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Gheddafi, ultimo atto.

postato il 23 Agosto 2011

Dopo oltre 150 giorni di combattimenti, caratterizzati da fortune alterne per entrambi gli schieramenti, sembra che per il Colonnello le ore siano ormai contate.

I combattenti del Comitato Nazionale di Transizione controllano ormai la capitale libica.

La Guardia Presidenziale, l’unità di elite del regime, si è arresa.

Radio e televisioni, che in questi mesi hanno propagandato la voce del regime chiamando il popolo al massacro degli oppositori, tacciono.

Fino a qualche ora prima dell’arrivo dei ribelli, hanno trasmesso nastri registrati dal Rais. Ora non sono più il megafono del regime.

A Tripoli la gente si è riversata nelle strade per accogliere i le milizie del C.N.T.: stridono nella memoria le immagini di un Gheddafi stanco che qualche settimana fa arringava poche centinaia di persone nella centralissima Piazza Verde, nel tentativo di mostrare al mondo la potenza di un regime già in caduta libera.

Sono state smentite le voci sul fatto che due figli del Colonnello siano prigionieri degli insorti: tra questi il secondogenito Saif al-Islam, che nei disegni del padre avrebbe dovuto prendere in mano le redini del regime.

Proprio in merito a ciò si apre una delicata questione politica: ora che la dittatura si appresta a vivere le sue ultime ore, tra defezioni sempre più numerose (ultima in ordine di tempo ma non certo di importanza, quella del comandante della Guardia Presidenziale), quale sarà la sorte dei funzionari e dei politici, specialmente di alto lignaggio, che in oltre 40 anni sono stati l’ossatura del regime?

Quale sarà la sorte del Rais se venisse catturato?

La Libia non aderisce infatti alla Corte Penale Internazionale: su di essa non grava alcun obbligo in merito all’estradizione del leader e dei suoi familiari.

I leader politici occidentali si sono spesi per ricordare agli insorti che la liberazione del Paese non deve trasformarsi in un bagno di sangue. Tuttavia lo scenario è molto complesso.

La struttura del potere in Libia, in questo simile a molti Stati del continente africano, si è articolata e consolidata negli anni grazie al clan da cui il Rais proveniva.

Del tutto disomogenea dal punto di vista clanico  si mostra la compagine di governo del C.N.T.: da un lato essa rappresenta in maniera più democratica la società libica, raccogliendo le istanze di quelle tribù escluse dal potere o vessate per decenni.

Nondimeno, sono evidenti due rischi molto gravi per la stabilizzazione del Paese: il primo è che il clan del Colonnello venga fatto oggetto a sua volta di feroci violenze a seguito delle inevitabili epurazioni dagli apparati amministrativi e di governo; il secondo invece coinvolge direttamente gli insorti, i quali potrebbero aprire un fronte interno, specialmente quando le contingenze della guerra saranno venute meno, per determinare i rapporti di forza nel post-Gheddafi.

Un segnale importante di quanto si rischi l’instabilità politica e di quanto la Libia sia divisa è data dall’intervento dei berberi del deserto contro i beduini del clan al potere.

La frattura non è solamente clanica, all’opposto anche etnica. I berberi, per anni posti ai margini della società libica, ora reclamano la propria parte nella vittoria: sono stati tra i primi a sollevarsi, partendo da minuscoli villaggi ai bordi del deserto, ma col tempo assestando colpi letali alle truppe lealiste che si trovavano ad operare con uno spazio di manovra sempre più ristretto.

Senza un intervento chiaro e legittimante da parte di quegli stessi Paesi che quasi sei mesi fa si sono assunti la responsabilità di mettere fine alla repressione, c’è il rischio che la nascente democrazia libica piombi in un nuovo medioevo di lotte fratricide. L’Italia sembra aver rinunciato a giocare quel ruolo determinante che è suo di diritto: è importante ricordarci che ciò che avviene a qualche centinaio di miglia a Sud delle nostre coste, rientra non solo nella nostra politica estera, ma è persino una priorità interna.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Federico Poggianti

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E’ utile abolire le province? Risponde Roberto Occhiuto

postato il 21 Agosto 2011
Lettera in redazione:
Premettendo che sono un dipendente a tempo indeterminato di un’azienda speciale della Provincia di Milano, vorrei porre alcuni quesiti.
Spesso si parla di abolizione delle Province. Spesso si ritiene che siano la causa del debito pubblico. Nella totalità degli interventi si tralascia di specificare delle conseguenze:
1) cosa accadrà ai 60000 dipendenti che forniscono ai cittadini servizi essenziali?
2) dato che i soldi stanziati dallo Stato sono diretti a coprire i costi del personale, verranno licenziati?
3) quale il vantaggio altrimenti per i conti dello Stato.
Credo che l’abolizione delle province  sia uno specchietto per le allodole. Sarebbe impopolare dire che la maggior parte degli sperperi siano riconducibili alla sanità ed alla previdenza. Io percepisco 1200 € e sono conscio degli abusi nella P.A., ma sono anche convinto che una maggiore attenzione vada data a termini ed argomenti che potrebbero suscitare plauso ed altresì preoccupazione in chi da sempre fa il suo dovere.
La demagogia non dev’essere fatta sulla pelle dei lavoratori.
Grazie.
Luca

Caro Luca,
ho letto il suo commento e penso che abbia ragione di lamentarsi della demagogia con la quale si sta discutendo in questi giorni della Manovra. Le assicuro che infastidisce anche noi, perché, benché all’opposizione, avvertiamo la responsabilità di essere parte del gruppo dirigente del Paese e sappiamo bene che in questo momento la politica dovrebbe dimostrare ben altra tempra.
Proprio perché siamo allergici alla demagogia abbiamo detto che l’abolizione parziale delle province non serve a nulla, é solo uno spot ed è ridicola.
Altra cosa, invece, sarebbe stata abolire tutte le Province, così come ogni partito aveva scritto sul proprio programma elettorale prima di lasciare solo noi a sostenerlo in Parlamento. Le assicuro che, per quanto mi riguarda, non ne faccio tanto una questione di risparmio per la finanza pubblica: le Province oggi costano circa 12 MLD l’anno e –  siccome é evidente che i dipendenti giustamente non potranno essere licenziati e che molti altri costi dovranno comunque essere sostenuti da Comuni e Regioni che ne erediterebbero le funzioni – il risparmio non sarebbe poi così significativo (sicuramente varrebbe meno della maggiorazione dell’IVA di qualche decimale).
Sono convinto, invece, che abrogare le Province sia utile a riorganizzare i livelli di governo del territorio, che in Italia sono davvero troppi e che rendono la presenza e l’intermediazione dello Stato troppo invasive e costose per cittadini e imprese, soprattutto sotto il profilo dell’appesantimento burocratico.
Sono certo, come Lei, che non basti abrogare le Province. Per esempio, ha ragione a evidenziare gli sprechi nella Sanità, per combattere i quali stiamo chiedendo da tempo che non sia la politica a nominare i manager; in sostanza, noi vorremmo meno intermediazione politica anche nella gestione della Sanità.
Da qualche parte, però, bisognerà pure iniziare per far fare allo Stato una grossa cura dimagrante, che riguardi i costi della politica (a cominciare da quello dei dirigenti come me), ma anche l’ordinato funzionamento del governo locale, che dovrebbe esistere per erogare servizi, mentre oggi troppo spesso serve, invece, ad alimentare il ceto politico.
Sono convinto, infine, che ai cittadini interessi soltanto che continuino ad essere assicurati i servizi, anche grazie a dipendenti come Lei. Che, poi, non ci sia il Presidente o il Consiglio provinciale, qualche sagra o qualche manifestazione da sponsorizzare credo sia meno importante.

Roberto Occhiuto (deputato UDC, Vice Presidente della Commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione)

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Siate sempre pronti a testimoniare la Speranza nell’immensa certezza di una Presenza

postato il 21 Agosto 2011

Mentre sto scrivendo circa due milioni di giovani sono radunati nella piazza dello scalo Cuatro Vientos di Madrid nella grande veglia di preghiera in attesa dell’aurora e della celebrazione eucaristica di domenica mattina con Benedetto XVI che chiuderà la XXVI° Giornata Mondiale della Gioventù. Cosa stanno cercando questi giovani e chi o che cosa li ha richiamati fin qua?

La prima Giornata Mondiale della Gioventù risale alla domenica delle Palme del 1986 sulle radici del Giubileo Internazionale della Gioventù svoltosi in occasione dell’Anno Sacro della Redenzione per ricordare il 1950° anniversario della Risurrezione del Signore.  Trecentomila giovani provenienti da più parti del mondo giunsero in Piazza San Pietro, ospitati da circa seimila famiglie romane. Nell’occasione papa Giovanni Paolo II consegnò una croce di legno ai giovani per simboleggiare l’amore del Signore Gesù per l’umanità .  “Siate siete pronti a testimoniare  la Speranza “ fu il messaggio del pontefice ai giovani. Come doveva essere difficile parlare allora ai giovani di Speranza!  Anni bui in cui si aggirava minaccioso lo spettro della Guerra Fredda e i moti liberali e sindacali dell’Europa Orientale erano schiacciati dal pugno di Mosca, anni in cui l’Italia era stretta nella morsa dell’odio del terrorismo nero e rosso e lo stesso Giovanni Paolo II solo tre anni prima veniva gravemente ferito nell’attentato terroristico di Ali Agcà. Eppure in quegli anni di paura, intolleranza e incapacità di sollevare il proprio sguardo verso il futuro, si dimenava nei cuori un inesprimibile desiderio di libertà che ben presto sarebbe scoppiato disegnando un nuovo mondo.

Ancora oggi è difficile parlare di Speranza, anzi, è molto più difficile. Non sono più le ideologie a gettare l’uomo in catene ma al contrario è il Nulla ad accecare la nostra vista e i nostri cuori.  C’è una constatazione semplice e allo stesso tempo drammatica: nella mentalità diffusa ai nostri giorni, nelle fatiche del vivere quotidiano sembra non sia più possibile nessuna certezza. Viviamo tante crisi che mettono in discussione conoscenze acquisite da tempo e non solo nel campo della politica e dell’economia. Lo percepiamo nel mondo del lavoro, lavoro in cui i giovani pur essendo ancora non entrati lo percepiscono come un fenomeno lontano, astratto, guscio di candida conchiglia vuota, rancida carne di mollusco, interinale, subordinato, usa e getta, navigato, soddisfatto e mai rimborsato. Lo percepiamo nella società dell’amore di plastica dove l’amore è una chimica chimera che attiva solo ormoni e dopammina incapace di incamminarsi in un progetto auntentico e duraturo in una società liquida dove tutto scorre, dove tutto è consumo. Quello che è in gioco oggi è qualcosa di più radicale, è la grande ombra del nichilismo, l’ospite inquietante che turba i nostri tempi e frantuma i nostri sogni con le nostre certezze e i nostri desideri. E’ il Nulla e l’angoscia del Nulla, del vuoto che guarda dentro di te.

Questi due milioni di giovani non sono a Madrid per  una vacanza o una kermesse, sono qui in cerca di qualcosa o qualcuno che dia un senso genuino alla loro esistenza. Cercano qualcosa che li renda protagonisti della loro vita, che li porti a una presenza nella società fatta di una comunione visibile e propositiva, e cercano in primo luogo  di essere felici ponendosi in modo perentorio , clamoroso e anticonformista quella domanda di un senso ultimo e di una felicità da percepire all’interno dell’essere umano, vogliono la Bellezza, vogliono la Verità, vogliono la Giustizia che la lunga mano dell’ospite inquietante ha ucciso!

Questi due milioni di giovani non vogliono un sentimento, vogliono un fatto è quel fatto è una presenza, è Gesù Cristo centro del cosmo e della storia che rende unica e autentica la realtà, quella linea di confine in cui la storia e il mistero dell’uomo si incontrano. Cercano un Dio che non è un principio assoluto assiso nel’alto dei cieli ma fonte di amore, amore puro e disinteressato, amore indissolubile, fiamma d’amore che li renda protagonisti nella loro vita e riguardi tutti gli aspetti del loro essere. Un testo cristiano del II° secolo, la lettera a Diogneto, così descrive i cristiani:

“ I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. 2. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale . La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale”

I cristiani dunque si comportano come tutti, ciò che cambia è lo spirito che li anima nel fare le cose, uno spirito di Speranza perché hanno un’immensa certezza, l’incontro di un fatto, di una presenza che non li abbandona mai, nemmeno  nelle nelle oscure e fitte nebbie del Nichilismo.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Jakob Panzeri

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Se Bossi non parla più al profondo nord

postato il 20 Agosto 2011

Le vivaci contestazioni subite dai ministri Bossi, Calderoli e Tremonti in occasione della loro recente permanenza tra le montagne del Cadore hanno probabilmente sorpreso solo gli osservatori meno attenti; era infatti noto a molti come da qualche tempo covasse un chiaro malcontento anche tra gli elettori ed i simpatizzanti leghisti più convinti.

Quello che pare invece essere più sorprendente è l’annullamento del previsto incontro pubblico e la conseguente “ritirata strategica” operata da Bossi in piena notte stravolgendo i piani di ospiti ed interlocutori amici e contrari. E’ infatti una delle prime volte, se non la prima, che il grande istrione rinuncia al confronto con la folla, abbandonando la piazza e dando così un’immagine del tutto opposta a quell’iconografia che di solito lo accompagnava.

Certo l’episodio va inquadrato nel preciso momento storico, all’indomani del varo di una manovra economica aggiuntiva che va ad incidere duramente sulle finanza degli enti locali e dei comuni cittadini; sarebbe però sbagliato ed oltremodo riduttivo pensare che si tratti di un evento isolato e fine a se stesso.

La luna di miele tra Bossi ed il suo elettorato pare infatti essersi guastata già da qualche mese e gli effetti negativi possono essere rintracciati già nei dati delle Elezioni Europee del 2009. Prendendo l’esempio dei dati elettorali della Regione del Veneto, si scopre facilmente come nelle elezioni politiche del 2008 per la Camera la lega Nord abbia raccolto 830.000 voti pari al 27,1 % dei voti validi; dopo un solo anno alle Europee del 2009 la lista della Lega Nord era salita al 28,4 % dei voti espressi ma scendendo in termini assoluti alla cifra di 767.000 consensi.

Alle Regionali del 2010 pur avendo un candidato popolarissimo quale Luca Zaia la lista non ha saputo fare meglio che raccogliere 788.000 voti e cioè 50.000 voti circa meno del 2008 e solo la scarsa affluenza alle urne ha permesso di mascherare il vistoso calo di consensi; basti ricordare che in Veneto nelle elezioni politiche del 1996 la Lega Nord aveva sfiorato la cifra di un milione di voti.

Pare quindi che l’elettore leghista si stia stancando dell’eterno copione recitato dal partito di Bossi, quello della “Lega di lotta e di governo” o “dottor Jekyll e mister Hyde” come altrimenti chiamato. Le evidenti contraddizioni tra quanto promesso nei comizi sul territorio e quanto prodotto nelle aule parlamentari hanno finito per intaccare anche la carismatica figura del leader.

E nemmeno casuale deve essere considerato il luogo dove è avvenuto il “gran rifiuto”, uno di quei piccoli Comuni di montagna cui questa ultima manovra finanziaria assesta probabilmente un colpo mortale. Quei piccoli Comuni di montagna dove il sindaco spesso non riceve alcun compenso, dove quasi tutti si conoscono per nome ed il sindaco è il primo da chiamare, anche in piena notte, quando succede qualcosa. Quei piccoli Comuni di montagna dove si fa politica per essere utili alla comunità e non per arricchirsi visto che, molto spesso, le spese di tasca propria sono molto superiori delle entrate.

Proprio quei piccoli Comuni di montagna che la manovra di questo governo intende azzerare, indicandoli come responsabili degli sprechi della Pubblica Amministrazione; quei piccoli Comuni di montagna che, messi tutti insieme, costano all’anno come una decina di parlamentari.

I tagli indiscriminati agli enti locali, che si sommano a quelli già effettuati negli ultimi due anni, stanno pregiudicando ogni possibilità di garantire anche i minimi livelli dei servizi locali e neanche il promesso federalismo fiscale potrà migliorare la situazione, visto che si limiterà ad attribuire la libertà di aumentare i tributi locali per sopperire ai minori trasferimenti.

Quello che i montanari sanno bene è che 30 chilometri in pianura si percorrono in 20 minuti mentre in montagna può volerci un’ora e per quei 30 chilometri in pianura bastano due litri di benzina mentre in montagna ce ne vuole il doppio; queste cose semplici i montanari non riescono a farle capire a chi li governa.

Ma i montanari, gente abituata a lavorare e tacere, a volte si stancano di ascoltare promesse che sanno perfettamente essere vane; per vivere in montagna sono indispensabili due qualità: la pazienza e la buona volontà ma qualche volta la prima si esaurisce!

Riceviamo e pubblichiamo Roberto Dal Pan

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Banda larga, un’altra promessa tradita

postato il 19 Agosto 2011

La bozza della manovra prevede di affossare definitivamente il progetto di sviluppo della banda larga in Italia rendendo impossibile colmare il gap che ci separa dagli altri paesi.

Il progetto relativo allo sviluppo della banda larga è “in piedi” da un paio di anni ed è stato elaborato dal ministro Romani, ma nel corso del  tempo questo progetto ha visto ritardi, risorse sottratte, e tagli ai finanziamenti anche già stanziati.

Il progetto nel suo complesso prevedeva un investimento di circa 1,4 miliardi di euro che avrebbe portato ad una crescita di 2 miliardi di euro nel PIL .

In pratica un investimento realizzato dallo Stato che avrebbe abbattuto le barriere tecnologiche e sarebbe stato un’arma in più per le nostre imprese, con il risultato che il ritorno economico sarebbe stato superiore a quanto si sarebbe speso.

Il finanziamento era così organizzato: 800 milioni provenienti dal CIPE, 250 milioni provenienti da Infratel Italia (società sorta nel 1999 su iniziativa del Ministero per lo Sviluppo Economico), 100 milioni dai fondi Fas e 250 milioni li avrebbero dovuto mettere i privati.

Ebbene, prima i fondi provenienti dal CIPE sono stati congelati fino alla fine della crisi, poi ne sono stati sbloccati 100.

Con 700 milioni già decurtati, la mancata partecipazione dei privati, restavano i soldi dei fondi FAS (quelli di Infratel sono già stati spesi), che però sono spariti in seguito ai tagli ai ministeri proposti nell’ultima  manovra.

Il progetto di sviluppo della banda larga senza fondi è, purtroppo,  destinato a restare lettera morta, e va ad aggiungersi alla collezione governativa delle tante buone intenzioni troppo spesso tradite.

Riceviamo e pubblichiamo Mario Pezzati

 

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Forse di cultura non si vive, ma senza si è già morti

postato il 16 Agosto 2011

“Qualcuno spieghi al governo che l’Accademia della Crusca non è una scuola professionale per mugnai” .

Questi e altri sono i messaggi di sdegno, a volte sarcastici, sono rimbalzati in questi giorni su twitter. Si, perché in una placida serata agostana di falò sulle spiagge, accordi di chitarre e barbecue si è levata anche piano piano la voce di malessere di un’importante accademia italiana. Non un’istituzione qualunque, ma il baluardo della lingua italiana nel mondo. Tutto a causa di un paragrafo della recente manovra finanziaria che ordina, senza alcuna discriminazione, la chiusura di tutti gli enti e le fondazioni culturali con meno di 70 dipendenti. Una manovra scritta dallo stesso ministro che nell’ottobre 2010, in vista dei pesanti tagli alla cultura, aveva pontificato :” Di cultura non si vive. Adesso vado alla buvette a farmi un bel panino alla cultura e inizio dalla Divina Commedia”. Parole saccenti e arroganti non degne di rivolgersi alla cultura italiana.

L’Accademia della Crusca nasce a Firenze 428 anni fa, nel 1583, grazie ad alcuni rinomati filologi dell’epoca che chiedevano maggiore indipendenza dall’Accademia Fiorentina del potente Cosimo de’ Medici. Fu Lionello Salviati a darle il nome scegliendo la simbologia della farina con l’intento di studiare e separare il fior di farina (la buona lingua) dalla volgare crusca. Furono loro a stampare nel 1612 il primo vocabolario della lingua italiana, un’inestimabile testimonianza della lingua fiorentina trecentesca e un modello lessicografico considerato e stimato da tutte le altre accademie europee. Ma questa storia illustre non basta a salvarla dalle fauci affamate del “pecunia non olet”, i soldi non puzzano, anzi profumano in periodo di crisi.

E’ vero, ministro Tremonti, le do pienamente ragione, di cultura non si vive. E lo dimostrano ampiamente tutti i giovani cervelli in fuga all’estero che non trovano né considerazione del loro merito né gli strumenti necessari per portare avanti le loro ricerche in Italia. Di cultura non si vive. Lo dimostra la stazione Anton Dohrn di Napoli, il più grande centro di ricerca europea di biologia marina. Ma lei probabilmente ribatterà con aria sussiegosa che non ci importa di pesci e molluschi quando dobbiamo salvare i conti dell’Italia. Le ultime ricerche del centro Dorhn riguardano una molecola organica, un isomero del decadienale prodotto da alcune alghe unicellulari, le diatomee, che potrebbe rivelarsi un’arma potenziale contro la cura dei tumori perché in grado di distruggere le cellule proliferanti e non differenziate, come appunto quelle tumorali. Ringraziamo il presidente della Repubblica Napolitano che l’ha supplicata l’anno scorso di togliere la stazione Anton Dohrn dai tagli alla cultura. E’ vero, ministro Tremonti, di cultura non si vive. Lo dimostrano i ricercatori della Fondazione Ebri di Rita Levi Montalcini, uno dei più prestigiosi centri di ricerca neurologica mondiale che ogni hanno rischia la chiusura per la mancanza di fondi e sostegno, miracolosamente salvato quest’anno da un miliardario cinese e dalla passione di tanti giovani che continuano nelle loro ricerche e nel loro lavoro nonostante per mesi e mesi non recepiscono lo stipendio. Pensi che addirittura c’è un dottore, il Dr. Campanella, che ha abbandonato l’University College di Londra e un prestigioso stipendio per venire a gestire la fondazione Ebri. Ma forse per i suoi criteri di giudizio essi sono solo dei sognatori o mal che vada degli imbecilli testardi che si ostinano sulla loro strada. E’ probabile. Guardi Ministro Tremonti, non c’è l’ho con lei a cui tra l’altro le mie righe non giungeranno mai e che sicuramente non la farebbero una piega, penso che già il marchese di Sade, in viaggio in Italia nel 1775 si metteva le mani nei capelli e imprecava contro il popolo italiano custode di un patrimonio culturale immenso ma incapace di amare e preservare; eppure me lo immagino con il sussiego che la contraddistingue ribattere al mio scritto con:” credo sia logico e preferibile avere un tetto sulle spalle da analfabeti che acculturati sotto i ponti”.

E’ vero, ministro Tremonti, di cultura non si vive. Ma senza si è già morti.

Leggo proprio ora che ho finito di scrivere l’articolo che il ministro Galan ha alzato la voce e l’Accademia della Crusca non chiuderà. E’ una buona cosa, ma il succo del discorso non cambia.

Riceviamo e pubblichiamo Jakob Panzeri

 

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Il contrappasso del Cavaliere: più tasse per tutti

postato il 15 Agosto 2011

Cominciamo dagli elementi di contorno di tutta la vicenda. Gli aspetti emotivi, per esempio: Berlusconi ha affermato che ha il cuore che “gronda sangue”. E possiamo anche credergli, visto che il suo leitmotiv dal 1994 ad oggi è stato “non metteremo le mani nelle tasche degli italiani”, uno slogan che riecheggiava nei salotti televisivi come nelle adunate di partito e campeggiava sui manifesti 6×3 delle varie campagne elettorali, come sui titoloni dei giornali dei tanti anni di governo Berlusconi. Stiamo assistendo a un passaggio epocale: la cura da cavallo contenuta nella manovra correttiva varata dal consiglio dei ministri mette una definitiva pietra sopra a tutte le belle intenzioni contenute nel libro dei sogni dei berlusconiani. Si volevano ridurre le tasse, oggi in buona sostanza aumentano.

Dunque il cuore della maggioranza sanguina per il dolore provocato da queste misure imposte e non volute. Ma gronda, e tanto, anche quello dei cittadini contribuenti che in tanti anni non hanno mai avuto un’incertezza, e hanno sempre pagato le tasse per sostenere una politica economica che restituiva in termini di servizi la metà di quello che si prendeva. I cari contribuenti italiani, lavoratori dipendenti, onesti autonomi che dichiarano il proprio reddito e famiglie in difficoltà che vedranno ridotti servizi e assistenza offerta dagli enti locali sono le prime vittime della mazzata di ferragosto.

Il decreto che fa piangere il cuore pretende un “contributo di solidarietà” sulla quota eccedente dei redditi superiori a 90mila euro (5 per cento) e 150mila euro (10 per cento) dei dipendenti del settore privato. Ovvero quelli che da sempre pagano le imposte sul proprio lavoro visto che le tasse vengono trattenute dalla busta paga. Per i furbi vedremo cosa fare, intanto per ora vessiamo gli onesti. Oltretutto un poco rischioso, questo prelievo dallo stipendio dei lavoratori, gabella camuffata con l’edulcorato eufemismo di “contributo di solidarietà”, rischioso perché non si guarda al di là della tempesta: una volta che la fase di emergenza passerà, riprenderanno i consumi, ma i lavoratori con meno soldi in tasca quali consumi potranno rilanciare? Si toglie soldi a chi può spenderli, l’economia ringrazia.

Ma anche le fasce più basse, quelle che in busta paga non hanno 90mila euro ma fanno fatica a organizzare le spese, avendo a carico figli, magari piccoli, magari in età scolare, anche costoro piangono per la manovrona del governo. In maniera indiretta, ma accusano il colpo. Un colpo che sentiranno bene in autunno, quando le famigerate spese si riaffacceranno sui bilanci familiari: il governo ha tagliato qualcosa come 9,5 miliardi di euro in due anni a province, comuni, regioni (ma non si voleva dare più potere agli enti locali?). Concentriamoci sui comuni: le amministrazioni si trovano con meno soldi perché i trasferimenti vengono ridotti (praticamente lo Stato si tiene tutto per sé) e dove rivolgeranno le loro preoccupate attenzioni per sopravvivere? Certamente sui servizi offerti alla popolazione: asili nido, buoni mense, trasporto pubblico, tassa rifiuti, e si colpiranno presumibilmente quelle fasce che ancora oggi possono godere di qualche agevolazione, e allora parliamo di famiglie numerose che non vivono nell’abbondanza, pensionati che non hanno pensioni da ex-dirigenti di banca e studenti che vedranno gli abbonamenti dei bus aumentare o diranno addio ai prezzi convenzionati di ristorazione, cultura, spettacoli. Una manovra che chiede sacrifici a chi di sacrifici ne ha già fatti, mentre gli intoccabili rimangono intoccabili. Il sistema, insomma, non cambia.

Sì, perché chi non paga le tasse continuerà a non pagare le tasse. Chi dà lavoro in nero continuerà a dare lavoro in nero. Chi deposita i denari nelle cassette di sicurezza di Zurigo o Lugano continuerà a depositare. L’evasione fiscale per il governo è qualcosa di cui non dobbiamo preoccuparci, qualcosa che non ci riguarda. Del resto Berlusconi anni orsono andava in giro a dire che qualche volta l’evasione è giustificata se lo Stato ti chiede troppo. E tutti a dirgli che lo Stato ti chiede troppo perché ci sono cittadini che non danno niente, tante primavere sono passate ma siamo ancora al punto di prima. Gramellini, vicedirettore della Stampa, ha scritto un editoriale bellissimo in cui scandisce queste parole:  “Gli Irrintracciabili. Scommettiamo che il più facoltoso di loro dichiarerà al fisco 89.999 euro? Li disprezzo”. E come non sottoscrivere? Un governo serio e consapevole del fatto che giustizia sociale significa che tutti i cittadini proporzionalmente alle proprie possibilità si sobbarcano il carico fiscale complessivo mette la lotta all’evasione al primo posto, forma una guardia di finanza incorruttibile e non al soldo dei faccendieri e stana tutti i disonesti, da Nord a Sud. Un impegno di questo genere non avrebbe portato alle misure di oggi che infieriscono in modo odioso e ingiusto su quelli che pagano sempre, e magari anche volentieri perché sanno che questo significa far andare avanti un Paese.

Berlusconi dice che questa manovra gli è stata imposta e non ha potuto farci niente. Ma signor Presidente, di grazia, il capo del governo è lei o un gabelliere medievale che tasserebbe anche l’aria che respiriamo? Se i responsabili di questa stangata (che tra l’altro è la tomba del federalismo) stanno piangendo per la durezza di queste misure guardino al passato recente e riconoscano di non aver fatto nulla per evitare che si arrivasse a questo. E si facciano promotori di una lotta all’evasione senza sconti. È tutta l’Italia onesta che lo chiede.

Riceviamo e pubblichiamo Stefano Barbero

 

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Ferragosto in carcere, una battaglia di civiltà

postato il 15 Agosto 2011

Ferragosto è una festa per l’uomo. Sacro e profano si intrecciano, falò in spiaggia e pontificali in cattedrale in fondo hanno un comun denominatore: lo splendore della vita umana che nella gioia e nel riposo del giorno festivo viene oggi vissuto e che viene celebrato nella festa della Dormizione della Madre di Dio come sconfitta della morte. Ma questa giornata così bella e luminosa, questa celebrazione dell’umanità splendente viene offuscata dal dramma che si consuma nelle carceri italiane. Forse non è un caso che ogni anno nel giorno di Ferragosto i riflettori si accendano, anche se per un momento fugace, sulle carceri italiane e sulle condizioni di coloro che lì vivono e purtroppo anche muoiono. Negli istituti penitenziari italiani in molti casi non c’è vita, nel senso che tra le spesse mura delle celle, i chiavistelli e le grate la vita muore lentamente per mancanza di spazio, di attenzione, di rispetto delle più elementari regole di civiltà. Ci sono fiumi di inchiostro sull’emergenza carceri ma c’è soprattutto l’impegno dei radicali di Marco Pannella che ogni anno rompono con coraggio la spensieratezza di questa giornata per ispezionare un carcere, per confortare e denunciare, per portare avanti una battaglia di civiltà che è cominciata nel lontano 1976, quando i quattro radicali eletti per la prima volta in Parlamento e i loro supplenti, Franco De Cataldo, Roberto Cicciomessere, suor Marisa Galli e Angelo Pezzana, cominciarono ad andare su e giù per carceri. Dal 1976 non ci sono Natale, Capodanno o Ferragosto senza che i radicali non facciano visita alla “massa dannata” che sopravvive nelle discariche del nostro sistema giudiziario e il loro impegno ha fatto scuola se anche oggi 2mila persone aderiscono alla loro protesta pacifica e se c’è una nuova sensibilità tra i politici su questo problema. Ne è consapevole il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini che oggi visiterà il carcere di Lecce ma che ieri ha sentito anche la necessità di ringraziare i Radicali Italiani e Marco Pannella. Occorre però che la politica non si limiti alla compassione, che fa piacere ma di cui la varia umanità detenuta se ne fa ben poco, ma è necessario che finalmente intraprenda azioni significative e condivise per porre fine al dramma delle nostre carceri. Ha ragione Roberto Rao (Udc) quando afferma che “la politica e’ chiamata a restituire dignità a chi sconta la pena nelle carceri italiane (dove quasi la metà dei detenuti e’ in attesa di giudizio definitivo) e a chi vi opera in condizioni estreme, con grande professionalità ed umanità e spesso ben oltre quelli che sono i propri compiti”. Oggi è il giorno delle visite, della protesta non violenta, del digiuno e della riflessione personale e collettiva, ma domani dovrà essere il giorno della responsabilità; è il momento dell’impegno perché ogni giorno della vita sia una festa per l’uomo e dell’uomo, perché viva la sua vita pienamente e in dignità, anche in carcere.

Riceviamo e pubblichiamo Adriano Frinchi

 

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Una manovra che non convince

postato il 14 Agosto 2011

Dopo ben due conferenze stampa, la seconda per spiegare la prima, la nebbie misteriose che avvolgevano i palazzi del governo si sono diradate lasciando intravedere i contorni della manovra “d’urgenza” con cui l’Italia commissariata cercherà di dare convincenti risposte alle preoccupazioni della BCE.

Quello che emerge è uno scenario tutt’altro che rassicurante in quanto si tratta di una manovra ammontante ad oltre 45 miliardi di euro, aggiuntiva a quella del mese scorso e composta in grandissima parte di tagli e nuove tasse, senza alcuna misura di rilancio economico.

Questa manovra, almeno così come appare allo stato attuale, si basa sostanzialmente su due pilastri fondamentali: nuove tasse a carico di lavoratori dipendenti ed ulteriori tagli agli enti locali. Del tutto assenti gli strumenti di lotta alla grande evasione ed elusione fiscale, giacché il negoziante che non emette lo scontrino fiscale (cosa comunque sbagliata) solitamente non possiede uno yacht ormeggiato a Montecarlo con bandiera di qualche stato caraibico.

Ancora una volta, non vi è traccia nei provvedimenti di questo governo di una minima considerazione del quoziente famigliare del percettore del reddito, perseverando quindi nell’errore di penalizzare le famiglie e le persone con necessità speciali o disabilità, facendo loro scendere un altro gradino sulla scala del benessere.

Se possibile più preoccupante si presenta la parte relativa ai tagli agli enti locali, che avranno come immediata conseguenza una drastica riduzione dei servizi che gli enti stessi garantiscono ai cittadini: trasporto pubblico, scuole, politiche sociali, contributi a famiglie ed imprese verranno ridotti all’osso se non eliminati completamente. Per tentare di mantenere i servizi, gli enti locali dovranno necessariamente agire attraverso l’innalzamento delle tasse locali andando così ad appesantire ulteriormente l’impatto economico della crisi.

Emblematico in questo senso è il provvedimento di soppressione dei Comuni con popolazione inferiore ai 1.000 abitanti (una buona parte dei quali si trova nelle zone montane del Paese), provvedimento su cui merito si sarebbe ben potuto discutere in seno ai lavori preparatori della Carta delle Autonomie. Il risparmio che asseritamene ne deriverebbe è in realtà un falso clamoroso in quanto, come ben sanno gli amministratori locali, i Comuni di quella dimensione sono sovente gestiti da autentici “volontari” visto che i sindaci e gli assessori rinunciano alle indennità previste per la carica o si accontentano di rimborsi figurativi di poche centinaia di euro annue.

Ma queste situazioni non possono essere a conoscenza di molti esponenti di governo a cui manca quel “cursus honorum” che la tanto vituperata Prima Repubblica rendeva di fatto obbligatorio per chi si avvicinava alla politica attiva. Oggi si diventa ministri per meriti televisivi, o peggio, senza essere mai stati seduti sui banchi di un consiglio comunale o aver passato le notti ad attaccare manifesti: tutti nominati dal principe di turno.

Gravissimo poi che si vada a far cassa anticipando la riduzione dei F.A.S. (Fondi per le Aree Sottosviluppate) e di fatto azzerando ogni previsione di spesa, ad esempio, per interventi di tutela del territorio o per la diffusione della “banda larga”; segnali che dimostrano ancora una volta ed inequivocabilmente come si tratti di una manovra priva di prospettive rivolte al futuro ed unicamente diretta al mero saldo aritmetico.

Si tratta, in buona sostanza, di una serie di provvedimenti eterogenei e privi di un disegno organico, a scopo solo pubblicitario quando non apertamente dannosi che hanno l’unico risultato di far pagare di più chi già sta pagando e lasciare indisturbati gli evasori fiscali ed i grandi patrimoni.

Oggi il “cuore che gronda sangue” per davvero è quello dei lavoratori dipendenti e dei pensionati!

Riceviamo e pubblichiamo Roberto Dal Pan

 

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Una manovra non strutturale, infarcita di tasse e balzelli

postato il 13 Agosto 2011

La bozza della manovra varata dal governo  prevede molti punti, alcuni già anticipati nel corso della giornata, ma dando un primo sguardo la manovra non è affatto soddisfacente, perché non è la riforma del sistema Italia che da più parti era stata richiesta.

Il commento dell’on. Galletti è anche più duro: “Questa manovra si presenta priva di elementi strutturali e infarcita di tasse e balzelli che colpiranno in particolare i ceti medi e le famiglie italiane. Saremo responsabili, come sempre, ma la nostra preoccupazione è altissima”.

Perché questo giudizio così duro?

Perché questa manovra è solo una manovra contabile, che in prospettiva rischia di diventare estremamente recessiva per l’economia italiana.

E’ previsto un taglio di 6 miliardi ai ministeri previsti nella manovra correttiva che arriverebbero attraverso la riduzione dei fondi Fas. Da quanto si apprende, infatti, sarebbero contenuti nella bozza tagli alla banda larga per quanto riguarda il ministero dello Sviluppo economico, meno risorse per la prevenzione di rischi di dissesto idrogeologico per quanto riguarda il ministero dell’Ambiente, e tagli all’edilizia scolastica e carceraria per quanto concerne i ministeri dell’Istruzione e della Giustizia. E questi tagli sono gravissimi: intanto abbiamo un enorme gap tecnologico nella banda larga rispetto alle altre nazioni, ma soprattutto ci siamo scordati dell’anno scorso, quando bastarono alcune piogge un po’ più violente del normale per generare morti e danni per svariate diecine di milioni di euro mentre la Liguria e il Veneto erano sotto l’acqua?

Vi è poi un aumento di tasse per le imprese che operano nel settore delle energie rinnovabili e il Governo starebbe valutando di equiparare il livello dell’imposizione sui profitti delle aziende che operano nelle rinnovabili ai livelli di imposizione sui guadagni di chi opere nelle fonti energetiche tradizionali. Allo stato attuale per le imprese operanti nel settore delle rinnovabili si applica una imposizione minore del 3% rispetto al settore delle energie tradizionali, inoltre si prevede il taglio del 30% agli incentivi per le fonti rinnovabili.

Con il prezzo del petrolio alle stelle, con l’energia nucleare bloccata dal referendum, mettere i bastoni fra le ruote alle fonti energetiche rinnovabili è da sconsiderati se consideriamo il peso nel PIL italiano raggiunto da questo settore produttivo.

Ovviamente, i lavoratori pubblici saranno toccati pesantemente, infatti si prevede il pagamento con due anni di ritardo dell’indennità di buonuscita, mentre per gli autonomi si prospetta un aumento della quota Irpef forse a partire dall’attuale 41% per i redditi oltre i 55.000 euro e aumento al 20% della tassazione per tutte le rendite finanziarie, esclusi i titoli di stato che restano al 12,5%.

E’ una manovra di tagli e tasse, senza che vi sia nulla per la crescita e francamente trovo irrispettoso Berlusconi quando dice che “il cuore gli sanguina” quando fino a pochi mesi prima aveva detto che il “peggio era alle spalle”.

Oggi abbiamo tagli ai ministeri, agli enti locali (che ovviamente si rifaranno sui cittadini), alle aziende del futuro, e tasse e soprattutto la possibilità per i dipendenti statali di non avere la tredicesima se non risponderanno a certi requisiti di produttività.

Non è una manovra per la crescita, ma solo una manovra per tirare a campare e questo è, francamente, inaccettabile.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

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