Carceri, diamoci subito da fare in Parlamento
postato il 15 Agosto 2011Dobbiamo accettare la giusta provocazione radicale di occuparci di più delle carceri italiane e arrivare con dei provvedimenti veri in Parlamento.
Pier Ferdinando
Dobbiamo accettare la giusta provocazione radicale di occuparci di più delle carceri italiane e arrivare con dei provvedimenti veri in Parlamento.
Pier Ferdinando
La mattina del 13 agosto 1961 l’immaginaria cortina di ferro di Churchill diventava una terribile realtà per i cittadini di Berlino: tre metri di cemento deturpavano l’ex capitale della Germania unita e la sventravano nei pressi della Porta di Brandeburgo. La “Barriera di protezione antifascista”, questo il surreale nome del muro di Berlino secondo i capi della RDT, era in realtà il muro di una prigione grande quanto la Germania Est il cui fine era evitare che il popolo della Germania socialista potesse scappare nel mondo libero. Ventotto anni dopo, nel novembre del 1989, questo monumento alla tirannia comunista venne travolto dalla storia ma le sue pareti, nel frattempo, si bagnarono del sangue di almeno 136 persone. Sulla tomba di fantasia del muro una mano berlinese scrisse: “1961-1989, nacque, si bagnò di sangue, morì”.
C’è un fenomeno che mi preoccupa particolarmente in Italia: l’abitudine. Col passare dei mesi e degli anni, infatti, abbiamo assistito a moltissime brutture nel nostro Paese. Questi episodi, però, hanno fatto sempre meno scalpore, come se il popolo italico si fosse abituato a troppe cose che tempo fa non avrebbe minimamente sopportato. E ciò accade soprattutto nei riguardi della politica.
Ad oggi è impossibile contare sulle dita gli scandali che hanno colpito questa parte della società che naviga in un mare davvero poco pulito, fatto di appalti illeciti, festini e mazzette. Tuttavia, gli italiani sembrano essercisi abituati, mentre chi proprio non ne può più, piuttosto che utilizzare le proprie energie per impegnarsi concretamente, preferisce trasformare la propria indignazione in un odio fatto di qualunquismo ed egoismo che, quanto è più forte, meno è utile.
D’altro canto, la politica non fa nulla per spegnere questo fuoco d’ira che gli italiani stanno covando e, anzi, lo alimentano a suon di liti, insulti e divisioni. E’ questo il motivo principale per cui l’appello alla coesione nazionale del leader UdC, Pier Ferdinando Casini, ha suscitato tanto scalpore: non è ciò che un italiano si aspetterebbe da un politico, di opposizione per giunta.
E allora ecco lo sciacallaggio mediatico, di chi ha subito accusato Casini di voler aiutare Silvio Berlusconi, di voler entrare nella maggioranza del premier. Ma, come già ampiamente ricordato, l’UdC è all’opposizione e, rispettando il sacrosanto volere degli elettori, vi rimarrà fino alla fine di questo governo.
Questo episodio, però fa riflettere. Fa capire che non esiste più, nelle menti del nostro popolo, l’idea che si possa lavorare assieme, uniti, anche se da distanti banchi del Parlamento. Non c’è più l’idea di solidarietà ed impegno, necessario in questo periodo di grave crisi economica mondiale e così, mentre in Italia si litiga, o si chiedono nuove elezioni, in Europa e nel mondo si prendono le decisioni importanti, col rischio che il nostro Paese rimanga fuori da questo giro che alcuni italiani stessi avevano contribuito a creare. Ma quelli erano altri tempi, altre persone e, soprattutto, altri politici.
Per questo motivo serve coesione nazionale: non possiamo far sì che l’Italia precipiti nel baratro più di quanto non lo sia già. Servono misure concrete, condivise e, se serve, anche impopolari. Serve voltare pagina, cambiare davvero l’Italia, recuperare quell’identità nazionale bistrattata. La nostra identità: quella di persone forti, decise e combattive. Non possiamo aver dimenticato tutto ciò: le seppur grandi delusioni non possono aver spazzato via anni di grande politica e di grandi virtù.
C’è un solo modo per fare questo, però: smettere di litigare, ricordarsi che l’avversario politico non è un nemico, ma una persona con cui confrontarsi e con cui crescere insieme. Bisogna lasciare da parte gli egoismi, l’ambizione e l’odio: ora pensiamo all’Italia e agli italiani.
“Riceviamo e pubblichiamo” di Marta Romano
Ci sono tanti modi per fare antimafia. Uno dei più ammirevoli è l’antimafia sociale, fatta dai cittadini, spesso senza protezione, poi c’è quella della magistratura e delle forze dell’ordine, e infine quella più “di palazzo”, l’antimafia legislativa, che spesso è la più efficace, perché è in grado di dare gli strumenti giuridici per questa lotta impari. È un’antimafia che si esprime con le leggi e che in ultima battuta è stabilita dalla politica, dalle maggioranze o dalle intese bipartisan, cosa ancora più suggestiva e auspicabile, in un Paese che dovrebbe unirsi superando le divisioni politiche per sconfiggere una piaga fino ad oggi incurabile. Capita dunque che il Parlamento si esprima favorevolmente e con un certo grado di coesione per conferire al governo la delega per la stesura del nuovo codice antimafia, testo che riunisce la normativa vigente armonizzando i vari strumenti giuridici un po’ sparsi e scoordinati fra loro.
La proposta del governo, contenuta in un decreto legislativo, ha fatto molto discutere tanto che Libera, la rete che raggruppa le associazioni antimafia e principale attore sociale di lotta alla mafia, ha diffuso un appello per prorogare l’approvazione del codice. Un appello inascoltato: il governo ha fatto orecchie da mercante, recente l’epilogo della vicenda:codice antimafia approvato dal consiglio dei ministri con le congratulazioni reciproche tra passati e presenti guardasigilli, entrata in vigore fissata per il 7 settembre.
Punto di forza dell’antimafia è sempre stato il sequestro, la confisca e la restituzione alla legalità dei beni appartenenti a soggetti condannati per reati di mafia, procedimento reso possibile dalla lungimirante opera di Pio La Torre, che non a caso venne ucciso dalla mafia proprio per aver lanciato l’idea della confisca dei beni mafiosi, scaturita poi in una legge del 1996, obiettivo raggiunto grazie a una raccolta firme di Libera. Oggi questo strumento così utile, così efficace appare indebolito, spuntato, compresso nella sua portata dal codice di emanazione governativa. Nel testo si stabilisce infatti che tutto l’iter che porta all’assegnazione al pubblico dei beni confiscati deve terminare entro un anno e sei mesi dall’inizio della procedura. Scaduto questo termine, la ghigliottina: vanificato tutto il lavoro della magistratura e delle forze dell’ordine, fatto di riscontri, perizie, indagini approfondite tra Italia e estero, una mole di operazioni che difficilmente si possono concludere in quei tempi ristretti. La paura delle tante associazioni antimafia e di tanti magistrati è che questa previsione si traduca in una sorta di prescrizione generalizzata di tutte le misure di prevenzione patrimoniale nei confronti delle mafie. Ma come? Se c’è un modo per colpire il sistema mafioso in maniera in qualche caso irreversibile è proprio la confisca dei beni e il loro riutilizzo a fini sociali, e lo si va a minare così? Le preoccupazioni sono fondate: l’universo mafioso è tutt’altro che sofferente, oggi i volumi di affari sono sempre più ingenti e il Nord si sta mostrando sempre più impermeabile a questo business parallelo. Un business che dà lavoro a tante persone, ecco perché così vitale e reattivo. Gli strumenti su cui possono contare le forze che reprimono il fenomeno devono espandersi, non comprimersi, specialmente in un momento così delicato quale è quello della crisi economica e di grossi investimenti nel Centro-Nord (infrastrutture e Expo2015 in primis).
L’appello che chi sensibilizza l’opinione pubblica alla lotta alla criminalità organizzata rivolge al governo è che ripensi il codice che ha prodotto. Impegno della politica deve essere quello di affermare l’idea che un Paese dove prosperano le mafie non è un Paese libero. Non si possono ammettere poteri opposti o paralleli che applicano le loro leggi, di Stato ce n’è soltanto uno e siamo noi, la moltitudine di cittadini onesti che chiede un Paese libero e non schiavo. I segnali positivi sono tanti ma non possono essere scoraggiati da una legislazione indifferente: molti commercianti del Sud si stanno ribellando al racket del pizzo, i molti beni confiscati ai mafiosi vengono recuperati e offerti alla collettività, l’ammirevole azione delle forze dell’ordine sta dando i suoi frutti. Liberarci dal tiranno è possibile ma solo con gli strumenti adatti, con le armi spuntate non si arriva a nulla.
Riceviamo e pubblichiamo Stefano Barbero
E’ giunto il momento di abbandonare la politica delle parole e dei discorsi per passare ai fatti concreti. Lo richiede la situazione economica mondiale e quella del nostro Paese. Proviamo a stilare una piccola agenda di cosa da fare urgentemente, possibilmente con la collaborazioni di quanti, al di là delle idee politiche e degli interessi di parte, hanno a cuore il futuro dell’Italia e degli italiani. Ecco, a mio modesto avviso, le cose principali da fare:
Riceviamo e pubblichiamo di Andrea Magnano
L’andamento dell’economia a livello mondiale impone una attenta riflessione che non può più essere solo locale, ma globale. A mio avviso il progresso tecnologico ha portato al punto di rottura il sistema sociale su cui ci siamo sempre basati: il nostro sistema è centrato sull’assunto di “lavorare di più, per produrre di più e guadagnare di più”. Aumentando la produttività, aumenta la ricchezza, i consumatori aumentano e si assumono altri lavoratori. Questo trade off era particolarmente vero in una società preindustriale. Con l’avvento della industrializzazione negli ultimi secoli, si è assistito ad un prosieguo, a mio avviso fittizio, dell’assunto di cui sopra. Perché dico fittizio? Inizialmente l’industrializzazione ha portato un aumento nella produzione di merci con una progressione di poco superiore a quella del passato. Anche se di poco superiore, questa progressione aumentò enormemente la disponibilità delle merci e abbassò il loro prezzo. Al contempo il progresso tecnologico creò nuovi beni, servizi e soprattutto nuovi bisogni: l’industria dell’intrattenimento, ad esempio, è “recente”, ha circa 100 anni; come pure altri settori industriali (auto, frigoriferi, televisione, computer) e altri servizi (servizi finanziari, l’industria del marketing, della pubblicità, del turismo di massa, e così via). Chiaramente la tecnologia ci ha portato immensi benefici: la qualità della vita è enormemente migliorata, e questo è innegabile.Ma questo ci ha resi ciechi di fronte ai pericoli intrinseci, e ci “impedisce” di impostare una analisi seria della situazione attuale. La crisi mondiale ci impone di analizzare la situazione attuale, soprattutto perché, nonostante gli indici di produttività segnino un aumento costante, non altrettanto si può dire con la disoccupazione, vecchia e nuova: nell’ottobre del 2010, gli studi del FMI evidenziarono come non solo non si era ancora assorbita la disoccupazione creata con la crisi del 2008, ma che bisognava “creare” almeno 40 milioni di posti di lavoro annui (su questo punto si veda il rapporto dell’autunno scorso del FMI, su cui mi soffermerò un altro girono), per reggere le pressioni di chi si affacciava al mondo del lavoro nei paesi occidentali, in quelli arabi e senza contare le pressioni demografiche cinesi.Come si spiega l’aumento di produttività, con un indice di disoccupazione che non mostra sensibili miglioramenti? Spesso il problema si pone e viene discusso a livello nazionale, ed è una cosa logica se consideriamo che i politici devono rendere conto al loro elettorato: un politico italiano deve “tutelare” chi lo ha eletto, e quindi gli elettori italiani, la stessa cosa per i politici tedeschi (ricordiamo come la Merkel ritardò molto gli aiuti alla Grecia, proprio perché aveva prima bisogno del consenso popolare della Germania), francesi, statunitensi, cinesi e così via. Ma questo non risolve il problema, perché non lo individua correttamente. Il problema, come ho accennato prima, risiede nel fatto che ormai la tecnologia, permette una produzione sempre più automatizzata, con tassi di efficienza e produttività sempre più alti e sempre meno bisogno di manodopera umana. Per fare degli esempi: nell’industria dell’auto gli impianti sono quasi totalmente automatizzati e una fabbrica con 7000 operai può oggi produrre lo stesso quantitativo di macchine che prima producevano 20.000 operai. Altro esempio è nell’industria dei microchip: oggi si può produrre lo stesso quantitativo di microchip del 2000, impiegando solo un quarto della forza lavoro che serviva nel 2000: in pratica oggi con 25 operai si produce quanto 10 anni fa producevano 100 lavoratori. E questo processo è in atto da anni, solo che non ce ne rendevamo conto, perché con il progresso tecnologico si creavano nuovi settori produttivi (ad esempio il marketing) e nuovi bisogni (ad esempio fino a 20 anni fa, chi aveva bisogno di un cellulare?) su cui si spostava la forza lavoro in eccesso degli altri settori. Oggi purtroppo non si riesce più a creare nuovi servizi, o nuovi prodotti, si tende a migliorare ciò che c’è, e anzi si procede ad una automazione sempre maggiore. In Francia le aziende hanno bloccato le assunzioni, come anche in Italia, e la Germania tiene grazie alle esportazioni, ma anche nel paese della Merkel si notano i primi rallentamenti. Pensare che una nazione possa lavorare ed esportare a tempo indeterminato, è utopico: la tecnologia e il sapere sono facilmente esportabili e replicabili. Il Brasile, la Cina, l’India ne sono un esempio. E quando i lavoratori cinesi e indiani passeranno dall’agricoltura all’industria, cosa avverrà?
Un altro esempio sono gli uffici pubblici o privati: un tempo i documenti dovevano essere archiviati, e vi erano enormi archivi cartacei e persone che si occupavano del loro controllo e dell’archivio, ma oggi con i computer, questo stesso lavoro può essere svolto da una persona.
Le banche, ad esempio, stanno investendo molto sui servizi via internet e sui bancomat “evoluti” dove si può non solo prelevare, ma anche pagare utenze e depositare soldi.
Ma se queste operazioni si possono fare da casa o tramite bancomat, viene meno la funzione di chi lavora allo sportello e con il tempo molte filiali potrebbero chiudere.Giusto per citare una notizia di questi giorni la banca britannica Barclays ha annunciato che potrebbe tagliare circa 3mila posti di lavoro nel 2011 nell’ambito del piano per ridurre i costi. Il numero uno del gruppo, Bob Diamond, ha detto nel corso di una conference call, che nel primo semestre c’e’ stata una riduzione di 1.400 posti. Il gruppo ha chiuso i primi sei mesi dell’esercizio con un utile netto in calo del 38% a 1,50 miliardi di euro a fronte di un risultato di 2,43 miliardi registrato nello stesso periodo dell’anno precedente. Ma allora quale è la soluzione? Rifiutare la tecnologia? Assolutamente no. Come ho detto la tecnologia ha migliorato la nostra qualità di vita.
Semmai la risposta può essere nel cambiare la nostra struttura sociale, e per fare ciò bisogna che questo problema si ponga a livello internazionale portando avanti nuove regole comuni a tutti.
Il progresso tecnologico, avrebbe dovuto portarci a lavorare meno: con un minore numero di ore di lavoro si può produrre lo stesso quantitativo di prodotti di qualche anno fa.
Oggi, ognuno di noi, tende a lavorare più degli altri, ma la tecnologia ci permetterebbe di lavorare di meno e lavorare tutti: meglio che lavori una persona 8-12 ore e un’altra sia disoccupata, o che tutte e due lavorino magari 4-6 ore a testa?
L’incidenza del “costo umano” con il progresso tecnologico si va riducendo, inoltre il maggiore costo di un maggiore numero di impiigati, verrebbe riassorbito perché se lavorano molte persone, queste stesse persone, avendo uno stipendio, potranno acquistare beni e servizi (mentre è lapalissiano che chi non lavora, non avendo una fonte di reddito, non può spendere).
Questa soluzione potrebbe anche non bastare o non essere gradita.
Allora si potrebbe anche ipotizzare una distinzione tra “beni necessari” e “beni non necessari”: per quelli necessari potrebbe provvedere lo Stato, per quelli non necessari si provvederebbe individualmente con il proprio lavoro. Ad esempio, si può pensare una abitazione standard per tutti, e poi se io lavoro e guadagno posso comprarmi una casa più bella. Il progresso tecnologico ha permesso l’abbattimento dei costi di molti beni di prima necessità.
E’ ovvio che sto solo abbozzando delle ipotetiche soluzioni, ma quel che mi preme è di porre il problema, perché solo ponendolo si può iniziare a trovare una soluzione.
Il vero problema non è la crisi contingente, ma che il nostro modello sociale di sviluppo sta mostrando la corda, ora che il progresso tecnologico ha permesso un aumento esponenziale della nostra produttività.
Se questo problema non verrà dibattuto nelle sedi apposite, dubito che avremo delle soluzioni strutturali ed efficaci ai problemi della disoccupazione mondiale
Riceviamo e pubblichiamo di Mario Pezzati
Chi non ama gli animali non ama gli uomini. Combattiamo insieme le violenze e gli abusi contro i nostri animali. La crudeltà nei loro confronti è crudeltà nei confronti degli uomini.
Pier Ferdinando
Il Paese rischia di morire di troppa demagogia
Pubblichiamo da “Il Messaggero” l’intervista a Pier Ferdinando Casini
di Claudio Sardo
«Non mi sono mai illuso che la doppia sconfitta elettorale inducesse Berlusconi alle dimissioni. Finché il pallottoliere di Montecitorio gli darà la maggioranza, proverà a resistere. Ma ciò aggrava le condizioni dell’Italia: questo governo, paralizzato dai contrasti, naviga a vista e non è più in grado di produrre le decisioni che servono al Paese». Pier Ferdinando Casini, leader Udc, risponde così all’appello lanciato ieri dal premier alle opposizioni. «Con tutto il rispetto per Berlusconi, noi abbiamo sempre dimostrato senso di responsabilità. E quando si è trattato di questioni di interesse nazionale, invece che di leggi ad personam o di baggianate proposte dalla Lega come il trasferimento dei ministeri, non è mai mancato il nostro apporto. Ma ora il premier non può cavarsela con la propaganda: o si va alle elezioni anticipate o si forma un governo di responsabilità nazionale. Qualunque altra soluzione non è all’altezza dei problemi. Piuttosto che galleggiare, o continuare con le polemiche come quelle di oggi tra Crosetto e Tremonti, meglio votare subito. Se invece, dopo tre anni persi, si volesse davvero dare un significato positivo alla legislatura, allora non c’è altra strada che un governo di ampie convergenze per realizzare le riforme economiche e istituzionali più urgenti».
Pubblichiamo l’intervista a Pier Ferdinando Casini su ‘La Stampa’ di Antonella Rampino
Risponde rapido alle domande più semplici, «proporre ora la riforma fiscale è da irresponsabili», «l’idea di un Ppe italiano, detta da Berlusconi che ha rotto con me e cacciato Fini, è un misto di propaganda e di ipocrisia». E rilanciare la legge sulle intercettazioni, con la P4 che squaderna «tante sciocchezze, ma anche un sistema di potere che si nutre della debolezza della politica, è perlomeno sospetto».
Soprattutto, «la difesa della privacy va bene, ma di mettere il bavaglio alla libera stampa non se ne parla neanche». Poi inforca la porta di Angela Merkel. E quando il telefonino squilla ha appena fatto ciao, «ma da lontano», proprio a Silvio Berlusconi. «Esportare all’estero le beghe italiane mi fa accapponare la pelle. E poi che ci parlo a fare? Non è più tempo di convenevoli…». Però, degli incontri al margine del vertice del Ppe e del Consiglio Europeo a Bruxelles, qualcosa Pier Ferdinando Casini dice: «Si tenta di convincere l’opposizione greca di Nuova Democrazia ad appoggiare il piano di risanamento di Papandreou, senza l’unità nazionale nemmeno l’Europa può aiutare la Grecia. E’ un momento storico e drammatico, che ha qualcosa da insegnare all’Italia. Anche noi rischiamo. L’Italia sta andando a fondo perché la maggioranza c’è, ma il governo non fa nulla». E di fronte a questo, «l’importante non sono le promesse e la propaganda ma il fare, le cose concrete». Di fronte a questo «se Berlusconi resta o se ne va è poca cosa…»
Eppure lei ha posto quella precondizione per riavvicinarsi al centrodestra. E nel dibattito alla Camera è stato tra i più duri. Tanto che Berlusconi ha commentato che con lei è rottura, non c’è più niente da fare… Stavate trattando?
«No, infatti non c’era niente da rompere. Io non sono stato duro, sono stato come sempre leale. Ho detto in faccia a Berlusconi che se lui facesse un passo indietro non sarebbe un suicidio, sarebbe un atto d’intelligenza e di lungimiranza per il futuro suo e del centrodestra. E del Paese».
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In tempi di personaggi politici mediocri o assolutamente ridicoli può essere utile ricordare in occasione della festa della Repubblica il Capo provvisorio dello Stato e primo presidente della Repubblica Enrico De Nicola. Napoletano, brillante avvocato e giurista diede lustro alle istituzioni del Regno e della Repubblica ma fu soprattutto un galantuomo che, pur avendo ricoperto tutte le massime cariche dello Stato, non rinunciò mai ad onestà, umiltà ed austerità nei costumi.
Memorabile rimase il cappotto rivoltato di De Nicola, che non fu solo protagonista di tante uscite ufficiali ma anche il segno di una classe politica che era chiamata a fare sacrifici come ogni altro cittadino italiano per ricostruire l’Italia uscita devastata dal secondo conflitto mondiale. Pochi forse sanno che il nostro primo Capo di Stato era monarchico e che probabilmente il 2 giugno, come tanti meridionali, votò perché rimanesse il Re; eppure questa circostanza non gli impedì di accettare l’incarico che di capo dello Stato provvisorio per cui era stato designato con l’accordo di tutte le forze politiche. De Nicola sapeva che il bene del Paese veniva prima del bene del Re e delle proprie convinzioni personali. Enrico De Nicola forse lo ricordano in ben pochi, forse è un nome familiare per quanti hanno una certa dimestichezza con le domande di certi test e concorsi pubblici, allora questa festa della Repubblica può essere un buon motivo per riaprire l’album di famiglia dello Stato repubblicano, non solo per vedere la foto sbiadita di uno dei suoi padri, ma anche per avere l’opportunità di rileggere un passo del discorso di insediamento del Presidente De Nicola (15 luglio 1946): «dobbiamo avere la coscienza dell’unica forza di cui disponiamo: della nostra infrangibile unione. Con essa potremo superare le gigantesche difficoltà che s’ergono dinanzi a noi; senza di essa precipiteremo nell’abisso per non risollevarci mai più». Parole, quelle di De Nicola, pronunciate per un Paese prostrato dalla tragedia della guerra, ma che restano sempre valide, specie in tempi difficili, e che vale la pena ricordare nel centocinquantesimo anno dell’unità d’Italia.
“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi