorale. In questo scenario, hanno giocato un ruolo decisivo le posizioni discordanti sul metodo di scelta dei parlamentari e su quella che viene definita stabilità. E così si sono confrontati coloro che considerano migliore il sistema dei collegi con quelli che privilegiano il metodo delle preferenze, così come c’è stato ampio scambio di opinioni sulle percentuali collegate al premio di maggioranza.
Mi limito ad alcune considerazioni. Che si debba recuperare un rapporto diretto tra elettore ed eletto è fuori di dubbio; ce lo ricorda quotidianamente la disaffezione degli italiani dalla politica, che richiede appunto un maggior impegno in questo senso. Ma quale miglior strada delle preferenze, che addirittura ci permetterebbero di esprimere doppie scelte di genere?
Il maggior oggetto di discordia però risulta essere il premio di maggioranza. Sono notizia di questi giorni le forti reazioni del centro-sinistra all’approvazione in commissione di un emendamento che prevede lo scatto del premio solo per la coalizione che superi il 42,5% di consensi. Le critiche provengono da chi, pur consapevole della necessità di una soglia minima riconosciuta anche dalla Corte Costituzionale, ha accusato di blitz la parte avversa. Tutto ciò risulta ancora più strano se consideriamo le percentuali dei partiti della coalizione in questione: i sondaggi, in ogni caso puro metro indicativo, indicano che PD+Sel+Psi raggiungerebbero livelli che si attestano intorno al 30%. Quindi, tirando le somme, chi ha queste percentuali pretende di avere più del 50% dei seggi in Parlamento? A parer mio, questa non è una questione di stabilità o governabilità, ma di buon senso.
In questa confusione, si sta perdendo la vera bussola. Il dialogo deve essere alla base della riforma, ma non può risolversi in ostruzionismi o atteggiamenti di critica incondizionata. Ogni forza politica deve assumersi la propria responsabilità, perché è in gioco il futuro di questo Paese. L’incapacità di un certo modo di far politica – determinato, sia chiaro, anche dall’attuale sistema elettorale – ha fatto sì che si dovesse ricorrere a nuove figure esterne. Possiamo permetterci che queste intervengano anche su un tema così strettamente politico?