Quanto PIL, lavoro, soldi sono legati al settore farmaceutico?
postato il 18 Febbraio 2010‘Riceviamo e pubblichiamo’ di Gaspare Compagno
Dopo le note vicende legate agli annunci della Glaxo mi sono posto un quesito: ma quanto PIL, lavoro, soldi sono legati al settore farmaceutico e biomedicale in Italia?
La risposta è: tanto, tanto, tanto.
Una cosa assolutamente incredibile, di cui ignoravo l’ampiezza.
Se pensate che sto esagerando, ecco alcuni dati del 2008: in Italia abbiamo 250 aziende produttrici di prodotti farmaceutici finiti, a cui sommiamo 100 aziende che producono materie prime (sostanze farmaceutiche che necessitano di ulteriore lavorazione).
Molte di queste sono aziende piccole o medie, poi ci sono i colossi: la Glaxo; la Novartis che ha tre centri, quello direzionale e logistico a Caronno Pertusella (Lombardia), quello di ricerca sui vaccini a Siena e quello produttivo in Campania; Schering-Plough in Lombardia e così via.
Ognuna di queste aziende impiega direttamente, alcune migliaia di dipendenti: la Sanofi-Aventis ha 3400 dipendenti; Wyeth Laderle ne conta oltre 2000 e così via.
Si tratta non solo di dipendenti nel settore produzione e commercializzazione, ma molti di loro sono ricercatori: ad esempio il centro a Siena è il polo mondiale della Novartis nella ricerca sui vaccini.
Ma queste aziende sono solo alcune, il 31,1% delle aziende farmaceutiche in Italia, sono a capitale italiano: la Sigma-Tau, Angelini, Menarini, Chiesi-Bracco, giusto per citare le più grosse; ad esempio la Menarini conta 12500 dipendenti, di cui 700 nella ricerca (e un fatturato nel 2007 di 2,5 miliardi di euro). E finora parliamo solo dei dipendenti diretti: se consideriamo anche l’indotto il numero sale enormemente.
Su un totale di 340 aziende coinvolte a vario titolo nel settore farmaceutico, 277 sono PMI, mentre le altre sono grandi aziende. Le PMI hanno complessivamente 20.120 dipendenti, e investono sempre più nella ricerca, unica strada per contrastare lo strapotere delle grosse multinazionali.
A livello geografico i principali raggruppamenti coinvolgono mezza Italia: Lombardia, Veneto, Toscana, Emilia Romagna e Lazio. Addirittura la Lombardia conta 100 aziende e 32 centri di ricerca.
A proposito di ricerca: nel 2007 il 90% della ricerca farmaceutica italiana è stata finanziata da privati con un investimento di circa 1 miliardo di euro, quindi a livello pubblico quello che si investe sono briciole (circa 200 milioni di euro), in un settore dove Cina, Singapore, Usa investono sempre di più.
Nel frattempo anche la Pfizer decide di chiudere il suo stabilimento a Nerviano (Lombardia), seguita dalla Merck Shampe & Dome che chiudono il loro centro a Pomezia.
Ma cosa pensa di fare il governo?
E qui veniamo alle note dolenti: nonostante le belle parole del Governo, si registra la totale assenza di una strategia nazionale per incoraggiare il settore e la ricerca farmaceutica , anzi negli ultimi anni si assiste ad una erosione dei margini di profittabilità per il privato, con il risultato che, prevedibilmente, un settore molto promettente per il futuro vedrà lo spostamento di investimenti produttivi verso altre nazioni, in particolare Cina, USA, India. L’unica novità viene dal ministro Tremonti che ha promesso di introdurre una riforma fiscale premiante nei confronti della Ricerca , troppo poco, mi sembra, rispetto alle richieste avanzate dal presidente di farmindustria, Dompè.
E’ troppo poco se consideriamo che da tre anni si attende invano che il governo recepisca la direttiva europea in campo farmaceutico, rischiando, a causa del mancato recepimento, un richiamo e una sanzione da parte della UE. Ed è l’unico paese europeo a non avere ancora recepito la direttiva comunitaria: quale è la conseguenza? Che non vi è una esatta rispondenza tra legislazione italiana e certificazioni italiane e legislazione e certificazioni europee, con la conseguenza che, dovendo scegliere, le aziende preferiscono investire in Europa, che non Italia.
Ma il problema è ben più ampio e riguarda non solo il settore farmaceutico, ma anche altre strutture in altri settori: la Alcoa entro tre anni chiuderà le sue strutture, l’Italtel di Carini chiude, la Keller a Palermo chiude, la Wyeth a Catania chiude, l’ALcatel chiude a Battipaglia, il centro di ricerca di Cinisello Balsamo della Nokia chiuderà molto presto, come anche il centro di Parma della Nestlè.
E l’anno scorso hanno chiuso la Motorola a Torino e la Yamaha a Monza.
Non è un fenomeno isolato, e non riguarda solo un settore, ma è un fenomeno che investe tutte le regioni italiane. Un fenomeno che non trova risposta dal governo, che pure professa ottimismo.
Eppure il governo ha una colpa gravissima: reagisce, ma dopo; prima non fa nulla, e si muove solo quando è troppo tardi.
E la chiusura di impianti non è dovuta solo al costo del lavoro, una scusa che non regge più in settori dove è sempre maggiore la presenza di macchinari, più che di lavoratori poco qualificati. Lo stesso settore tessile ormai è influenzato poco dal costo della mano d’opera.
Allora quale è il motivo? Manca una azione di governo che sia concreta. Non servono le trasferte faraoniche in terra straniera.
Quel che serve sono accordi semplici con i paesi per avere aree di libero scambio e canali agevolati nel commercio, e per attirare gli investimenti, si potrebbero usare i beni demaniali non usati, magari dandoli in usufrutto gratuito alle aziende che decidono di investire, in tal modo le aziende abbatterebbero i costi senza pesare sulle casse dello stato e andando incontro anche alle esigenze delle PMI che spesso hanno problemi per potere avere strutture a prezzi non eccessivi; un’altra diea per le PMI potrebbe essere, prestiti a tasso agevolato da parte delle banche, garantiti da beni dello stato. Sono solo tre idee, ma, nell’assenza di idee di questo governo, sono molte.