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Energia nucleare: il Paese che non sa scegliere

postato il 14 Marzo 2011

In Italia non esiste un dibattito sull’energia nucleare, esiste semmai una guerra, quella sì nucleare, tra i fautori delle centrali nucleari e i partigiani dell’energia pulita. I due fronti invece di confrontarsi e di lavorare per una soluzione cercano di prevalere l’uno sull’altro attraverso le armi non convenzionali dell’emozione: incidenti alle centrali nucleari, crisi petrolifere e così via. Il terremoto che ha colpito e danneggiato la centrale nucleare giapponese di Fukushima e la conseguente “paura nucleare” hanno ringalluzzito gli antinuclearisti di casa nostra che hanno buon gioco a rinvigorire la loro campagna contro il nucleare italiano.

Accade così che tutti gli sforzi di informazione e i contributi al dibattito  del Forum nucleare Italiano, autorevolmente presieduto da Umberto Veronesi, vengano azzerati da una ondata emotiva che ci riporta al clima del referendum sul nucleare del 1987 quando gli italiani, impauriti dall’incidente alla centrale sovietica di Chernobyl, si dichiararono contrari alla realizzazioni di centrali nucleari. La tragedia di Chernobyl ci fece chiudere la porta al nucleare, ma non ci aprì le porte dell’alternativa energetica e così oggi ci ritroviamo una Paese inquinato e inquinante, dipendente dal petrolio e dal gas altrui, e con tante centrali nucleari al confine dalle quali riceviamo, a caro prezzo, energia per andare avanti. Tuttavia chi si oppone al nucleare, e non utilizza espedienti propagandistici per far leva sull’opinione pubblica, ha delle obiezioni concrete e avanza dei dubbi ai quali bisogna necessariamente rispondere se si vuole davvero imboccare la strada dell’energia atomica.

Sullo sfondo c’è una necessaria scelta da fare: l’Italia si deve dotare di un piano energetico nazionale che ci dica come mandare avanti in futuro il nostro Paese. E’ una scelta da fare, qualunque essa sia, da condividere tutti e da perseguire fino in fondo perché non c’è più tempo da perdere. E’ ammirevole in questo senso la solidità della società giapponese che in queste drammatiche ore non ha mai messo in dubbio la sua scelta nucleare, nonostante il popolo giapponese abbia sperimentato sulla propria pelle la devastazione delle esplosioni atomiche e le tragiche conseguenze della pioggia radioattiva. Purtroppo l’infinito dibattito italiano fa presagire ancora una “non scelta”, una ulteriore perdita di tempo  che comporta un ritardo e un danno colossale per il nostro Paese. Per costruire una, e dico una, centrale nucleare ci vogliono dieci anni, un tempo lungo si dirà, che fa pensare, ma che è pur sempre più breve dei nostri tempi di scelta. Elezioni permettendo.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Le lezioni dimenticate della crisi economica

postato il 11 Marzo 2011

Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della BCE, ha illustrato un paio di giorni fa il motivo per il quale occorre che i tassi di interesse crescano e le lezioni che questa crisi ha impartito.

Sinceramente, con tutto il rispetto per il dott. Bini Smaghi, non sono pienamente convinto di quanto da lui sostenuto.

La lezione impartita da questa crisi è la stessa delle altre crisi precedenti che è stata prontamente dimenticata: pensiamo alla crisi seguita alla bolla dei titoli Internet o alla crisi delle tigri asiatiche (1998), e potrei continuare con altri esempi. Le crisi ci sono sempre state e hanno sempre avuto dei tratti in comune, come hanno affermato illustri studiosi tra cui Galbraith: né le regolamentazioni, né le conoscenze economiche sono sufficienti a proteggere individui e istituzioni finanziarie dai ritorni di euforia, che conducono regolarmente a straordinari incrementi di valori e di ricchezza, alla foga per parteciparvi, che spinge verso l’alto i corsi, e poi al crollo, con i suoi postumi tetri e dolorosi.

E a nulla valgono gli avvertimenti perché durante l’euforia si viene irrisi e tacciati di volere danneggiare le persone, come accadde, giusto per fare un esempio famoso, a Paul Warburg che aveva messo in guardia tutti dalla “sfrenata speculazione” e disse che, se ciò fosse continuato, ci sarebbe stato un crollo disastroso. Le reazioni furono violente, e lo hanno accusato di volere “mettere a repentaglio la prosperità della società”. Anche Babson, economista e statista, predisse un crollo dando ragione a Warburg. Anche lui fu accusato dai suoi colleghi, di volere remare contro la società. Poi i fatti hanno dato ragione a queste due persone. Era il 1929 e, per inciso, Warburg era il fondatore della Federal Reserve americana.

Frasi e situazioni similari si troveranno sempre, basta che si studi la storia economica e le crisi finanziarie con mentalità aperta. Dopo ogni crisi si parla di lezioni imparate, di errori che non si devono ripetere, ma poi, passa il tempo, e la memoria storica delle crisi finanziarie sbiadisce, facendo ricominciare tutto.

Per questo dubito, quando Bini Smaghi parla di “lezioni imparate dalla crisi”.

Non sono neanche d’accordo quando parla della opportunità di un aumento dei tassi di interesse che, secondo lui, dovrebbe avvenire a breve.

Perché non sono d’accordo?

Perché secondo me è ancora presto e perché la BCE dovrebbe prima risolvere alcuni problemi e contraddizioni che accompagnano la sua nascita.

Cerco di spiegarmi meglio.

Mentre la Federal Reserve ha, tra i vari compiti, quello di agevolare e difendere la crescita economica, quindi mettendo la lotta all’inflazione in subordine a questo scopo (anzi la lotta all’inflazione diventa solo uno strumento per difendere la crescita economica), la BCE è nata con un unico scopo, la lotta all’inflazione. Proprio per questo motivo appena l’inflazione inizia a rialzare la testa, la BCE interviene immediatamente, perché non può fare diversamente, essendo il suo unico scopo (e quindi la crescita economica passa in secondo piano).

Quindi in ultima analisi abbiamo che le due banche centrali operano con filosofie diverse: la BCE contrasta in tutti i modi l’inflazione agendo sulle leve dei tassi; mentre quella americana usa le leve di comando per stimolare ogni situazione che possa dare slancio all’economia.

A mio avviso guardare solo all’inflazione rischia di mettere a serio rischio la crescita economica, come ha sostenuto Geithner, Segretario al Tesoro degli USA, che dopo un incontro con il ministro delle finanze tedesco, ha invitato l’Unione Europea a trovare un giusto equilibrio tra risanamento del debito e sostegno finanziario, bacchettando implicitamente l’eccessivo rigore a contenere l’inflazione senza intervenire efficacemente sui problemi dei singoli stati.

E proprio questo è il punto: l’Europa ha lasciato ai singoli stati membri l’organizzazione e la risoluzione dei problemi fiscali, ritenendoli un problema esclusivamente interno si trova adesso nella scomoda posizione di non poter definire univocamente i criteri di azione per scongiurare nuove crisi dei debiti sovrani (per intenderci le crisi che hanno colpito Grecia e Irlanda), ma limitarsi a costituire semplicemente un “fondo comune salva stati” che, anche se dotato di 750 miliardi di euro, non potrebbe mai reggere l’urto del mercato che ragiona su ben altre cifre.

Sarebbe stata più adeguata una maggiore coesione e collaborazione, anziché ogni volta mediare posizioni intransigenti come quella tedesca, olandese e austriaca, che grossi problemi di debito non ne hanno, con stati più sensibili ai problemi debitori, maggiormente a rischio di nuove crisi.

E qui veniamo alla mia obiezione principale: alzare i tassi in Europa è, al momento, prematuro.

L’inflazione ha due cause: una endogena e una esogena. Quella endogena, ovvero interna allo stesso sistema, è legata alla crescita economica: maggiore è la crescita economica, maggiore è l’inflazione.

Quella esogena, ovvero esterna al sistema in oggetto (nel nostro caso l’Europa), dipende dai beni importati, principalmente dalle materie prime. E’ indubbio, e lo riconosce lo stesso Bini Smaghi, che attualmente la nostra inflazione è guidata da cause esogene. Può il taglio dei tassi di interesse intervenire su cause esterne? Assolutamente no, perché le banche centrali non riescono più a intervenire sulla dinamica dei prezzi delle materie prime, perché la rimappatura dell’economia mondiale ha dato spazio a nuovi player, peraltro aggressivi, come i paesi emergenti e totalmente fuori controllo da parte della BCE e della FED.
E’ illusorio pensare che i prezzi delle materie prime come petrolio e rame saranno fatti nei prossimi anni da operatori europei e americani, quindi, per quanto riguarda la BCE, è inefficace attuare politiche monetarie restrittive non tenendo conto che l’inflazione è maggiormente importata dalla pressione delle materie prime, che salgono per una maggior richiesta di paesi fuori dall’Unione e che consumeranno sempre di più in funzione di un PIL che cresce da anni a cifra doppia. E questo si vede su tutte le materie prime, anche sugli alimentari.

Aumentare i tassi di interesse, quindi, avrà come risultato quello di raffreddare la crescita economica europea, che lo stesso Bini Smaghi, ha definito ancora incerta, senza riuscire ad intaccare le cause esogene dell’inflazione. Per altro, in questo momento, a causa delle tensioni nel Medio Oriente e in Africa, vi è stato un grosso aumento del prezzo del petrolio e di alcune commodities, che ovviamente genera un aumento del’inflazione, ma, quando queste tensioni spariranno, anche la tensione inflattiva sul petrolio verrà a mancare, determinando quindi un ribasso o quanto meno un calmieramento dell’inflazione.

Aumentare adesso i tassi di interesse rischia di essere un enorme danno per l’Europa: aumenterà i costi per i paesi fortemente indebitati (tra cui Italia e Spagna), generando nuove tensioni sui mercati obbligazionari e valutari, strozzerà le imprese che si troveranno strette tra un aumento dei tassi di interesse (che significa maggiori costi per i finanziamenti) e le tensioni inflattive che non saranno scalfite dalle decisioni della BCE.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

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La dura vita di una piccola imprenditrice

postato il 11 Marzo 2011

Vivo a Casalgrande in provincia di Reggio Emilia, ho una PMI a conduzione familiare e da 5 anni ho anche dei dipendenti. Ho iniziato la mia attività con tanto sudore e sacrificio, lavorando 7 giorni su 7, e posso dire che fino a 3 anni fa si lavorava e si riusciva a stipendiarci decentemente per poter portare avanti l’attività.

Poi il mondo mi è caduto addosso, nel senso che il lavoro non manca, ma la politica e le banche ci hanno tagliato le gambe. Da un lato le tasse non fanno che aumentare, dall’altro le banche non aiutano, anzi rendono dura la vita di un piccolo imprenditore: non danno nessun aiuto creditizio, fidi eliminati, rientri in conto corrente in meno di 24 ore, e chi più ne ha più ne metta.
I dipendenti vanno pagati, hanno famiglie da mantenere; i fornitori vanno pagati, altrimenti la materia prima non ce la consegnano e noi non riusciamo a lavorare, ma noi, come piccoli imprenditori, siamo arrivati al fondo del barile!

Ho capito principalmente che il Governo vuole abbattere le PMI e mantenere le grandi aziende, ma questo stesso Governo non capisce che sono le PMI che mandano avanti l’Italia e che arricchiscono le banche. Il Signor Tremonti, il Signor Berlusconi, hanno dichiarato che le banche avevano avuto i loro crediti per sostenere le PMI.

Ebbene io dico: VERGOGNA! Tutte parole spese all’aria, tutte falsità, provate andare in banca e chiedere se realmente quello che hanno dichiarato è realtà…… solo bugie. Personalmente sono stanca di sentire solo i casi di Berlusconi e della sua cricca e spero che tutti gli italiani si sveglino. Lui è un imprenditore e tira l’acqua al suo mulino, non può governare l’italia in questo sistema, prima toglie le tasse e poi le rimette raddoppiate.
E noi Italiani? Ebbene io vedo attorno a me tanti Italiani che hanno paura di parlare, che si svegliano al mattino con la paura di iniziare la giornata, la gente è triste, sfiduciatia, le famiglie non arrivano più alla fine del mese, le famiglie vendono la casa, perché
temono il minimo imprevisto (una malattia, un guasto alla macchina). Spero vivamente e con tutto il cuore che le PMI, i dipendenti, anzi tutti gli italiani percepiscano bene quello che sto scrivendo e che inizino a combattere per le nostre idee, ma soprattutto che i nostri Governanti, governino e non stiano solo a parlare.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Cristina Meglioli

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La paura della verità che viene detta ridendo

postato il 10 Marzo 2011

Ogni martedì la trasmissione di Giovanni Floris “Ballarò” è aperta da Maurizio Crozza che con la sua satira pungente commenta l’attualità politica e puntualmente, mentre Crozza fa il suo monologo, la telecamere indugia sugli ospiti colpiti dalle sue battute. Tra questi si distinguono i rappresentanti della maggioranza, di volta in volta i vari Bondi, Ravetto, Cicchitto e Brambilla che non ridono e anzi guardano in cagnesco il comico genovese in attesa di chiedere a Floris di poter replicare alle battute. In tutto il mondo ci sono spettacoli di satira, ma da nessuna parte del globo ho visto politici chiedere di poter replicare alle battute. Anche perché mi sono sempre chiesto: ma come si replica ad una battuta? Forse facendone una più bella? Raccontando una barzelletta?

Purtroppo, a parte il Presidente del Consiglio, non mi pare di vedere in giro grandi barzellettieri e quindi quell’aria seriosa e di sufficienza davanti alle battute del comico di turno mi sembra davvero ridicola e indice di scarsa intelligenza. Fortunatamente c’è anche chi come Pier Ferdinando Casini che pubblica sulla sua pagina Facebook una puntata del programma satirico “gli Sgommati” dove bonariamente viene preso in giro da un pupazzo di gommapiuma che ne riproduce le fattezze. Il leader dell’Udc si colloca in una consolidata tradizione italiana di politici amanti della satira: Giovanni Spadolini ad esempio non si arrabbiò mai con Giorgio Forattini che lo disegnava pachidermico e nudo, così come Amintore Fanfani per l’imitazione di Alighiero Noschese, e Giulio Andreotti andava addirittura al Teatro Margherita a godersi la sua imitazione fatta da Oreste Lionello. Saper ridere di sé non è solo una grande qualità umana, ma è anche un antidoto efficace contro i deliri di onnipotenza, al contrario, la serietà ostentata davanti ai lazzi dei comici, gli “editti bulgari” per combattere le barzellette e le querele per le vignette satiriche non sono solo riconducibili ad una pochezza intellettuale e culturale e ad una forma di violenza, ma sono anche il sintomo di una paura: la paura della verità che viene detta ridendo.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Il Partito che vorrei…

postato il 8 Marzo 2011

Siamo alle solite.
Mancano pochi mesi alle elezioni comunali, e i paesi sembrano risvegliarsi, o meglio, i partiti sembrano uscire dal letargo, ripopolarsi. Ormai tutti, dal PDL, al PD, passando per API,MPA,IDV (chi più ne ha, più ne metta!), pullulano di gente interessata solo ed esclusivamente al bene del proprio Comune.
Chissà perché, però, quest’amore per il proprio paese e questa voglia di fare politica si riaccendano soltanto in un periodo di tempo così breve, e si spengano, troppo spesso, pochi mesi dopo il voto.
In realtà, per me, la politica, l’essere in un partito, è tutt’altro. La vita di partito va ripensata.
Per me, significa partecipazione, continua e disinteressata, alla vita politica di un paese, significa vivere a contatto con i problemi di tutti i giorni, vederli con i propri occhi, toccarli con mano. Far parte di un partito significa, prima di tutto, sedersi in cerchio, guardarsi negli occhi, e discutere, discutere e discutere. Condividere notizie, portare alla luce problemi e, insieme, formulare proposte. Insieme, per l’appunto.
Infatti, continuo a credere che in un partito ogni tesserato debba avere pari dignità nelle assemblee. Nonostante io venga da un’esperienza fortunata, nonostante io abbia potuto assaporare in prima persona una viva attività partitica, so che in molti casi quella che io ho vissuto come normalità in questi anni, è pura utopia.
Quasi sempre, la situazione è questa: le assemblee non esistono, le sedi sono ermeticamente chiuse, e le chiavi sono detenute dai soliti vecchi volponi della politica, che organizzano riunioni per pochi eletti.
Fortunatamente, non è sempre così. In alcuni casi, continua a sopravvivere quella passione e quella voglia di fare politica, e si anima nei cuori di persone che credono, come me, che la vita di partito debba fondarsi su partecipazione e condivisione. Quella condivisione di idee, di gioie e, perché no, anche di delusioni, che può rendere grande un partito.
Ebbene, la mia speranza è proprio questa: che nei partiti si possa respirare quest’aria nuova, di cambiamento. Soltanto così, riacquisirebbero credibilità, anche agli occhi dei giovani, e forse tornerebbero ad animarsi, non solo a pochi mesi dalle elezioni.
L’unico errore da non commettere è lasciare che chi fa politica per passione, in maniera del tutto disinteressata, possa essere scavalcato da chi, a pochi mesi dal voto, brama per mettersi in mostra.
Soltanto così, credo, si potrà voltare pagina ed iniziare ad immaginare un nuovo modo di fare politica e dunque far tornare i giovani alla politica.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Marta Romano

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8 marzo, festa della donna. Alcune premesse

postato il 7 Marzo 2011

Oggi  assistiamo ad un degradare della piazza a luogo di scontro anziché di incontro. La Contrapposizione ci sta divorando, non siamo più capaci di capire che tutto può essere opinabile, quindi tutto può essere condivisibile oppure no, ma che ogni cosa  fa parte del tutto,  che in qualche modo ci appartiene:  solo chi è in malafede può continuare a sostenere, e sperare di inculcarci, che bisogna sempre schierarsi e dividersi possibilmente in fazioni che sperano quotidianamente solo di disintegrarsi a vicenda. E’ per questa ragione che non ho condiviso la Piazza del 13 febbraio, poiché a mio avviso , come tutto ormai nel nostro Paese,  essa è finita con l’essere strumentalizzata.  Ne condividevo i princìpi nobili per cui in molte l’hanno voluta,  ossia gridare ciò che Lorella Zanardo ha sapientemente riassunto ne Il  corpo delle donne, urlare cioè  che “non siamo solo un corpo”,  o meglio che non siamo solo quello. Ecco perché ho apprezzato di più ciò che molte donne  UDC  e non, ma in ogni caso fuori dalla Piazza,  hanno fatto  il 13 febbraio:  sono andate direttamente a chiederlo alle “donne interessate” i perché  riguardo la scelta  del corpo,  magari anche sul marciapiede, ma senza nessun presunto sentimento di superiorità, che ci tiene sempre distanti anni luce dalla verità delle cose e delle situazioni. Il 13 febbraio abbiamo semplicemente assistito alla ennesima protesta  contro il Governo,  sprecando così una occasione ( a meno che veramente non si voglia scendere nel ridicolo, additando  il Premier come  unico o maggior responsabile  della  “questione femminile”) e  poi perché dal 14 febbraio non mi è sembrato proprio di vedere e sentire in giro quella tanto agognata solidarietà in rosa. Mi capita spesso invece  di osservare il contrario:   tanta miseria Femminile, fatta di  invidia,  gelosia,  menzogna ed inganno,  gioco sporco e mancanza di lealtà, puntualmente a discapito di altre donne,  se c’è di mezzo un uomo o una promozione sul posto di  lavoro da contendersi, o anche solo per  famelica volontà di sopraffazione da soddisfare.  E così siamo solo  di fatto  passate  dalle nostre beghe e contrapposizioni quotidiane alla contrapposizione in grande stile,  tra donne di sinistra e donne di destra, che, come era ovvio che fosse, rispondono con la loro piazza pro Premier.

Quando saremo capaci di essere unite invece  solo  ed esclusivamente dalla parola “donne”, a prescindere da tutto il resto?  E soprattutto,  quando saremo  tutte unite al di là  degli interessi  maschili? Non dovremmo dimostrare di essere realmente noi, donne e madri  capaci di partorire la Vita e l’Amore non solo con le chiacchere, ma con i fatti?  Quando dimostreremo  di essere madri  non  solo dal punto di vista  biologico, se poi di fatto  non perdiamo occasione per  trasformarci  immediatamente  in streghe a caccia della Biancaneve di turno? Quando la smetteranno alcune  donne, che non riescono ad ammettere che il Ministro Carfagna sia un buon Ministro, solo perché vorrebbero analizzare con la lente d’ingrandimento il suo passato di “ donna “( come se esso avesse a che fare con il giudizio sul suo operato di Ministro della Repubblica), ma che poi con senso materno assolvono le “ poveri minorenni”, come se quest’ultime  fossero sempre incapaci di intendere e di volere?   Questo atteggiamento non rivela altro che un subdolo sentimento di razzismo e di invidia, potrei dire “atavico”  in molte, troppe donne ancora, purtroppo.  L’invidia ovviamente verrà riservata, con annesse maldicenze, ad  una donna come Mara Carfagna, bella,  capace, stimata da donne e uomini; il razzismo subdolo  invece sarà  per  quelle che,  solo apparentemente , suscitano pietà,  quelle” povere”, appunto, tali  solo  perché  le donne che le assolvono  lo fanno esclusivamente  per la loro presunta (solo nella loro testa) sciocca superiorità rispetto ad una tipologia di donna ben precisa.  Ma  le Donne, le Madri  vere non uccidono la dignità di donna in entrambi i casi:  né Ministro donna-bella, né  giovane donna  che ha abbracciato un percorso di vita poco raccomandabile o condivisibile dalla maggior parte delle persone.  Questi mezzucci così miseri e bassi, che nulla hanno  a che fare con le peculiarità della donna,  dovrebbero essere le alte qualità morali che  distinguono il gentil sesso dalla presunta volgarità maschile?  E la presunta parità donna-uomo  è da esprimere facendo solo  quello che i maschi hanno fatto fino ad ora,  come la partecipazione ad uno  spogliarello azzurro o  le molestie sessuali  che “finalmente” possiamo fare anche noi  sul posto di lavoro per  la carriera?  Nulla da dire su chi fa lo spogliarello e su chi assiste ( visto che Parigi insegna che anche questo può essere trasformato in qualcosa di bello e artistico addirittura!), ma erano solo questi i traguardi importanti da conquistare?  Mi piacerebbe  se la superiorità  biologica della maternità si  esplicasse nella proposta  di fare una super piazza  di  richieste  condivise  da tutte le donne.  Madri, sorelle, figlie, che si riuniscono in una mega piazza  magari per aiutare concretamente donne e uomini in difficoltà:  una piazza per esempio per ed insieme  ai malati di Sla, o di qualsiasi altra malattia rara, che priva le persone dell’ autosufficienza  necessaria per vivere dignitosamente  ogni istante della propria giornata. Una piazza per loro e con loro per chiedere quell’adeguata assistenza e fondi economici che ancora mancano.  Se non ora quando? L’ otto marzo, nuovamente in piazza con la sfida di rappresentare e comunicare la dignità della donna, di ogni donna.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Elisabetta Pontrelli

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Tanta voglia di futuro, ma a scuola i pc sono rotti

postato il 5 Marzo 2011

L’On. Roberto Rao è intervenuto, qualche settimana fa, al convengo organizzato da AgendaDigitale, spiegando la posizione che il nostro partito ha assunto sul delicato tema della libertà della Rete. In questi lunghi mesi, grazie a una proficua collaborazione tra la base e diversi parlamentari, l’Udc ha voluto entrare a pieno titolo nel dibattito sulla modernizzazione del nostro Paese: obiettivo, questo, da raggiungere attraverso la promozione di un Internet libero, finalmente, di svilupparsi come meglio crede.

La sfida di AgendaDigitale – da noi già accettata e rilanciata – sta proprio in questo, nel dare a questa nostra benedetta Italia una “strategia digitale”, che possa farci uscire dal gap tecnologico e informatico (in cui ci hanno cacciato anni e anni di politiche miopi) e restituirci a degli standard europei e moderni. Rao ha esemplificato questa brutta situazione, in modo chiaro, raccontando agli intervenuti del convegno il rapporto che hanno i suoi due figli con il mondo digitale: il figlio più piccolo, di un anno e 8 mesi, è nato con l’iPad e – come racconta Rao – sa già come utilizzarlo, mentre la figlia più grande, di 7 anni, si ritrova a non fare informatica a scuola perché mancano i computer o è assente la maestra. Ci sono solo 6 anni di differenza tra i due, eppure è evidente come la seconda – che pure vive in un contesto sociale perfettamente integrato qual è quello scolastico – si trova in difetto rispetto al primo. In sostanza, finché si è in famiglia la tecnologia è qualcosa di fondamentale e accessibile, ma non appena si esce dai confini della propria dimora, ecco che ci ritroviamo immersi in un mondo vecchio che non riesce a cambiare.

E la politica? A parole – sottolinea Rao – si dice subito pronta: è nei fatti che è assente, incapace di interpretare i reali bisogni della società e dei suoi cittadini. Quale differenza c’è tra le aule che frequento oggi io e quelle che frequentava un mio bisnonno decenni e decenni fa? Praticamente nessuna: a parte i calamai, le lavagne, i banchi e le cattedre sono sempre lì. E attenzione, non è generalizzare o banalizzare! Il fatto che la Scuola abbia rifiutato l’integrazione tecnologica, l’ha resa più povera e debole. Sarà un caso poi, che il nostro Senato promulghi una legge illiberale e retrograda che proibirà di fare sui libri sconti superiori al 15 per cento? E sapete perché? Per paura di Amazon e dell’e-commerce dei libri! Ha ragione Francesco Costa, che su questo punto ha scritto: “da sempre i cambiamenti aprono nuovi mercati e altri ne chiudono, creano nuove professioni e altre le cancellano: non c’è stato modo di salvare i maniscalchi quando sono state inventate le automobili”. Abbiamo voglia di Futuro.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

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Parmalat, il silenzio assordante del governo

postato il 4 Marzo 2011

Se non fosse per il Decreto Milleproroghe, che contiene di tutto e di più, si può affermare che il Governo si è dimenticato dell’economia.

In questi giorni, c’è l’aumento dei carburanti, ma il governo non prende alcun provvedimento, tanto paga il cittadino. In questi giorni si discute dei futuri assetti di Parmalat, azienda “gioiello” del settore alimentare italiano, e il governo glissa, dopo avere preso un provvedimento che rischia solo di peggiorare la situazione.

Ma andiamo con ordine.

Dopo che Parmalat è stata “graziata” dalla legge Marzano, è rinata con una proprietà azionaria polverizzata. Nel frattempo è stato messo a capo di Parmalat Bondi, il quale ha adottato una strategia molto prudente, che inizialmente poteva pure andar bene, ora non più. Teniamo presente che Parmalat non ha debiti, produce utili e ha 1,4 miliardi di euro di liquidità che provengono dalle cause risarcitorie che ha vinto. Per statuto, può distribuire come dividendi ai soci solo il 50% degli utili annuali.

Indubbiamente la gestione Bondi produce utili, ma con l’enorme cassa detenuta, la società, secondo gli analisti e gli azionisti, potrebbe intraprendere una strategia di crescita con acquisizioni o distribuire un dividendo più alto.

Proprio per questo motivo, tre fondi di investimento esteri (Skagen, Zenit, e Mackenzie) hanno rastrellato il 15% della società e vogliono proporre una lista alternativa all’attuale Consiglio di Amministrazione, in pratica eliminando Bondi, affinchè l’enorme liquidità di cui sopra venga distribuita con un dividendo straordinario, o serva per fare delle acquisizioni.

Il governo, volendo difendere a tutti i costi Bondi, è intervenuto: prima sondando i fondi e cercando un accordo con loro per mantenere gli attuali vertici societari, poi, visto che non ha avuto risultati, inserendo nel decreto milleproroghe una norma che blocca le modifiche dello statuto di Parmalat fino alla scadenza del concordato (che avverrà nel 2020).

I fondi di investimento non hanno desistito e hanno continuato a formare una “lista” per sostituire l’attuale dirigenza di Parmalat.

A questo punto, il governo si è defilato e le banche hanno provato a cercare dei “cavalieri bianchi”, ovvero degli acquirenti che possano difendere Bondi e la italianità di Parmalat.

E arriviamo alle notizie di questi giorni: Luca Cordero di Montezemolo con il suo fondo Charme sarebbe interessato all’acquisizione, ma solo se entrano altri fondi di investimenti, anche perché, servirebbe almeno 1 milairdo di euro per il 30% della Parmalat (fatti salvi ulteriori obblighi di Opa e quindi altri esborsi di denaro), e il fondo Charme non li ha a causa di perdite pregresse. Le necessità del fondo Charme sarebbero risolte se nella cordata entrassero altri imprenditori e soprattutto Banca Intesa, che preme per fare fondere Parmalat e Granarolo (di cui la banca detiene il 15%), ma quest’ultimo punto, se da un lato favorirebbe Banca Intesa, dall’altro mancherebbe di senso a livello industriale: le due società non sono complementari, operano negli stessi mercati, e dovrebbero, anzi, cedere pezzi dei loro business in Italia a causa dell’antitrust. Quindi una operazione finanziariamente conveniente per i big (non per i piccoli azionisti), ma dalle scarse prospettive industriali. In ogni caso al momento, anche per i tempi risicati (le liste per sostituire il cda devono pervenire entro il 18 marzo), la cordata italiana sembra molto difficile da realizzare.

Nel frattempo è scesa in campo anche una grossissima società brasiliana per acquistare Parmalat, la Lacteos do Brasil, la quale metterebbe a capo della Parmalat, il manager gerardo Bragiotti, e sostiene che manterrebbe due sedi centrali: una in Brasile e una in Italia.

C’è da chiedersi: per quanto tempo manterrebbe queste due sedi centrali? E chi avrebbe realmente il controllo?

Su tutto questo il governo tace. Ma il rischio è che chi compra Parmalat poi assorba la liquidità per i suoi scopi e non certo per il benessere di tutti gli azionisti, ottenendo in tal modo di comprare Parmalat usando gli stessi soldi dell’azienda (tecnica nota come “leveraged buy out”).

Come ho detto, il governo sembra essersi defilato, ma questo silenzio non è accettabile se consideriamo che parliamo di una azienda che fattura oltre 4 miliardi di euro l’anno e garantisce molti posti di lavoro in Italia.

Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Aggiornamento del 7 marzo 2011:

Come previsto, a causa dei tempi risicati, la cordata italiana difficilmente vedrà la luce, infatti il fondo Charme di Luca Cordero di Montezemolo ha deciso di rinunciare, anzi ha affermato in una nota “di non avere allo studio, e di non essere in alcun modo coinvolto, in alcuna ipotesi relativa alla creazione di cordate per acquisire quote di tale società”.

A questo punto restano due contendenti a fronteggiarsi (senza considerare Bondi che ha fatto sapere di non volere schierare una sua lista, ma lasciare la decisione sul suo futuro agli azionisti): i fondi stranieri Zamechi, Mackanzie, Zenit (a cui sembra che si sia aggiunto il fondo Blackrock che detiene il 6% della società), e l’ipotesi prospettata da banca Leonardo di trovare una “combinazione” con la società brasiliana Lacteos do Brasil.

Si vocifera di manovre di Mediobanca e Banca Intesa, ma sembrano voci senza alcun fondamento e soprattutto, senza un piano industriale da proporre.

Fermo restando che le aziende devono essere libere di agire e che non spetta alla politica guidare le aziende, è anche vero che scopo della politica e del Governo è anche quello di disegnare il quadro normativo in cui le aziende si muovono, e soprattutto quello di vigilare nell’interesse di tutti: deigli azionisti (anche di minoranza), dei risparmiatori, dei consumatori e dei lavoratori.

A tal proposito, si continua a registrare la latitanza del Governo.

Aggiornamento dell’11 marzo 2011

Come ormai tutti sanno, Bondi, amministratore delegato di Parmalat, rischia di essere estromesso dalla società. La sua rispsota non è quella di presentare un piano industirale valido che convinca gli azionisti, ma semmai di cercare l’appoggio del governo che lo difenda, magari con qualche nuova interpretazione della legge Marzano.

Il punto per me non è l’italianità, che nel mondo gloablizzato odierno rischia di essere un concetto obsoleto, ma se una azienda ha un percorso di sviluppo. E questo dovrebbe anche essere l’interrogativo principale di un governo serio che abbia una politica economica degna.

Putroppo si registra l’ennesimo caso in cui il governo, se interverrà, lo farà solo tramite spot elettorali senza pensare realmente a cosa sia meglio per i lavoratori e gli azionisti di una azienda.

E su quest’utimo punto credo che sia doveroso affermare che non è vero che gli interessi degli azionsiti e dei lavoratori sono divergenti, ma anzi sono coincidenti, perchè una azienda che si sviluppa, porta lavoro per i lavoratori, e porta valore per gli azionisti.

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Casa, l’Anci fa i conti e lancia l’allarme

postato il 3 Marzo 2011
In mezzo ai festeggiamente per l’approvazione alla Camera dei Deputati del federalismo municipale si alza l’avvertimento dell’ANCI, che, facendo i conti, “scopre” che i provvedimenti del governo, se non saranno adeguatamente controbilanciati, potrebbero generare aumenti negli affitti per circa 1 milione di famiglie.
Claudio Fantoni, presidente della Consulta Casa dell’ANCI, afferma infatti: “Se la cedolare secca non verrà bilanciata da altre misure, è concreto il rischio aumento per l‘affitto di quasi 1 milione di famiglie, che secondo le stime disponibili, rischiano di essere trasferite dal canale concordato al mercato a canone libero”. Anzi la cedolare secca finirà con l’incidere in modo penalizzante o comunque non incentivante sul canale concordato degli affitti, finendo per compromettere la politica di calmieramento dei canoni promossa in questi anni dai Comuni e soprattutto snaturando lo scopo della sua istituzione che era quello di stimolare l’edilizia privata.
Sbaglia chi crede che questo avviso giunga inaspettato, perché da settimane il governo era stato messo sull’avviso e non solo da noi, ma anche da fonti autorevoli e “neutrali” come la CGIA di Mestre che tramite Bertolussi aveva messo in guardia da rischi simili, denunciando come le intenzioni del governo, fossero solo intenzioni, ma che alla fine nulla sarebbe cambiato per le famiglie in affitto e per i proprietari di case e che anzi a trarne i benefici sarebbero stati solo i redditi alti.
A questo punto non resta che unirsi a quanti chiedono al governo di dare vita ad un tavolo con le parti sociali coinvolte o ad un Osservatorio neutrale, per verificare le disposizioni e la loro reale efficacia, perché la riforma federalista ha senso solo se porta dei benefici a tutti i cittadini, o almeno ai cittadini più deboli perché economicamente svantaggiati.
Noi non possiamo e non dobbiamo avallare una riforma che nella migliore delle ipotesi lascia tutto invariato a livello globale, ma che poi presenta vantaggi per chi non ne ha bisogno, e svantaggi per chi è già tartassato.
“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati
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La rinascita del Cile e l’anti-risorgimento italiano

postato il 3 Marzo 2011

Il presidente cileno Sebastian Piñera in un’intervista al Corriere ha dichiarato di non sentirsi affatto paragonabile al nostro presidente del Consiglio, l’intramontabile Silvio Berlusconi. In molti avvicinano i due uomini in quanto entrambi sono di centrodestra, entrambi rappresentano il potere esecutivo di due Paesi, entrambi provengono dall’imprenditoria (e la somiglianza si fa più marcata se pensiamo che Piñera, come il nostrano Cavaliere, ha un passato da imprenditore nel calcio).

Piñera è presidente da poco meno di un anno, un novizio del mestiere rispetto al suo termine di paragone, ma ha tenuto a rimarcare le dovute differenze, che sono di natura sostanziale e non solo formale. Innanzitutto l’età. Noi italiani siamo assuefatti ad un mondo politico fatto di vecchi, di dinosauri, di fossili cresciuti e invecchiati nella politica, con scarsa propensione a farsi da parte. Ne conosciamo a memoria i nomi visto che da vent’anni campeggiano con le loro dichiarazioni sulle prime pagine dei giornali, a seconda della fortuna o della visibilità della proposta politica di cui si fanno di volta in volta portavoce. Piñera, già esponente politico di rilievo, è presidente dal 2010. Berlusconi dal 1994 ha già formato quattro governi. Il cileno ha poco più di sessant’anni, l’italiano va per i settantacinque. Piñera ha studiato ad Harvard e ha insegnato per quindici anni, quindi conosce bene il mondo accademico. Per Berlusconi le università e le scuole superiori sono solo feudi della sinistra, e non perde occasione per operare tagli al sistema-istruzione attraverso ministri poco inclini al dialogo con le forze che rappresentano la scuola e l’università. E, last but not least, il presidente cileno ha risolto un nodo che per Berlusconi e l’opinione pubblica italiana pesa come un macigno: il conflitto di interessi, formula ormai accettata nel comune parlare che indica quel grumo di interessi a cavallo tra politica e affari di un leader che rimane imprenditore pur essendo presidente del Consiglio. In Italia Berlusconi continua a possedere tre tv, alcuni giornali, case editrici, imprese finanziarie e società sportive. Un rapporto pericoloso mai affrontato con legge, malgrado le parole spese e le accese proteste delle forze d’opposizione, negli anni in cui il “conflitto di interessi” impazzava sui giornali e portava in piazza persone indignate. Berlusconi è  ancora lì coi suoi grassi dividendi mentre il suo “omologo” cileno, sebbene nessuno glielo abbia chiesto, ha smesso i panni dell’imprenditore per quelli di uomo dello Stato che deve guardare a interessi collettivi e non di parte. Una rarità a cui non siamo abituati. Ma tant’è.

Al confronto la figura di Berlusconi, e dell’Italia, se posso permettermelo, impallidiscono ancora di più, quando Piñera parla delle ultime tappe importanti compiute dal suo popolo, che ha saputo mettere da parte l’asprezza di un passato fatto di divisioni e lotte politiche in vista di un’unità politica e sociale, preludio a uno sviluppo economico convinto che, si spera, porterà il Paese ad affrancarsi dalla povertà. “Il Cile è una società riconciliata”, “siamo tornati alla democrazia in modo unitario, saggio e pacifico” e il leader ha progetti seri e robusti per la crescita.

Il confronto è doloroso. Certo a noi non manca la democrazia, il nostro percorso traumatico lo abbiamo già affrontato decenni or sono, ma è quel clima di divisione a preoccupare.

Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia potrebbe essere, perché  no, l’anno della riconciliazione e al contempo l’anno delle riforme, queste sconosciute, sempre evocate e mai realizzate. Il Paese le aspetta dal lontano 1994 quando il deus ex machina le promise solennemente, ribadendole in occasioni successive. La seconda repubblica non ha invertito la rotta, l’Italia è sempre ferma al palo. Se il 2011 ci porterà in una “terza dimensione” della politica, con la creazione convinta di un piano di riforme condivise sarà già un grande risultato. Ma le premesse non prospettano nulla di buono. Il federalismo che tutti desideriamo ha il bollino della Lega, che ne dispone come se fosse appannaggio personale senza considerare le posizioni delle altre forze politiche e dei veri rappresentanti delle autonomie. Il quadro è desolante ma per invertire la rotta basta poco: più responsabilità da parte di chi governa (perché ognuno ha i suoi ruoli, è bene sottolinearlo) e maggiore ascolto a quei protagonisti della scena pubblica che ci danno tanti suggerimenti, a cominciare dal presidente della Repubblica, figura preziosissima, passando per la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia che non perde occasione per chiedere alla politica di far ripartire il Paese, fino ad arrivare alle associazioni, alle aggregazioni civili dell’Italia migliore.

Siamo alla vigilia del vertice italo-cileno, l’unica cosa che mi sento di dire è: prendiamo esempio dal Cile, e il consiglio che rivolgo al presidente del Consiglio (e all’Italia) è di prendere esempio da Sebastian Piñera.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Stefano Barbero

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