La lunga agonia delle Province
“Riceviamo e pubblichiamo” di Roberto Dal Pan
Da almeno 65 anni, cioè dalle discussioni in seno all’Assemblea Costituente, il destino delle Province è stato più volte messo in discussione ed altrettante volte la sorte è stata benigna, risparmiando generazioni di politici dallo spettro della disoccupazione. Questa articolazione periferica dello Stato, apparsa nella nostra penisola al seguito delle truppe napoleoniche agli inizi del XIX secolo, ha trovato qui un fertile terreno di coltura che ne ha garantito una rigogliosa crescita, facendole passare da quota 59 del 1861 a quota 110 del 2011 con un incremento medio di una neonata Provincia ogni tre anni di storia unitaria.
Come già detto, alla nascita della Repubblica si pose subito il problema della coabitazione tra le Province, retaggio centralista franco-sabaudo, e le nuove (sarebbe meglio dire le rinascenti) Regioni patrocinate da democristiani e repubblicani, forti delle rispettive tradizioni autonomistiche, ma fieramente avversate dai social-comunisti e dai conservatori. Come sappiamo, il compromesso scaturito dai lavori della Costituente rinviò fino agli anni ’70 del secolo scorso la piena attuazione del decentramento regionale ordinario e proprio allora ripresero vigore i tentativi di abolizione delle Province.
Negli ultimi tempi, alle motivazioni più precisamente giuridiche a favore dell’abolizione dell’istituto provinciale si sono aggiunte valutazioni di natura economica, in qualche caso con connotati di pura demagogia e scarsa obiettività. La realtà dei fatti è che, mentre la Regione si va sempre più affermando come pilastro non del mero decentramento amministrativo ma di un vero e proprio autogoverno del territorio, la Provincia si trova spesso a galleggiare nell’indifferenza dei più e sopravvivere all’ombra della prima garantendo buoni posti di ripiego per molti delusi dalle competizioni elettorali.
Nemmeno chi ha costruito le proprie fortune elettorali sparlando a vanvera di federalismo ha però saputo introdurre efficaci forme di innovazione degli strumenti del decentramento amministrativo; anzi con le proprie iniziative legislative ha per primo condannato alla morte per consunzione le amministrazioni provinciali, salvo versare oggi lacrime di coccodrillo.
Ma davvero oggi è possibile fare a meno delle Province? E se sì, a quali condizioni e con quali strumenti?
E’ sempre una buona abitudine cominciare ad analizzare un problema partendo dai dati sicuri a disposizione, uno dei più interessanti è quello relativo alla popolazione residente: la Provincia più popolosa d’Italia è Roma con più di 4 milioni di abitanti seguita da Milano con 3 milioni abbondanti; la meno popolosa è la Provincia dell’Ogliastra con 58.000 abitanti, preceduta dalla Provincia di Isernia con quasi 89.000. L’evidente sproporzione tra questi dati denuncia tutto il peso del problema!
Anche nell’analisi dei dati relativi alla superficie emergono considerazioni interessanti: la Provincia più estesa d’Italia risulta essere Bolzano con quasi 7.400 kmq seguita da Foggia, Cuneo e Torino che si fermano poco sotto i 7.000 kmq; la Provincia più piccola d’Italia è Trieste con i suoi 211 kmq al cospetto dei quali anche i 365 kmq della penultima, cioè Prato, sembrano tanti. Trieste è anche la Provincia che raggruppa il minor numero di Comuni, solo 6, mentre quelli che compongono la Provincia di Torino sono ben 315!
Il fatto che tutte queste amministrazioni provinciali siano rette dal medesimo impianto burocratico è cosa assolutamente incredibile; è ben comprensibile come Trieste e Prato potrebbero essere meglio organizzate sul modello delle città metropolitane mentre per Roma, Milano, Torino e Napoli il governo provinciale si trova ad amministrare più cittadini che un’entità statuale autonoma come la Bosnia, l’Albania o la Moldavia!
L’abolizione “tout court” delle Provincie ordinarie porterebbe ad un risparmio di circa 65 milioni di euro, stando ai più recenti calcoli dell’Università Bocconi, ma l’accento non credo vada posto tanto sull’aspetto economico quanto sulla necessità di una vera riforma federalista che faccia perno sulle Regioni e sui Comuni, enti questi ultimi che a loro volta andrebbero rivisitati nella loro strutturazione. Le politiche di area vasta potrebbero essere quindi affidate ad organi consorziali di secondo livello in cui siano chiamati a partecipare gli stessi amministratori comunali, nell’ambito delle linee di coordinamento regionali, a patto che non si vengano a creare nuovi centri di spesa.
Le uniche zone dove potrebbero essere mantenute strutture sul tipo delle attuali Province, con particolari attribuzioni di autonomia, sarebbero le aree montane delle Regioni più estese, allo scopo di adeguare le forme di governo dei territori di pianura alle realtà, anche molto diverse, delle zone maggiormente svantaggiate rappresentate per l’appunto dalle aree montuose, il tutto nel pieno rispetto dell’art. 44 della Carta Costituzionale.
Vedremo se questa volta il Parlamento avrà l’occasione per porre finalmente in atto una svolta storica nell’organizzazione delle autonomie locali oppure se, ancora una volta, le Province confermeranno la loro caparbia capacità di sopravvivere (politicamente) a tutto ed a tutti.