postato il 8 Aprile 2012 | in "app, Politica"

«Meno rigidità sul lavoro, la riforma si può migliorare»

Pubblichiamo da ‘Il Messaggero’ l’intervista a Pier Ferdinando Casini

di Carlo Fusi
ROMA – Pier Ferdinando Casini scuote la testa: «La frase di Luigi Angeletti sul fatto che era meglio Berlusconi di Monti, io la capisco. E purtroppo ne traggo un giudizio molto amaro: per una parte del Paese meglio non fare nulla che fare qualcosa. Meglio vivere nello statu quo piuttosto che cercare di cambiare le cose. E questa è esattamente la ragione per cui l’Italia è andata a fondo. Perché dal governo Prodi a quello Berlusconi c’è stata una tragica continuità: si sono rinviati i problemi invece di affrontarli. Un governo come quello di Mario Monti che in quattro mesi affronta dalla riforma previdenziale alle liberalizzazioni, dalle semplificazioni alla manovra suppletiva e infine alla riforma del lavoro è un governo che rompe il continuismo, la tranquillità che c’era. Davvero c’è chi non ricordi che noi una dozzina o poco più di settimane fa noi eravamo all’anticamera della Grecia e che quella malintesa normalità proprio lì ci aveva portato?».

Presidente, adesso sul tappeto c’è la riforma del lavoro. Deve rimanere com’è o va cambiata? E come?
«Credo che la riforma del lavoro la si possa vedere come un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Però è giusto ricordare che fino a qualche mese fa era inimmaginabile che si affrontasse questa tematica. L’articolo 18 e il reintegro per motivi economici è limitato entro dei binari talmente stretti che di fatto, secondo me, al mondo industriale che si spaventa di una certa rigidità e di un contenzioso davanti al giudice, va detto che la riforma non può che essere migliorativa della situazione attuale».

Va bene. Ma le modifiche?
«Ci arrivo. Penso che si possa e si debba rivedere la normativa che concerne la flessibilità in entrata. Perché ho paura che in presenza di una crisi economica così forte, alcune mancate flessibilità possano portare i datori di lavoro, da oggi al giorno in cui la nuova normativa entrerà in vigore, ad alleggerirsi di personale. La flessibilità in entrata tutti noi vorremmo in teoria ridurla, ma di fatto oggi è uno strumento per inserire delle persone nel mondo del lavoro».

Insomma, via libera alla battaglia di emendamenti in Parlamento.
«Il Parlamento non è un passacarte. C’è stata una consultazione limpida con le parti sociali, un confronto con i partiti di maggioranza, adesso c’è il vaglio delle Camere».

Forse è per questo, per pararsi dal pericolo di stravolgimenti, che Monti vuole mettere la fiducia.
«Potrà anche capitare che il governo ponga la fiducia, ma questo non potrà certamente avvenire prima di un vaglio molto profondo della riforma nelle Commissioni di merito e in aula, che comporti l’emersione di alcune contraddizioni che il mondo imprenditoriale ha ravvisato».

Però la Marcegaglia ha definito la riforma very bad, praticamente pessima. E altre voci industriali parlano addirittura di controriforma.
«Emma Marcegaglia è una persona sicuramente molto ragionevole. E credo sia giusto sottolineare come gli imprenditori hanno dato del governo Monti un giudizio positivo che certamente non cambia per il contenzioso emerso sull’articolo 18. Inviterei tutti a guardare la complessità dell’azione del governo. Non dimentichiamo che Cofferati per molto meno portò tre milioni di persone in piazza. I tempi cambiano e l’esecutivo Monti interpreta il cambiamento dei tempi. Comunque sulla flessibilità in entrata una riflessione che possa inserire elementi migliorativi c’è lo spazio per attuarla».

Ma il gioco di smontare pezzo dopo pezzo il provvedimento c’è o no?
«Qui non si tratta di giocare. Non vedo questo rischio. Anche perché la situazione economica nella quale ci troviamo rende ancora più complicata la situazione. Ho parlato con Bersani e gli ho anticipato queste riflessioni sulla flessibilità in entrata, e non credo che nessuno possa prendere cappello».

Sulla riforma del lavoro il governo può andare a sbattere? Può compromettersi il rapporto fiduciario con la sua maggioranza?
«Bersani, Alfano ed io siamo persone d’onore: abbiamo stipulato un accordo politico, credo che nessuno abbia intenzione di smentirlo. Sulla possibilità di miglioramenti penso si possa raggiungere una intesa ampia. Questo almeno è il mio auspicio e in questa direzione ci batteremo».

Resta che lo spread torna a salire. Quando c’era il governo Berlusconi tutti glielo hanno imputato. Perché non vale la stessa cosa per Monti?
«Quello che era successo con la fase finale del governo Berlusconi era sostanzialmente che la Spagna aveva 200 punti di spread in meno dell’Italia. Oggi la situazione è mutata a nostro favore: abbiamo fatto passi avanti e ciò è innegabile. Il problema vero è che le tensioni sullo spread sono la dimostrazione di come la crisi è di lunga gittata. Chi pensava che Monti avesse la bacchetta magica o che bastasse qualche provvedimento per risolvere la questione, beh si disilluda. Lo sforzo di Monti e dei partiti che lo sorreggono è necessariamente di lungo periodo. Aggiungo che l’Europa deve cambiare registro, deve preoccuparsi della crescita. Forse è il momento degli eurobond e di scomputare dai parametri del debito pubblico gli investimenti per le infrastrutture. Ho sentito il presidente del Consiglio e mi è sembrato fortemente determinato a lavorare sulla crescita. Nei prossimi giorni sarà questa la priorità anche per quel che attiene al confronto con i partiti che lo sostengono».

Lei ha detto di essersi sentito con Bersani. Ha parlato anche della legge sul finanziamento dei partiti?
«Certamente. Bersani oltre me ha chiamato anche Alfano. Siamo d’accordo sulla necessità impellente di varare misure stringenti. Faccio questa proposta. Il ministro Severino ha tutti gli elementi per agire sul provvedimento anti-corruzione. A questo punto si inseriscano lì le nuove norme sulla trasparenza dei bilanci dei partiti».

Lei ha rinunciato ai benefit come ex presidente della Camera. Quanta ipocrisia c’è in questo gesto?
«Io non pretendo di essere imitato o applaudito. Ho fatto un gesto che sentivo. Ho pieno rispetto nei confronti di tutti gli ex presidenti della Camera, non mi permetterei mai di fare il professore. Ho semplicemente voluto dare un segnale perché oggi il limite della politica è che gli impegni assunti non si traducono in fatti».

A proposito di fatti, la riforma elettorale la fate o no?
«La riforma elettorale serve a due obiettivi. Prima di tutto, restituire ai cittadini la possibilità di scegliersi i parlamentari. Poi, finite le coalizioni-Brancaleone che vincono ma non governano, è utile un meccanismo che, sul modello tedesco, consenta ai partiti di presentarsi con la propria identità e creare coalizioni omogenee. E’ chiaro che il secondo è un obiettivo per il cui raggiungimento occorre una precisa volontà politica. Se invece si vuole prendere i difetti del sistema tedesco accantonandone i pregi, si fa un pasticcio. Voglio essere chiaro. Se si vuole artatamente trasferire il premio di maggioranza che c’è oggi dalle coalizioni ai partiti più grandi, Pd e Pdl, noi non lo possiamo accettare. Poiché le vecchie coalizioni sono impresentabili c’è chi, per ovviare a quella impasse, immagina di trasferire il premio di maggioranza sui partiti. Mi limito ad osservare una cosa: se passasse quel meccanismo, il 60 per cento dei seggi verrebbe assegnato a partiti la cui somma oggi supera a stento il 45. Non è realizzabile, e non è giusto».

Allora per la riforma è il de profundis…
«Niente affatto. Noi siamo disponibili a correttivi al modello tedesco. Si vuole dare un piccolo premio di maggioranza al partito che vince? Va bene. Ma non si può stravolgere la realtà del consenso. Comunque noi proporremo la grande coalizione anche per il dopo il 2013, e avremo la forza per farlo con qualunque sistema elettorale: il Terzo Polo ha raggiunto una massa critica rilevante. Con Fini e Rutelli sappiamo bene che il Terzo Polo è un seme, un passaggio, non un punto d’arrivo. C’è bisogno di un soggetto politico nuovo che metta insieme le forze migliori del Paese, tecnici e politici, sindacalisti e imprenditori: un partito degli italiani che sappia parlare il linguaggio della pacificazione nazionale».

Come giudica la vicenda giudiziaria che riguarda la Lega? E’ la fine del Carroccio?
«La Dc non è morta per Tangentopoli, la Lega non morirà per questo scandalo. La grande spinta innovativa del Carroccio si è arenata nella demagogia, nel populismo, nelle magliette satiriche, nelle ronde, nelle ampolle del Po. La Lega aveva due strade: fare un movimento come l’autonomismo catalano di Pujol oppure inseguire la demagogia. Ha scelto di navigare tra la demagogia e il potere, ed ha finito per perdere l’anima. Bossi è stato un innovatore e non ha usato la politica per arricchirsi. Ma non ha avuto la caratura per trasformare il suo partito. E’ rimasto a Roma ladrona».

Però il centrodestra per come si è configurato negli ultimi dieci anni ora rischia di rimanere senza rappresentanza politica. Chi prenderà il posto di Berlusconi e di Bossi?
«E’ la sfida dei prossimi mesi. Io sono convinto che non ha molto senso fare appello all’unità dei moderati: diventa un ulteriore escamotage che non serve. Quello che serve è un progetto politico. I moderati possono essere uniti solo se riflettono criticamente su quello che è successo negli ultimi dieci anni. Se invece c’è chi continua a parlare il linguaggio dell’aritmetica puntando a improbabili sommatorie di spezzoni vari, non coglie il nocciolo vero della questione».



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