Tutti i post della categoria: Riceviamo e pubblichiamo

La mia generazione è diversa da quella passata

postato il 14 Febbraio 2011


Non voglio dire che sia peggiore o migliore, ma che presenta dei tratti decisamente differenti. I valori sono sempre gli stessi anche se hanno subito dei cambiamenti. Uno, in particolare, sul quale mi voglio soffermare, è quello della politica, un valore che non ci coinvolge più.

Eppure la politica non è una cosa per “dinosauri”, come la si vuole rappresentare oggi. La politica è passione per una causa,  per un ideale. E’ rabbia per qualcosa che non riteniamo giusto, o perché non ci piace la società di oggi. Intanto i giovani se ne infischiano. E’ qui che sta la differenza generazionale. La mia generazione è di quelli che hanno capito, già da giovanissimi che il sistema è questo e nulla può essere cambiato. Che è meglio appassionarsi a uno  sport o a un passatempo che sia leggero e divertente. Ecco, manca anche la dimensione di divertimento alla politica. Divertimento che non si trova solo nello “sballo”, ma anche in altre attività che coinvolgano la persona, che la invoglino a socializzare e interessarsi.

La mia generazione è quella dei disillusi.

Gli ideali si possono mettere tranquillamente da parte. Sappiamo rassegnarci ad una nazione che probabilmente non riuscirà ad offrirci un posto di lavoro, come una mamma che non riesce ad accontentare i bisogni dei figli. Una mamma che ci dice “bamboccioni” e che ci offre lavori che riteniamo non all’altezza dei nostri studi e delle nostre capacità. Non abbastanza remunerati per pagarci un mutuo o il prezzo di un affitto, spesso improponibile.

Non importa.

Non è un problema cercare lavori più gratificanti e con pagamenti più generosi in altri paesi.  Forse perché siamo meno legati, da tradizioni e usanze, alle nostre terre. Seguiamo il detto “morto un Papa se ne fa un altro”, senza tante nostalgie e malinconie. Anzi, con la voglia di divertirsi e crearsi nuove amicizie. Preferiamo questo “sforzo”, noi, che combattere contro chi non vuole cambiare lo status quo.  In fondo la disillusione ci ha preparato a questo.  D’altro canto, penso che un paese che lascia partire i suoi giovani senza muovere un dito, ha fallito nell’aspetto più importante della politica, ovvero creare il futuro. Il continuo sperpero di risorse degli anni passati è stato fatto senza lungimiranza.

Pensandoci bene, conviene a molti che questa mia generazione sia fatta di gente disillusa, perché solo loro potrebbero scuotere veramente l’Italia, basta guardare dall’altra parte del Mediterraneo.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giovanni Blesi

Commenti disabilitati su La mia generazione è diversa da quella passata

Il 17 marzo: abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani

postato il 11 Febbraio 2011

Thiago Motta è nato in Brasile e parla portoghese e spagnolo ma ha sangue italiano. “La maglia dell’Italia è sempre stato il mio sogno, ancor prima di rappresentare una grande squadra, sono fiero di rappresentare un grande paese”, queste le sue parole alla prima convocazione in nazionale del ct Cesare Prandelli contro la Germania. Un ragazzo ventottenne emozionato e commosso che prometteva: ” Per il momento non canterò l’inno, lo conosco ma non mi sono ancora abituato alla melodia, ma prometto di rifarmi presto. Orgoglioso di aver scelto di essere italiano e giocare con l’Italia ”. Muto dunque come tutti quei politici e amministratori locali o impegnati di vari livelli che rifiutano di cantare l’Inno di Mameli ma che non possono trovare la scusa di non conoscere la melodia e che forse non lo canteranno nemmeno il prossimo 17 marzo.

Il 17 marzo 2011 sarà una data molto importante, ricorrono infatti i 150° anni del nostro paese. In quello stesso giorno, nel 1861, veniva proclamata la prima legge del Regno d’Italia, l’articolo unico secondo cui l’allora sovrano del Regno di Piemonte e Sardegna Vittorio Emanuele II veniva proclamato dal parlamento primo re d’Italia. Di quel periodo è anche la celebre fatta del lungimirante marchese d’Azeglio Massimo Tapparelli, autore del romanzo dimenticato e noto ormai a pochi cultori di lettere “Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta”, senatore del regno e presidente della Provincia di Milano:” Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”: Il marchese non aveva torto, ora bisognava occuparsi di cementificare e riunire non solo geograficamente ma anche in spirito e civiltà la neonata nazione Italiana. Ma questo non è mai successo e sin dai primi giorni di questi 150 anni si crearono sacche di profondo disagio e incomprensione. Da un lato il sud, ben raffigurato dai quindici tomi dell’Inchiesta Jacini del 1877: un mezzogiorno che aveva bisogno di un modello di sviluppo formato sull’integrazione di industria e agricoltura, sulla razionalità liberista e lo sviluppo di idee e meritocrazia che invece riceveva, se e quando riceveva qualcosa, soldi a pioggia erogati in piani straordinari destinati a esaurirsi nelle mani di pochi potenti o innovazioni destinate ad essere cattedrali nel deserto. Un sud che non aiutato a costruire razionalmente e umilmente un nuovo modello di sviluppo cadeva sotto i colpi della delusione e del brigantaggio, iniziando a rimpiangere quel regno Borbonico del Re Franceschiello e Napoli capitale d’Europa e potenza del mondo svenduta a monarchi montanari . Dall’altro lato il nord, il nord liberale e parlamentare che guardava con senso di emulazione e anche un po’ di indivia la borghesia inglese e francese e sognava di esportare anche in Italia la rivoluzione industriale che in Europa si stava sviluppando, quel nord che temeva di portarsi il sud come un peso sulle spalle che avrebbe inceppato la sua corsa al successo. Paure, speranze, desideri pur giusti che sia da un lato che dall’altro andavano incoraggiati o ricuciti quando invece si sono acuiti con reciproca diffidenza. Sacche di pensiero che ancora oggi restano, intrappolate ed esasperate negli schemi di meridionalisti e padanisti. Ogni tanto emerge anche qualche novità, giusto per dire “ci siamo anche noi” : i bolzanini , dopo la proposta referendaria per rendere i cartelli e i nomi delle strade solo in lingua tedesca, adesso tramite il presidente della loro provincia autonoma annunciano il proprio distacco dal 17 marzo protestando a favore della dimenticata e sfruttata minoranza austriaca. Viceversa spunta un principe sabaudo con una grande voglia di festeggiare e quasi offeso di non essere stato invitato alle celebrazioni. Mancano all’appello solo gli indipendentisti sardi ma al momento sono quieti o per lo meno hanno altre gatte da pelare, come l’elezione del nuovo segretario dopo le dimissioni dello storico leader.

E che facciamo il 17 marzo allora? Chi festeggia e che cosa festeggia? Andiamo a lavorare o no? Personalmente posso comprendere le preoccupazioni di chi come la presidente di Confindustria vorrebbe che la produzione italiana non perdesse ulteriori colpi e continuasse a lavorare, ma un giorno in più, un giorno meno non credo possa affossare o resuscitare la nostra economia e credo che ogni tanto fermarsi e guardarsi negli occhi per capire chi siamo sia necessario e doveroso. Anche riguardo alle scuole c’è molta polemica, personalmente io opterei per questa iniziativa: tenere aperte le scuole ma interrompere la didattica ordinaria per celebrare una giornata all’insegna dell’Unità d’Italia, con conferenze, filmati, dibattiti e interventi. Personalmente io il 18 febbraio, anniversario della prima riunione del Parlamento Italiano, tornerò nel mio ex liceo a guidare con il mio prof il progetto e laboratorio multimediale di storia ed ed.civica Demopolis dedicato proprio ai 150 anni dell’Unità d’Italia.

Il 17 marzo sarebbe meglio fermarsi per evitare che una festa appena istituita non nasca già mutilata; guardiamoci negli occhi, guardiamoci dietro le spalle ma soprattutto avanti e oltre. Italia, abbi coscienza di te!

“Riceviamo e pubblichiamo” di Jakob Panzeri

2 Commenti

Il piano del governo incentiva solo le chiacchiere, mentre la produzione industriale è ferma al palo

postato il 10 Febbraio 2011

Quando il Governo aveva annunciato che avrebbe dato vita ad un piano organico di incentivi per rilanciare l’economia italiana, avevo sperato che, per una volta, il mondo politico passasse rapidamente dalle parole ai fatti. Purtroppo le mie speranze sono state disattese anche questa volta.

Il Piano Incentivi non è, a mio avviso, né di rapida attuazione, né contiene stimoli concreti, ma è ricco di belle parole e di begli obiettivi, ma gli italiani hanno bisogno di altro. Hanno bisogno di misure concrete, certe e che siano rese attuabili. E nulla di tutto ciò si trova in questi provvedimenti: le modifiche ai tre articoli costituzionali (aticoli 41, 97, 118), di fatto sono delle enunciazioni assolutamente generiche e teoriche, ma soprattutto diverranno operative solo alla fine di un lungo procedimento (ogni modifica costituzionale ha bisogno di vari passaggi alle camere per essere poi operativa, e deve avere una valutazione da parte della Corte Costituzionale), diventando pienamente operative solo tra alcuni mesi, anzi, se vogliamo essere precisi, le decisioni prese ieri dal Consiglio dei Ministri diverranno operative tra circa un anno e mezzo, infatti, per le modifiche costituzionali ci vuole la doppia lettura a Camera e Senato, e le due letture devono essere distanziate di circa 6 mesi l’una dall’altra. E tutto questo diventerebbe operativo se in entrambi i passaggi, non sorgessero modifiche, altrimenti i tempi si dilatano ulteriormente.

Per quanto riguarda, infine, gli altri provvedimenti, neanche questi diventeranno immediatamente operativi: siccome sono legati alle modifiche della costituzione, ne seguono tutto l’iter, ma anche se fossero immediamente pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, porterebbero ben poco beneficio: il rilancio del piano casa, a io avviso, non avverrà, perchè si tratta di riesumare il vecchio piano casa del governo, che è già stato bocciato e disatteso dalle Regioni. E allora mi chiedo: cosa è cambiato dall’anno scorso, quando si è preso atto che il piano casa è rimasto lettera morta? Assolutamente nulla. Eppure sarebbe bastato, come avevamo detto, accettare i suggerimenti dell’ANCE che erano stati portati avanti in occasione della manifestazione del dicembre 2010.

L’unico provvedimento di una certa utilità sarebbe il taglio e la deducibilità dell’IRAP, legandola ad alcuni fattori come il costo del lavoro, assunzioni e così via; ma questo provvedimento, per divenire operativo, dovrà attendere almeno 18 mesi, quindi è come se non ci fosse. Ma allora, cosa ha prodotto l’ultimo Consiglio dei Ministri?

Delle belle intenzioni, ma nulla di concreto, ovvero i soliti spot, come sembra confermare il Ministro Tremonti quando afferma che bisognerà attendere Aprile per un paino concreto: “La nostra agenda è dettata e definita dall’Europa in Europa. Noi abbiamo sempre avuto come termine di riferimento il semestre europeo e l’agenda europea ed è su quello schema che dobbiamo lavorare”, ha detto Tremonti.

“Entro aprile presenteremo un documento che sintetizza il piano per la crescita, siamo convinti che sia necessario sentire tutti ma abbiamo intenzione di avere il sostegno di Fmi, Ocse e commissione europea.” Da quel che il Ministro ha affermato, si desume che la programmazione economica del governo italiano non dipende certo da Berlusconi, ma dalla UE, e allora mi chiedo: a che serve convocare un Consiglio dei Ministri se ci si limita a delle belle parole e bisognerà attendere Aprile per avere un piano concreto? Il Ministro Tremonti da due anni parla della Banca del Sud, che ancora non è neanche nata, e sinceramente ormai a questo parto non ci crede più nessuno.

Si parla dei Fondi Fas, ma sono bloccati da anni, se non quando al governo serve un “bancomat”, ma su questi fondi sarebbe il caso di specificare una cosa importante: non sono soldi del governo che vengono messi a disposizione del Sud, ma sono soldi della UE. Quindi anche in questo caso il governo non ha meriti propri, anche se poi millanta risultati e obiettivi roboanti.

In questo momento le agenzie battono la notizia che nella media del 2010 la produzione industriale, corretta per i giorni di calendario, è salita del 5,3% dal -18,3% del 2009 e dal -3,5% del 2008, rende noto Istat. La notizia è bella, ma da tecnico posso dirvi che non è certamente così spettacolare come si crede ad una prima lettura, infatti l’indice ha recuperato nel 2010 meno del 25% della caduta cumulata registrata da Istat tra 2008 e 2009, quindi l’Italia ancora non ha neanche lontanamente riassorbito gli effetti della crisi degli anni passati. Addirittura nel complesso degli ultimi tre mesi del 2010 la produzione è scesa in termini destagionalizzati dello 0,2% in termini congiunturali dal +1,3% del terzo trimestre.

Alla luce di questi dati, dobbiamo attendere, come già detto, Aprile per avere un piano concreto, sperando che sia il preludio ad una bella primavera per l’economia e le famiglie italiane.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Commenti disabilitati su Il piano del governo incentiva solo le chiacchiere, mentre la produzione industriale è ferma al palo

“Il Multiculturalismo è fallito” parola dell’Europa (che conta)

postato il 8 Febbraio 2011

Dimentichiamoci per un attimo dell’attuale “politica” italiana. Ruby, la casa di Montecarlo, Scilipoti e i responsabili, ecco per 2 minuti -solo 2, giusto il tempo di leggere queste poche righe- dimentichiamoci di tutto ciò, e proviamo a guardare a ciò che accade in Europa in particolare riguardo alle politiche sociali e dell’integrazione.

Cittadinanza e integrazione sono un tema scottante per la società, e quindi, “ovviamente” (non per l’Italia),  sono un argomento di cui c’è necessità di discutere. E, infatti, due dei principali leaders europei hanno deciso di mettere il tema in discussione, oserei dire, aprendo un dibattito europeo:

Prima la Cancelliera Tedesca, Angela Merkel (Cdu), lo scorso ottobre, poi, la scorsa settimana, David Cameron (Partito Conservatore), hanno pressochè espresso lo stesso concetto: “Il Multiculturalismo è fallito“.

Queste sono parole forti. Molto forti. E’ riscontrabile la volontà di cambiare metodo d’azione riguardo cittadinanza e integrazione, forse perché riconosciute fallimentari. E, vista la sede scelta da Cameron per affrontare la questione (Conferenza di Monaco sulla sicurezza), chissà che forse non sia giunta l’ora di affrontarla pienamente  con un approccio unico europeo.

Ma cosa hanno detto la Merkel e, soprattutto, da ultimo, Cameron?
Hanno detto che il Multiculturalismo -ossia l’accostare, l’affastellare tante culture diverse, le une vicine alle altre, nel pieno rispetto di ciascuna, ma nella totale incomunicabilità, nonché impenetrabilità, nonché mancanza di volontà di integrazione- è fallito. Perchè non può bastare un appello al rispetto di ogni cultura, che si traduce nel lasciare in pace chi rispetta la legge. Non può bastare una posizione neutrale in mezzo a diversi valori.  Non può bastare, parrebbe dire, una libertà fatta da un lasciare fare senza coordinate utili a percorrere una certa direzione, una libertà, quindi, che si rivela essere disorientante e senza punti di riferimento, né per chi è già cittadino né per chi miri a diventarlo.

E già qui, già affermando, in sede ufficiale ed internazionale, quella che è una sentenza definitiva senza ritorno, si sono poste le basi per una svolta.
Ma ciò non basta.

Perché dopo la “pars destruens” viene la “pars construens”.
E anche questa è forte, e capace di scontrarsi con alcuni luoghi comuni e facili risposte di pancia .

Sono sempre buone e attuali le parole di J.F.Kennedy, pronunciate sotto la Porta di Brandeburgo: “dobbiamo costruire un maggior senso di orgoglio comune così che le persone si sentano libere di poter dire: sono musulmano, hindu, cristiano, ma sono anche londinese o berlinese“.
Ne è passata di acqua sotto i ponti, ma, evidentemente, le Politiche adottate sinora non sono riuscite a conseguire questo chiaro, ma ancora non raggiunto, obiettivo.

La proposta di Cameron è “bastone e carota”. “Bastone” quando chiarisce che non si può abbassare il livello di guardia quanto al rischio che si creino zone potenzialmente capaci di creare sacche estremistiche. Ma proprio il multiculturalismo, l’affermazione del diritto alla convivenza di tante culture le une a fianco delle altre , ma allo stesso tempo chiuse nella loro stanze a chiusura stagna, sfocia in questa, certamente non voluta,  pericolosa degenerazione. Quindi va riconosciuta e combattuta senza esitazioni “l’ideologia politica” -così dice Cameron- che sta alla base del radicalismo di matrice islamica.

Ma, ecco qui un bel pò di “carota”, Cameron ha detto chiaramente che “Estremismo e Islam non sono la stessa cosa. C’è chi dice -prosegue il Premier inglese- che Islam e Occidente siano inconciliabili e che sia in corso una guerra di civiltà. Quindi dobbiamo proteggerci da questa religione, o attraverso la deportazione forzata vista con favore da certi fascisti, o vietando la costruzine di nuove moschee come suggerito in alcune parti d’Europa (ecco, forse qui Cameron parla anche di noi…forse…). Queste persone -conclude chiaramente Cameron- alimentano l’slamofobia e io respingo fermamente i loro argomenti”.

In Patria, come in tutta Europa (forse qui, però, noi non siamo compresi), il discorso è stato accolto da forti e intense discussioni.
Ma, forse, il fatto significativo è che Germania e Inghilterra (e, probabilmente anche in  Francia) hanno deciso che è il momento della svolta, quanto a cittadinanza e integrazione.
Non si può avere, così, su due piedi, e da una persona sola, la soluzione a tutti i problemi. Questo è chiaro.

Il fatto importante è che in Europa, non in Italia, si è deciso di affrontare, seriamente e, chissà, magari anche in questo ambito, coralmente un problema concreto e che tocca tutti i cittadini dell’Unione Europea (attuali o futuri!) da vicino, da molto vicino.

Quello che mi chiedo adesso, dopo aver letto le posizioni di Cameron e della Merkel, è una cosa semplice:
Quale è il pensiero del Governo Italiano attuale al riguardo?

“Riceviamo e pubblichiamo” di Edoardo Marangoni

Commenti disabilitati su “Il Multiculturalismo è fallito” parola dell’Europa (che conta)

La triste maschera del processo breve

postato il 8 Febbraio 2011

Vedere Silvio Berlusconi e il suo governo occuparsi della riforma della giustizia è come stare a guardare un bracconiere che riforma la legislazione sulla caccia o affidare al peggiore capitalista di questo mondo la riforma del diritto del lavoro. E’ mai possibile che in Italia si debba occupare di riformare il processo penale un signore che passa gran parte delle sue giornate a confabulare con i suoi avvocati per evitare i processi e dunque allungarli all’inverosimile fino all’agognata prescrizione? Si aggiunga a questo paradosso l’assenza di un progetto nuovo di riforma, magari scritto come ha sottolineato il vicepresidente del Csm Michele Vietti, e l’idea di catapultare Marco Pannella al Ministero della Giustizia per compiere la “grande riforma”. In realtà non esiste nessuna grande riforma, ma esiste solo l’esigenza di salvaguardare il Premier dai suoi guai giudiziari. Così dopo che la Corte costituzionale ha azzoppato il “legittimo impedimento”, creatura dell’avvocato Ghedini, l’entourage del Presidente del Consiglio ha ritirato fuori dal cilindro il mitico “Processo breve”.

Peccato che in questa riforma di breve ci sia solo il tempo per azzerare i processi, non solo quelli del Premier. Effettivamente se uno ci pensa bene l’idea è geniale: visto che non possiamo eliminare i processi (eppure gli piacerebbe tanto) li rendiamo monchi, li priviamo della decisione. Togliendo anche un po’ di risorse economiche a forze dell’ordine e magistrati il gioco è fatto: il Cavaliere può dormire sogni tranquilli e con lui tutti i potenti che hanno guai seri con la giustizia. Il processo breve sarebbe infatti una vera e propria manna dal cielo per gli imputati di altri grandi processi in corso (casi di Eternit, ThyssenKrupp, Cirio, Parmalat e diversi casi di malasanità) che vedrebbero in breve tempo estinguersi i loro processi. Ciò che è sconcertante non è solamente il fatto che per risolvere i suoi problemi personali con la giustizia il Presidente del Consiglio metta a rischio prescrizione  il 50% dei procedimenti pendenti a Roma, Bologna e Torino; il 20-30% a Firenze, Napoli e Palermo, ma che disegni una giustizia dove giungano a termine solo i processi dei poveracci che rubano nei supermercati e che non hanno l’avvocato Ghedini, mentre tutti gli altri processi, anche quelli per i reati più gravi, la cui linea di confine con i reati di mafia è assai sottile, andranno in fumo.

Nel governo non c’è nessuna volontà di riformare la giustizia, c’è solo un’azione coordinata su più campi per tentare di mantenere a galla un Premier che rischia di andare a fondo per il suo immobilismo e per i suoi problemi personali. In questa strategia di sopravvivenza il “Processo breve” è solo un bel nome, una maschera d’oro che parla di riforma epocale del rapporto tra cittadino e giustizia, ma che in realtà nasconde il triste volto di un uomo, attaccato al potere e che non vuole, come tutti i comuni mortali, rispondere delle proprie azioni alla giustizia.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

3 Commenti

Russia, la porta dei due mondi

postato il 7 Febbraio 2011

La storia della Russia affonda le proprie radici in tempi antichissimi. La cultura di questo sconfinato paese, da sempre un ponte tra due mondi totalmente diversi come l’Europa e l’Asia, si è sempre distinta per la propria terzietà. Una terra attraversata da 11 diversi fusi orari che lambiscono e racchiudono infinite culture, che affondano le proprie radici nei due diversi continenti, ma che in realtà sono terze ed indipendenti.

Dal XVIII secolo in poi, lo sforzo dei governanti russi è sempre stato volto a modernizzare il proprio Paese sul modello delle monarchie europee. Da un lato il tessuto sociale russo, composto in grandissima parte da contadini, garantiva il potere dello Zar e della nobiltà dal malcontento che andava crescendo negli stati in cui l’assolutismo era ormai in crisi. La pressoché totale assenza di una classe borghese salvaguardò la monarchia russa dal pericolo di contagio in ordine agli ideali rivoluzionari francesi del 1789. Dall’altro però condannò per oltre tre secoli il paese ad un cronico arretratezza economica ed in parte culturale.

Sino ai primi anni ’30 del XX secolo, la base economica del paese era rimasta immutata: l’agricoltura era in maniera quasi assoluta il fattore principale. Culturalmente, anche sotto l’impulso di sovrani illuminati come Caterina la Grande, la corte stimolò grandemente la creazione di una “inteligencja”, circondandosi di artisti. Questo fenomeno però porto ad una concentrazione della cultura nelle mani del ceto aristocratico, escludendo in maniera assoluta il mai realmente emerso ceto borghese e precludendo definitivamente la possibilità dello sviluppo di quella coscienza liberale e nazionale che si andava affermando in altri stati europei, ponendo così le basi per l’inevitabile declino di una monarchia mai percepita come garante dello stato.

La Rivoluzione d’Ottobre aprì una fase politica nuova: persino Lenin, nell’importare il modello rivoluzionario marxista, si trovò innanzi a dei limiti considerevoli. Marx aveva infatti preso a modello lo stato dove il liberismo ed il capitalismo avevano già raggiunto un relativo avanzamento (egli infatti era un tedesco e visse per lungo tempo a Londra). Per importarlo in Russia, Lenin dovette stravolgere i propri piani: mancava totalmente una classe di alta borghesia industriale; la ricchezza era detenuta dall’aristocrazia che ancora applicava modelli economici tardo-medievali. La base della lotta di classe non sarebbero potuti essere quindi gli operai, che rappresentavano un numero alquanto esiguo, ma sarebbero dovuti essere i contadini.

Stalin, succedendo a Lenin, comprese la necessità di un adeguamento dell’economia russa ai criteri industriali del XX secolo, sia per motivi strategici (l’indipendenza produttiva russa si era resa necessaria da quando gli stati occidentali, temendo un contagio al proprio interno del morbo del socialismo reale, avevano in pratica chiuso i canali diplomatici e commerciali con l’U.R.S.S.), sia per motivazioni ideologiche (adeguare quindi la società sovietica alla visione marxista). I Piani Quinquennali, alla base di queste politiche economiche, strapparono milioni di famiglie dalla terra per reinsediarle nei grandi complessi industriali, provocando uno shock produttivo in ambito agricolo.

La politica estera sovietica ricalcava il modello dettato da quella zarista, differenziandosi non tanto nei modi, quanto nel fine perseguito. La monarchia russa si poneva come ultima legittimata potenza discendente direttamente da Roma (Czar in russo significa infatti Cesare). Ereditando il trono dell’Impero Romano d’Oriente, il trono di Bisanzio, la corona russa si riteneva di fatto legittimata a difendere gli interessi di tutta la comunità greco-ortodossa e slavofona d’Oriente.

L’Unione Sovietica, differentemente, basava la propria diplomazia sulla convinzione di essere il faro del comunismo mondiale, con il chiaro obbiettivo di esportare le dottrine socialiste ovunque nel mondo. Da ciò presero le mosse varie linee politiche, dal consolidamento dei propri confini con l’instaurazione di regimi satelliti (Dottrina Breznev della “sovranità limitata”), sino allo spiccato Terzomondismo, che consisteva nel fornire aiuti economici e militari a qualunque regime si opponesse all’ “imperialismo statunitense”. Negli anni Ottanta, ciò che il Segretario di Stato Herny Kissinger definì “un gigante miliare ed un nano economico”, iniziò a mostrare i propri limiti.

L’elezione negli Stati Uniti di Ronald Reagan impose una svolta significativa: il presidente varò nel corso del suo primo mandato un poderoso investimento nel settore militare, che ebbe il proprio culmine nel progetto difensivo denominato “Star Wars”. L’Unione Sovietica si trovò costretta ad inseguire gli Stati Uniti nella corsa al riarmo. Gli sforzi sostenuti non le valsero la tanto agognata parità strategica: in compenso aprirono un abisso sul proprio deficit economico.

Agli inizi degli anni ’90 la bandiera rossa fu ammainata dal pennone sul Cremlino. La Russia fu costretta ad un’apertura al mondo occidentale impostale dal proprio ridimensionamento geopolitico a seguito della caduta del Soviet. La Federazione governata da Boris Eiltsin si trovò innanzi un disastro di proporzioni bibliche: a 70 anni di socialismo reale seguì l’introduzione di un liberismo senza regole, che mise in ginocchio una società che, non solo non ne comprendeva le dinamiche, ma che per generazioni l’aveva combattuto. In questo clima nascono le fortune degli oligarchi: spesso giovani figli di funzionari dell’elefantiaco apparato di governo, che sfruttando la posizione sociale all’interno delle stanze del potere, e con l’apporto di capitali spesso di dubbia liceità, riuscirono ad acquistare le aziende di Stato, in particolar modo quelle legate ai processi estrattivi, ad un prezzo irrisorio.

Oltre all’adozione forzata del libero mercato, anche la propria influenza strategica su quelli che sino a due decenni prima erano propri satelliti, venne meno. L’apparato militare, nonostante la oggettiva potenza dovuta anche dai missili strategici, appariva in gran parte obsoleto ed indebolito dal frazionamento dell’Unione Sovietica. Le stesse politiche per l’integrazione seguenti alla caduta del colosso comunista, furono blande e poco convincenti: la Comunità degli Stati Indipendenti sorta a questo scopo non riuscì ad arginare le spinte centrifughe che si vennero a creare all’interno dei singoli Stati membri. In Russia la polveriera caucasica esplose: la Cecenia si autoproclamò indipendente nel 1991, approfittando della situazione di grave incertezza in cui verteva la Federazione Russa.

A seguito del fallimento di ogni iniziativa politica, nel 1994 Eiltsin decise di passare ai fatti, ordinando l’invasione dell’autoproclamata Repubblica Cecena con l’obbiettivo di ripristinare la sovranità russa nella zona. Ciò che seguì fu una disastrosa quanto sanguinosa guerra di due anni, che portò alla sconfitta russa ed al riconoscimento de facto dell’indipendenza cecena. Fu proprio in Cecenia che si giocò la prima e più importante partita del neo Premier Putin.

Nel 1999 un malato Boris Eiltsin lasciò la guida del Paese all’allora Primo Ministro Vladimir Putin; la situazione interna russa si presentava estremamente complessa: sull’onda di un decennio di crisi economica, le periferie reclamavano un’autonomia maggiore dal potere centrale, spesso in maniera violenta. In Cecenia si acuirono le tensioni interne: la lotta per la liberazione e la creazione di un emirato caucasico divampò di nuovo e rischiava di espandersi ai turbolenti territori confinanti.

Il casus belli fu fornito da una serie di attentati terroristici in alcune città russe tra cui Mosca: i servizi di sicurezza non esitarono ad attribuire la paternità delle azioni a dei gruppi di guerriglieri ceceni. Ne seguì come rappresaglia l’invasione della regione del Daghestan da parte dei guerriglieri stessi. Il 26 agosto 1999 si riaprirono le ostilità: le operazioni militari su vasta scala si conclusero nel maggio del 2000, con la presa da parte delle truppe russe della capitale Grozny, già completamente rasa al suolo.

Putin ebbe così modo di consolidare il proprio potere innanzi all’apparato militare, molto influente in Russia e contemporaneamente spegnere le istanze locali di indipendenza che videro nella Cecenia un tragico memento. Iniziò così il decennio dell’Uomo forte del Cremlino. La politica economica, estera e militare russa fu improntata sulla necessità di una revanche sullo scacchiere mondiale: era necessario che la Russia tornasse ad occupare il posto che fu dell’Unione Sovietica e che di diritto le sarebbe spettato nel mondo.

Nel Paese ha acquistato progressivamente consenso l’impostazione definita “Neo-imperiale” del Presidente Putin: riscoprire la grandezza della propria storia attraverso l’iniziativa politica. In materia economica la principale applicazione di questa dottrina politica fu data dall’ondata di nazionalizzazioni che coinvolsero le aziende strategiche controllate dagli oligarchi, giovani che approfittando della propria influenza nell’establishment e con capitali di provenienza spesso oscura, riuscirono ad acquistare la totalità dei comparti estrattivi nazionali.

In particolar modo l’estrazione di carburanti, che ai tempi dell’Unione Sovietica non fu mai sviluppata ai massimi livelli, ha conosciuto negli anni Duemila un boom: il Cremlino ha trasformato così la politica di esportazione di energia nella propria punta di lancia per la penetrazione in Europa. La necessità di approvvigionamento energetico ha reso diversi Paesi nel Vecchio Continente strettamente dipendenti dall’import russo, tanto da arrivare a condizionarne la politica estera. In Europa si sono creati due blocchi. Il primo è composto da nazioni fieramente anti-russe, che vedono nell’imperialismo di Mosca una minaccia storica alla propria esistenza: si tratta di Paesi che hanno subito la dominazione sovietica, come la Polonia o gli Stati Baltici, o tradizionalmente avversi a Mosca sin dalla Guerra Fredda, come il Regno Unito: questi sono i più fedeli alleati di Washington in Europa.

Accanto ad essi vi sono poi Paesi che non hanno mai risentito in maniera diretta o tanto incisiva dell’influenza di Mosca sui propri cittadini ovvero non hanno mai subito lo scontro ideologico violentemente come altri. Si tratta di Paesi che vedono nell’Orso Russo non tanto una minaccia quanto un’opportunità: in questa schiera annoveriamo la Germania, che ha importanti partnership commerciali in campo energetico ed industriale e che ha beneficiato dell’apertura del mercato russo alle proprie aziende, in particolare elettroniche ed automobilistiche. L’Italia negli ultimi anni, a approfondito il rapporto con Mosca sulla base della necessità di una diversificazione energetica che ha portato l’E.N.I. a stringere accordi con la major russa dell’energia Gazprom, pur di dubbia utilità economica.

Vi sono infine Paesi storicamente filorussi, come la Serbia, che è ha ritrovato nella Sorella Russia un appoggio importante, in particolare sulla questione del Kosovo, dopo decenni di gelo tra il Cremlino e Tito; o come la Grecia, che ha rinsaldato i propri rapporti anche nel nome della comune fede ortodossa dopo la ricomposizione dello Scisma tra le due Chiese nazionali.

Le ripercussioni del “divide et impera” energetico sullo scenario internazionale sono molteplici. Il governo russo negli ultimi anni è ricorso più volte al ricatto per poter perseguire la propria politica di rafforzamento in ciò che esso considera una propria area di influenza. Ne è un chiaro esempio l’Ucraina e le tensioni occorse con la Federazione Russa su diverse questioni negli ultimi anni: dal rinnovo della concessione della base navale di Sebastopoli all’avvicinamento all’area N.A.T.O.; in tutti i questi casi, come strumento di pressione il potente vicino ha esercitato il blocco delle forniture di gas al Paese, lasciando di conseguenza senza approvvigionamenti mezza Europa.

La politica estera russa nell’agosto 2008 ha raggiunto un nuovo grado di intensità con l’invasione militare della piccola repubblica caucasica della Georgia. Formalmente il casus belli addotto da Mosca era la violazione di una zona smilitarizzata in Ossezia del Sud, che assieme all’Abkhazia erano sottoposte alla tutela delle forze di pace russe e riconosciute come Stati autonomi solo dalla Federazione. In realtà la partita era ben diversa: in quello stesso anno il Presidente Bush aveva posto le basi per l’allargamento della N.A.T.O. ad Est; era in fase di completamento lo scudo missilistico e le basi radar in Polonia e Repubblica Ceca e la stessa Georgia aveva intrapreso il cammino di partneraniato che l’avrebbe condotta a divenire membro effettivo del Patto Atlantico.

L’Orso Russo, sentendosi stringere intorno alla morsa ha reagito furiosamente: nei delicati equilibri di poteri del Cremlino hanno prevalso i Siloviki, l’area intransigente e militante di cui l’inflessibile Ministro degli Esteri Lavrov è un sostenitore. Ha avuto così luogo la vittoriosa campagna militare georgiana, che ha portato alla luce anche un altro dato: la preparazione militare russa.

Nei primi anni Duemila, inquadrata nella politica di potenziamento nazionale in ogni fronte e supportata dalla crescita economica, lo Stato russo decise di modernizzare le proprie forze armate, in particolare il settore strategico. Nel 2008 lo Stato Maggiore russo ha annunciato le prime prove in mare di sottomarini di nuova generazione della classe Borej, che imbarcheranno il missile balistico RSM-56 Bulava, un nuovo vettore con la capacità di trasportare testate nucleari con una potenza di 500 kilotoni. Nel 2001 a Shanghai, la Federazione ha firmato un accordo di cooperazione militare con la Cina, riavvicinando i due Paesi dopo decenni di gelo diplomatico e stabilendo un’asse alternativo in Estremo Oriente, grazie anche al coinvolgimento di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e divenendo un interlocutore fondamentale per supporto logistico alla missione I.S.A.F. in Afghanistan.

Con la crisi economica mondiale, l’ascesa dell’Orso russo sulla scena internazionale ha subito tuttavia una violenta battuta d’arresto: tra il 2008 ed il 2009 il p.i.l. russo è calato di circa 400 bilioni di dollari: il 7,9%. Ciò è dovuto sopratutto a causa dell’eccessiva dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi, che costituiscono l’ossatura della crescita decennale. Nel corso del 2010 tuttavia, anche grazie all’ascesa dei prezzi dei combustibili, il dato ha subito un’inversione di tendenza, tornando ad un + 4,2% : resta tuttavia la debolezza endemica di un sistema economico eccessivamente sbilanciato nel settore estrattivo.

Ben più preoccupante è il drastico calo demografico del Paese negli ultimi anni, che ha toccato un tasso di – 0,61% nel 2003, mettendo così a rischio la stesso sviluppo nel medio termine. Nonostante ciò, la Russia si presenta come una potenza in divenire, le cui fragili basi economiche e sociali non ne frenano l’ambizione a tornare sul palcoscenico mondiale da protagonista: concentrando la propria attenzione sui Paesi che la circondano cerca infatti di consolidare le fondamenta di ciò che i russi sperano sia il risveglio del grande Orso da un letargo forzato decennale.

Riceviamo e pubblichiamo” di Federico Poggianti

Commenti disabilitati su Russia, la porta dei due mondi

Questo non è un momento storico, è solo un momento triste

postato il 5 Febbraio 2011

I ministri Tremonti e Calderoli presentando alla stampa il decreto sul federalismo municipale hanno parlato di “svolta storica” per il Paese ignari che qualche ora dopo su questa svolta storica sarebbe arrivato lo stop del Quirinale. Non siamo davanti ad un capriccio del Presidente Napolitano, o ad un insperato aiuto all’opposizione da parte del Colle  ma ad un forte richiamo al rispetto delle procedure e delle istituzioni.

Il Presidente Napolitano, infatti, non è entrato nel merito della riforma federalista ma ha rilevato, giustamente, un comportamento scorretto del governo che pur di portare a casa immediatamente la riforma ha preferito una strada breve ma solitaria dove Parlamento ed Enti Locali non sono minimamente considerati. Al di là degli effetti politici che il “no” del Quirinale avrà, credo sia importante leggere tra le righe l’importante richiamo al governo e alla maggioranza non solo ad una prassi istituzionale corretta ma anche ad evitare un certo “avventurismo istituzionale” dal quale l’Italia non trae alcun beneficio. Ed è questa assenza di rispetto, questa irresponsabilità diffusa che sconforta, è il vedere una riforma ridotta a trofeo da esibire al momento opportuno ai propri elettori che fa dubitare seriamente del fatto che ci si trovi davanti ad una svolta storica.

L’Italia è un paese che le svolte storiche le ha vissute veramente e sa che questi momenti, per essere veramente storici, debbono essere caratterizzati dalla convergenza e dall’unità, dall’impegno e dal lavoro comune. Pensare che una riforma della portata del federalismo fiscale municipale possa essere varata “con espedienti mediocri e con un rapporto tanto spregiudicato nei confronti delle istituzioni rappresentative” è un’offesa alla Politica, al Parlamento e alla Nazione.

E’ grave che qualcuno pensi di fare le riforme nello stesso modo in cui si telefona in questura per far rilasciare una presunta nipote di Mubarak, ed è altrettanto grave che qualcun’altro pensi che da queste spericolate prove di forza possa nascere qualcosa di buono. Ancora una volta è stata persa un’occasione per aprire un dialogo e fare il bene dell’Italia, ancora una volta hanno prevalso la prepotenza e l’ingordigia elettorale di pochi. Questo non è un momento storico, ma soltanto un momento triste della storia repubblicana.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

3 Commenti

Il nostro “NO” ad un federalismo che aumenta le tasse

postato il 3 Febbraio 2011

Oggi la Commissione bicamerale ha di fatto respinto il federalismo municipale (ricordiamo che il pareggio, viene visto per i regolamenti della Camera, come una bocciatura) e questo apre degli scenari che a livello politico possono pure essere affascinanti (il governo presenterà il vecchio decreto o lo metterà nel congelatore? E la Lega terrà fede a quanto detto e farà cadere il governo per andare a nuove elezioni?), ma che, probabilmente, interessano relativamente al comune cittadino che di questa bagarre rischia di capire poco e di essere, anzi, travolto da vuoti proclami.

Intanto, vorrei chiarire un punto: come ho avuto modo di dire, il punto non è “federalismo si o no”. Il concetto del federalismo in sé non porta svantaggi o vantaggi, il vero problema è come viene realizzato questo federalismo. Avevo già parlato di quali problemi ponesse questo decreto e le modifiche proposte dal governo, per le tasche dei cittadini e per la tenuta dei conti dei comuni italiani, ma mi sembra giusto chiarire ulteriormente questi punti.

Intanto partiamo da un dato di fatto: nessun Comune italiano, del Sud, del Nord o del Centro, è immune ai rischi sulla sua tenuta dei conti, con questo federalismo. Inoltre, questo federalismo, secondo i proclami della Lega, avrebbe dovuto abbassare le tasse recuperando efficienza nella spesa pubblica. Ebbene non è così.

Intanto l’IMU, l’Imposta Municipale Unica, è di fatto una sorta di patrimoniale, seppur mascherata; il quadro della cedolare secca sugli affitti, si presentava come un regalo per i redditi alti senza contenere alcun accenno di vantaggio per le famiglie numerose e per quegli italiani che faticano ad arrivare a fine mese (il governo ha cancellato dal decreto il famoso fondo di solidarietà che sarebbe servito per calmierare gli affitti delle famiglie numerose).

Infine, altro punto dolente, riguarda la famigerata TARSU, ovvero la Tassa sui Rifiuti Solidi Urbani, che se collegata direttamente alla rendita catastale rischia di diventare altamente iniqua e illogica: la TARSU dovrebbe essere proporzionale a quanto una persona, o un nucleo familiare, inquina e produce rifiuti, e non a quanto grande o quanto vale una casa. Direi che su questo punto la logica è semplice e cristallina: se io inquino tanto, devo pagare tanto. Un controllo puntuale dei rifiuti, inoltre, permette di attuare la raccolta differenziata con notevoli punte di efficienza, come è dimostrato dall’esempio della provincia di Treviso dove la Tarsu è commisurata alla quantità di rifiuti prodotta dai nuclei familiari.

Il rischio, quindi, era quello di dare vita ad un federalismo di facciata, che servisse come bandierina alla Lega per il suo elettorato, ma che non portasse alcun vantaggio ai cittadini, i quali non si fanno certo ingannare da un paio di proclami ben piazzati. Dire che il federalismo municipale permette una diminuzione delle tasse è una affermazione che deve essere dimostrata dai fatti concreti, inoltre bisogna chiarire, di quali tasse si parla. Con un abile gioco di prestigio, infatti, il governo ha fatto sparire alcune imposte, salvo farle riapparire sotto altro nome: se mi tolgono le tasse di registro, la tassa ipotecaria, e altre tasse, ma poi me le ripresentano con il nome complessivo di IMU, è chiaro che per le mie finanze di cittadino, non è cambiato nulla.

Ma il gioco di prestigio non si ferma a questo, perchè il governo gioca abilmente con le parole, infatti parla di “diminuzione di tasse”, ma non parla delle imposte comunali o delle tariffe: tagliando i trasferimenti ai Comuni, e girando ai comuni maggiori “responsabilità sui servizi”, ha anche bisogno di meno soldi (perché diminuisce la spesa statale), ma per il cittadino non cambia nulla, perchè l’esborso monetario è sempre uguale (non ha importanza che io paghi allo Stato o al Comune, alla fine i soldi escono dalle mie tasche).

Purtroppo per Berlusconi e Bossi, questo giochino ormai è palese, infatti, stando al Censis, il 42% degli Italiani teme che il federalismo fiscale porti nuove tasse, mentre il 25% pensa che la pressione fiscale resterà invariata, e solo il 23% pensa che diminuirà, mentre il 10% degli italiani non ha un’idea in merito.

Per il 35,1% degli intervistati, aumenterà anche la complessità degli adempimenti fiscali, contro il 31,1% di chi pensa che resterà invariata e il 22% di chi pensa che invece diminuirà.

Stando ai dati diffusi dal Censis, “quattro italiani su dieci (il 41%) credono che il federalismo fiscale possa contribuire a migliorare la gestione della cosa pubblica, ma la metà dei cittadini (il 50,2%) è del parere che la riforma aumenterà il divario economico e sociale tra il Nord e il Sud. Il timore è avvertito soprattutto dalle persone più istruite (il 53,2% tra i diplomati, il 54,1% tra i laureati) e dai lavoratori dipendenti (il 51,3%). Infine, l’8,8% afferma di non sapere cosa sia il federalismo fiscale, un gruppo che pesca soprattutto tra i meno istruiti (il dato sale in questo caso al 17,8%)”.

A questo punto, io mi preoccuperei, invece di volere approvare a tutti i costi un federalismo di dubbia utilità, di tornare a studiarlo per avanzare proposte condivisibili, chiare e comprensibili da tutti gli italiani, perché questi ultimi non sono stupidi, e si accorgono quali politici hanno posizioni concrete, e quali invece producono solamente spot elettorali che resteranno irrealizzabili.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Commenti disabilitati su Il nostro “NO” ad un federalismo che aumenta le tasse

Libero WiFi sì o no? Cerchiamo di capire

postato il 2 Febbraio 2011

Allora, la notizia è questa: dopo un tira e molla estenuante, il Governo si è deciso ad abolire il medievale Decreto Pisanu, il più grande freno allo sviluppo libero della Rete in Italia. Ora, dati i tempi biblici che ci contraddistinguono, gli effetti di questa abolizione tardano ad arrivare, ok: abbiamo pazientato tanto, pazienteremo un altro po’. Il problema è un altro, ed è stato sollevato da Massimo Mantellini, che sul suo blog si è reso conto di alcuni emendamenti presentati dal senatore del Pdl, Lucio Malan, al quanto preoccupanti; scrive infatti Mantellini: “Come qualcuno aveva immaginato la liberazione del wi-fi contenuta nel decreto Milleproroghe, attualmente in discussione, sarà subordinata ad un decreto del Viminale che stabilirà quando e come si dovranno identificare gli accessi alle reti senza fili. La modifica che affida al Ministro Maroni ampia facoltà in materia, è stata proposta in Commissione Affari costituzionali dal senatore del PdL Lucio Malan”. Sulla questione è tornato anche Guido Scorza, che spiega come solo “in primavera l’Italia potrebbe scoprire cosa il gestore di un bar che voglia condividere le proprie risorse Wifi con i propri clienti debba fare per mettersi in regola. Il problema non è di contenuti, ma di metodo: dopo cinque anni non si abroga una norma che, invece, si intende sostituire e, soprattutto, dopo che la si è abrogata, non si propone di sostituirla attraverso ulteriori norme, la definizione del contenuto delle quali si rinvia ad un momento successivo”.

Il tutto è stato condito da una semi-smentita (o replica, fate voi) del senatore chiamato in causa, Malan, il quale sostiene, in un commento pubblicato sul blog di Mantellini, che “il testo del decreto proroghe che liberalizza il Wi Fi, per quanto sta a me, che sono il relatore del provvedimento al Senato, resterà così com’è. Perciò, niente decreto del ministro, niente braghettoni. Sarebbe giusto ricordare che quella fatta dal governo – e già in vigore perché è un decreto legge – è l’unica modifica al decreto Pisanu in cinque anni e mezzo dalla sua emanazione. E non abbiamo governato soltanto noi. Gli emendamenti presentati a mia firmati li ho ritirati ed erano stati concepiti come da applicare alla legge in vigore prima del 29 dicembre: in quel caso si sarebbe trattato di un superamento parziale del decreto Pisanu. Oggi costituirebbero un passo indietro: per questo li ho ritirati”. Una posizione ragionevole, per carità. Eppure un po’ ambigua.

Pare quindi che il rischio dell’ennesimo stop alla libertà del Wi-fi sia stato scongiurato. Eppure è chiaro a tutti che qui c’è qualcosa che non quadra: l’incertezza, la confusione e la titubanza con cui si stanno affrontando questo momento, rischiano di essere la pietra tombale sulla strada del progresso e dell’innovazione e, di questo passo, prima che il nostro Paese si metta in linea con il resto d’Europa passeranno decenni. Se non intere generazioni.

 

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

4 Commenti

Schizofrenie berlusconiane

postato il 2 Febbraio 2011

E’ successo tutto in tre giorni.

La settimana è iniziata con un Berlusconi conciliante che dalle pagine del Corriere della Sera tendeva la mano al segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, per intraprendere un percorso di riforme condivise. Bersani, che vede nella proposta del Premier solo un modo di tirarsi fuori dall’angolo, rimanda al mittente l’offerta berlusconiana scatenando però le ire del grande Capo che, bollato il leader del Pd come “insolente”, raduna una specie di consiglio di guerra per scatenare una strafexpedition contro le opposizioni e le toghe rosse la cui organizzazione viene demandata a Daniela Santanchè e Michela Vittoria Brambilla.

A Palazzo Grazioli i falchi hanno fatto il nido ed è servita tutta la bravura di Giuliano Ferrara per riportare Berlusconi a più miti consigli. La “moral suasion” di Ferrara ha la meglio sulle strategie aggressive delle amazzoni pidielline e il Cavaliere sembra tornare ragionevole e dialogante soprattutto quando nella mattinata di mercoledì arriva il richiamo del Presidente della Repubblica per placare le sterili contrapposizioni. Una nota di Palazzo Chigi attesta il Premier sulla linea del Capo dello Stato, ma è sufficiente qualche ora per trovarsi Silvio Berlusconi al Tg1 sparare a zero sulle “vecchie forze che vogliono tassare gli italiani”.

Forse Giuliano Ferrara non l’ha ancora avvertito che il Capo del Governo è lui. Come ha notato giustamente il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa lo statista Berlusconi è durato appena cinque ore. Cosa ci riserverà il fine settimana? Quale Berlusconi avremo davanti: lo statista o il capo popolo, il riformatore o il lider maximo?

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

2 Commenti


Twitter


Connect

Facebook Fans

Hai già cliccato su “Mi piace”?

Instagram