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La primavera araba e l’inverno europeo

postato il 25 Settembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Rocco Gumina

Nel 1989 il muro che divideva l’Europa crollò, quasi, improvvisamente. In pochi anni diversi paesi dell’est sono riusciti ad incanalarsi su una via di sviluppo politico, sociale, economico che continua tutt’ora e che per alcuni stati ex satelliti dell’URSS ha portato all’ingresso nell’Unione Europea. Tale evento storico può essere accostato, seppur lontanamente, a quanto sta accadendo nei paesi del Maghreb? Certamente la storia, gli anni venturi ci mostreranno se è possibile o meno rispondere positivamente a questo quesito. Ma alcuni punti di riflessione, per comprendere la cosiddetta “primavera araba”, dobbiamo svilupparli per dirci, o ridirci, italiani ed europei in un contesto che è davvero alla nostra portata di mano, ma che drammaticamente, come Europa e soprattutto come Italia, manchiamo. E cioè la capacità di offrire a questi popoli vie reali e forti di sviluppo, facendo magari della nostra penisola, e della nostra Sicilia, un punto di snodo fondamentale per rivolgersi con credibilità al futuro proprio e altrui.

 

La “primavera araba” ci sta mostrando, in primis, una generazione protagonista che tramite Facebook e Twitter comunica e coinvolge in un modo del tutto nuovo e quasi totalmente incontrollabile. Possiamo dire, in parte, che è un cambiamento che vogliono, che chiedono i giovani africani, musulmani e cristiani insieme, per vivere con più libertà, con più protagonismo, senza avere paura di quello di negativo che può accadere nel presente o nel futuro. Giovani africani, insomma, che vogliono vivere in e con un sistema sociale molto più “occidentale”. L’Islam, la religione comunque prevalente in questi territori, non ha conosciuto il rinascimento e l’illuminismo, ma sta certamente rielaborando un episodio che ha mutato la storia dell’umanità della cosiddetta post-modernità: l’11 settembre. Questa data, questo tragico evento ha cambiato nella realtà la nostra vita. Basta prendere un aereo o analizzare le proposte politiche di qualsiasi paese o partito in occidente, per notare la rincorsa e riscossa che si ricerca a partire dalla sicurezza nazionale e internazionale. L’11 settembre ha anche cambiato, o sta cambiando, l’islam e gli stessi paesi protagonisti della “primavera araba”. Questa generazione che promuove la rivolta, il cambiamento dieci anni fa, nella maggior parte dei casi, non aveva ancora raggiunto la maggiore età. L’11 settembre 2001, dunque, da vedere anche come snodo, nella sua tragicità simbolica e reale, non solo dell’occidente ma anche del resto del mondo incluso gli stati a maggioranza islamica.

 

Occorre notare, come secondo punto, che queste rivolte sociali nei paesi del nord Africa (ma non dimentichiamo la Siria dove dall’inizio delle contestazioni contro il regime sono morti 2600 manifestanti) hanno mostrato ancora una volta la debolezza della politica internazionale dell’Unione Europea. Sono presenti, infatti, troppi individualismi fra i vari stati membri che stanno portando ad una strategia attendista, non chiara e che in definitiva nuocerà sia agli europei che ai nuovi governi della Tunisia, dell’Egitto, della Libia. La Spagna si è concentrata quasi esclusivamente verso la sponda “amica” del Marocco; la Francia, attraverso il leaderismo di Sarkozy (il quale per passare alla storia come grande statista francese doveva pur organizzare, e speriamo per lui, vincere la “sua” guerra) pompato addirittura dai filosofi francesi come Bernard Henry Lévy, sta facendo della Libia quasi una colonia, dimenticando che un’Europa unita passa oltre che da una moneta unica, anche e forse soprattutto da una politica estera comune; la Germania della Cancelliera Angela Merkel, lodata tanto nelle nostre valli molto poco nei suoi land dove accumula sconfitte elettorali impensabili, che è scomparsa inizialmente per il caso libico per poi cercare di salire sul carretto dei quasi vincitori; l’Italia che in un momento di crisi davvero epocale legge, vede e ascolta alla TV, sui giornali le debolezze di un Presidente del Consiglio mai come adesso non all’altezza della situazione, invece di progettare, stimolare, conoscere vie di crescita nel nostro territorio e nei paesi africani con sponda sul mediterraneo.

 

E infine il ruolo, o meglio, la vocazione dei cristiani in questi paesi protagonisti del cambiamento. Certamente occorre accettare e accogliere queste novità in delle regioni dove la maggioranza musulmana, a volte, sfiora il 100%. Territori, paesi, popoli che attraverso queste sofferenze, queste uccisioni stanno attraversando il loro deserto per giungere alla costruzione di democrazie che rappresentano la Terra Promessa. I cristiani in questo conteso devono sentirsi cittadini al pari dei musulmani e collaborare con essi come sentinelle che aspettano l’alba di una stagione politica, sociale, storica nuova. Cristiani che possono trovare, per il loro impegno in queste circostanze, una profonda radice nello “Spirito d’Assisi” inaugurato da Giovanni Paolo II nel 1986, quando chiamò a raccolta i rappresentanti di tutte le religioni del mondo per pregare per la pace e l’unità dei popoli.

 

La mia generazione (la stessa dei protagonisti delle manifestazioni nel nord africa) in Europa non può che sperare bene nel processo della “Primavera araba” sperando che essa non diventi presto o prestissimo “autunno arabo” e magari lasciandosi stimolare da questi cambiamenti e da questi coetanei per avere il coraggio di dire all’Europa di essere in “Inverno inoltrato”.

 

 

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Dopo la notte riprenderemo la crescita?

postato il 23 Settembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Mantovani

Siamo in piena notte, a fari spenti.
Alla guida un uomo che, come altri imprenditori, si rifiuta di accostare e alzare le mani dal volante, convinto di essere l’unico in grado di guidare quell’auto. Ne ho visti tanti nelle aziende in crisi: così muoiono o si degradano irreparabilmente molte aziende; così accadrà al suo partito. E purtroppo anche l’Italia faticherà a rialzarsi.
Ma in questa notte insonne non si può non pensare al dopo. Perché, con o senza un guidatore folle, l’Italia deve capire se può e vuole riprendere la via della crescita.
Le riserve di valore inespresso esistono e se adeguatamente sfruttate possono riavviare in poco tempo un ciclo virtuoso.
1) Tecnologie e applicazioni di rete. E’ un contesto iper-competitivo e non abbiamo grandi imprese nazionali. Ma nella Silicon Valley si parla anche italiano e chi la frequenta sa che là “ognuno ha una start-up”. Può accadere anche da noi, i cervelli non mancano, la creatività neppure, le grandi aziende internazionali sono presenti in modo qualificato. Serve coraggio, fiducia e capitali di rischio per iniziare. Finanziando le persone, i giovani, prima delle aziende.
2) Turismo. Pare un’ovvietà, ma è ancora l’enorme riserva di valore di mezza Italia, specialmente meridionale. Ed è incredibile che non si riesca a sviluppare e promuovere un’offerta competitiva rispetto ad altri paesi, mediterranei e non.
3) Alimentazione italiana. In tutto il mondo la cucina italiana ha una diffusione spettacolare, ma i nostri prodotti e la nostra ristorazione di qualità non altrettanto.
Uno sviluppo accelerato in questi tre settori potrebbe garantire una crescita di 2-3 punti di PIL all’anno, per diversi anni. Sono settori ad alta intensità di occupazione (almeno i primi due), in particolare giovanile.
Tutti gli altri settori, dal made in Italy nella moda e nell’arredamento, alla meccanica e ai servizi in generale, possono in larga parte resistere senza perdere volumi ed aumentando la produttività.
Con idee chiare, serietà e rapidità d’intervento potremmo ripartire in fretta.

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Come se tutti i liceali potessero essere eletti in Parlamento…

postato il 23 Settembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Stefano Barbero

“La Camera approva”: risuonano queste parole nell’aula di Montecitorio al termine della votazione finale sul ddl Meloni, la legge che il ministro delle politiche giovanili ha portato in Parlamento. Cuore della sua proposta, l’abbassamento della soglia di età per l’elettorato passivo di Camera e Senato: 18 anni (anziché 25) per la prima e 25 (in luogo dei 40 fissati dalla Costituzione) per il secondo. La bionda ministra esulta, il provvedimento è passato, ora anche i neodiciottenni potranno essere eletti a Montecitorio. Fantascienza? Chi lo può dire, portare un po’ di freschezza in quelle vetuste aule, un po’ di gioventù su quegli scranni non sarebbe una cattiva idea, e forse c’è davvero qualche partito che candiderebbe volentieri un teenager.

Ipotesi future o quantomeno futuribili. Nel frattempo emergono molte valutazioni contrastanti sulla reale utilità della legge. La domanda è: era davvero necessario abbassare l’età per essere eletti ai massimi consessi rappresentativi per dimostrare che oggi l’Italia è un Paese per giovani? Guardiamo la vita di tutti i giorni, il mondo del lavoro per esempio: c’è reale possibilità di accesso spendendo i titoli conseguiti, oppure i giovani trovano mille difficoltà prima di stabilizzarsi economicamente e rendersi indipendenti da papà e mamma? Il Parlamento, composto da questi lungimiranti statisti (sic) ha mai immaginato una legislazione favorevole all’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro che non fosse attraverso contratti volatili e quasi umilianti? Sono state mai messe in campo misure per il ricambio generazionale nelle aziende, nel settore pubblico come in quello privato, nella politica, che è il loro campo? La risposta a tutte queste domande è una sola: no. Giovani neolaureati con fior di punteggi trascorrono i loro giorni a inviare curriculum a destra e a manca, salvo poi accontentarsi del lavoro che non avrebbero mai desiderato. I diplomati si sono arresi prima: in un Paese dove chi ha titoli più rilevanti è a spasso, un impiego remunerativo e rispondente a certe esigenze è un lusso.

Questa è l’amara realtà, riassunta in una battuta infelice ma efficace: l’Italia non è un Paese per giovani. E non lo è nonostante la trovata di Giorgia Meloni, energica titolare delle politiche giovanili, non abbastanza da trovare soluzioni strutturali alla questione generazionale che investe il Paese.

Il Parlamento si è messo la coscienza a posto. Ci chiedevate di fare di più per i giovani? Eccovi accontentati: ora anche i ventenni possono diventare senatori. Saremo esigenti, signori parlamentari, ma non basta. Senza contare la presa in giro. La politica in Italia è in mano agli stessi da anni, in qualche caso da decenni. C’è mai stato qualcuno che abbia investito sui giovani, favorendo questo famoso “ricambio generazionale” almeno in politica? Il discorso è semplice: il Paese chiede rinnovamento, perché non cominciare dalle mie liste, dovrebbe ragionare un politico. Ma lo si è mai fatto? Si nota un interesse a chiudere dentro strette mura elitarie quella che dovrebbe essere il vivaio di una buona gioventù, la gioventù che si interessa dei problemi del Paese in cui vive, che vorrebbe partecipare alle decisioni e intervenire nell’elaborazione di prospettive per il futuro. Oggi più che mai questa chiusura si è accentuata, anche a partire dagli stessi consigli comunali, il punto di partenza per eccellenza del cursus honorum di un giovane impegnato in politica.

Già, il Consiglio Comunale. La bionda ministra non poteva pensare a quello? Perché preferire la via demagogica a quella ragionata, meditata? Troppi sono i casi di “raccomandati” che varcano le soglie di aule importanti senza aver mai fatto nulla prima, senza mai essersi impegnati, senza mai aver provato cosa significa amministrare una comunità e risolvere i piccoli problemi quotidiani della gente.  I vari Bossi, Minetti e tanti “nominati”, pardon eletti, per grazia ricevuta del segretario che confeziona le liste non ci hanno insegnato nulla?

Questo provvedimento è da bocciare: per la buona politica si deve partire dal basso, dove l’impegno è per forza di cose disinteressato. Una volta c’era la gavetta, oggi si diventa deputati per altri meriti.

Saremo grilli parlanti, ma il Ministero della gioventù dovrebbe interessarsi di più a misure per favorire l’occupazione giovanile, per dare la possibilità ai giovani di costruirsi una famiglia e affrancarsi dai genitori, per ridare un po’ di dignità e di valore allo studio. Insomma, investire sul futuro. Non tutti i giovani italiani vedono il posto in Parlamento come un’opportunità dopo il liceo, onorevole Ministro ci aspettiamo, pretendiamo, molto di più.

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S&P declassa 7 grandi banche italiane

postato il 21 Settembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Oggi S&P, a seguito del declassamento del rating dell’italia e del conseguente innalzamento del rischio paese, ha declassato 7 grandi banche italiane: Mediobanca, Intesa San paolo, Unicredit, Findomestic, Banca IMI, BNL e Banca di Risparmio di Bologna.

Concretamente non sono in pericolo i soldi depositati dagli Italiani, perché il declassamento di queste banche è causato dai forti interessi in Italia, e nell’immediato chi subirà maggiori conseguenze sono gli azionisti e i risparmiatori che hanno investito in queste società. Prevedibilmente le quotazioni potrebbero calare nei prossimi giorni. Ovviamente questa notizia è grave, perché uno dei punti di forza universalmente riconsociuti all’Italia, è proprio la solidità del sistema bancario, che oggi risulta essere un po’ più debole.

Banche declassate significa maggiori difficoltà per il credito sia da richiedere da parte delle banche, sia da erogare, perché dovranno maggiormente stare attente ai bilanci. Mi sembra doveroso ripeterlo di nuovo: non ci sono pericoli per i risparmi depositati da parte degli italiani, ma nonostante quanto detto, risulta però chiaro, che non si può continuare così.

Ma quale maggioranza se ieri è andata sotto ben 5 volte in Parlamento?

Ormai all’estero non abbiamo più credibilità internazionale, Obama ha ringraziato tutti i paesi per l’impegno in Libia tranne l’Italia, e anzi il presidente Berlusconi non è andato all’assemblea generale dell’ONU perché impegnato con il caso Mills. E’ chiaro a tutti che ormai il Premier ha solo un pensiero: i suoi processi e non pensa più a governare l’Italia, e mantiene la sua carica solo per una questione di orgoglio.

Pochi giorni fa la Marcegaglia ha affermato che l’economia italiana è solida e sicura, al contrario del governo, ma questa situazione potrebbe cambiare a breve se non si fanno le riforme necessarie e se non recuperiamo credibilità all’estero. Oggi i problemi del governo si sono trasferiti alle banche italiane.

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Ecco perché gli italiani sono un popolo e i padani no

postato il 21 Settembre 2011

di Jakob Panzeri

« Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor » scrive Alessandro Manzoni nella lirica Marzo 1821, l’ode patriottica in cui celebra i primi moti carbonari piemontesi e immagina il varco del Ticino di Carlo Alberto di Savoia. Più prosaicamente  la Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli , siglata a Barcellona nel 1990, così definisce un  “popolo”: Ogni collettività umana avente un riferimento comune ad una propria cultura e una propria tradizione storica, sviluppate su un territorio geograficamente determinato la quale ha diritto a sentirsi popolo e a dichiararsi nazione”.

Il primo utilizzo della parola “Italia” è documentato nello storiografo greco Erodoto di Alicarnasso che fa derivare l’etimologia dal nome dal nome greco “italòs” che significa “vitello”, l’Italia viene identificata come una terra ricca di mandrie, di tori e di vitelli. Questo nome sarà in seguito ripreso da Tucidide, Aristotele, Antioco di Siracusa, Strabone tra gli storici greci, lo troveremo anche in Aulo Gellio, Varrone, Sesto Pompeo Festo e Virgilio presso i  latini. Il primo utilizzo della parola “Padania” invece risale al noto e simpatico giornalista sportivo Gianni Brera che usò poeticamente e forse ironicamente il termine Padania in alcune cronache degli anni ’60.

Le origini di un primitivo popolo italiano risalgono al Neolitico, quando diverse ondate migratorie portano alcuni popoli indoeuropei a coabitare pacificamente e a mescolarsi tra loro nella bella terra dei vitelli, popoli come i Liguri, i Paoleoveneti, gli Umbri, i Latini, i Lucani… popoli che ancora oggi rivivono nei nomi dei nostri enti regionali! Popoli che saranno conquistati dai romani e riuniti con il nome di “soci italici”.  Un popolo padano invece nella storia non è mai esistito e nessuno ha mai rivendicato l’unione di questo popolo prima della Lega Nord con la Dichiarazione di Indipendenza della Padania del 15 settembre 1996.

Un popolo inoltre deve riconoscersi in una comune lingua e tradizione. La lingua italiana è una lingua romanza, erede del latino, basata sul fiorentino letterario del trecento e ha come padre indiscutibile Dante Alighieri e la Commedia. La lingua padana non esiste, esiste solo un miscuglio di idiomi galloitalici retroromanzi. Ancora,  un popolo deve avere un’espressione geografica. L’Italia, unificata nel 1861 e infine allargata a Trento e Trieste al termine della prima guerra mondiale, ha avuto la fortuna di essere già prima unificata non dalle armi e dalla storia ma da una forte tradizione e cultura che la faceva respirare Italia anche se geograficamente divisa. Sui confini della Padania ancora oggi si discute: se la dichiarazione di indipendenza del 1996 dichiarava la Padania divisa in dieci stati federali nordisti  (Valle d’Aosta-Piemonte-Liguria-Lombardia-Trentino-Alto Adige-Friuli-Emilia-Romagna) e  tre regioni centrali ( Toscana-Umbria-Marche), Renzo Bossi, inaugurando il giro di Padania, ha di fatto smentito il padre e tagliato le gambe al centro, affermando che Padania è “dalla Alpi al Po”. I Romani, popolo pragmatico e quadrato, organizzando le suddivisioni amministrative avevano definito una Gallia cispadana e una Gallia transpadana per una ragione geografica molto semplice: la presenza del Po, il fiume più lungo d’Italia. Gallia perché in quella terra abitavano i galli, cis e trans perché gli uni stavano “al di qua” e gli altri “al di là” del Po. Ma da qui a definire la Padania ne passa di acqua sotto i ponti.

Dunque senza una lingua, senza una precisa espressione geografica, senza una tradizione e la consapevolezza espressa nella storia di essere popolo, non si è popolo. L’Italia è un popolo, la Padania non lo è.

Un ultima parola agli amici leghisti: siate fieri della vostra tradizione, siate fieri soprattutto pensando ai Longobardi. I longobardi, il cui patrimonio storico e culturale è stato recentemente dichiarato patrimonio mondiale dell’Umanità (e io in quell’occasione ho avuto l’onore di vincere il Certamen Giannoniano) hanno assolto per l’Italia una missione fondamentale: hanno saputo tenere salda la fierezza delle loro origine, ma allo stesso tempo si sono aperti al diritto romano e ai principi cristiani portando in salvo la tradizione romana dai tempi oscuri di fine impero, hanno abbracciato il sud e il nord Italia facendo risplendere città come Monza e Pavia ma anche Spoleto e Benevento,  infine si sono fusi con i franchi ponendo l’origine del Sacro Romano Impero e della nostra odierna Europa.

L’Italia, e nemmeno la Padania, in questo momento ha bisogno di secessione, servono misure strutturali, riforme fiscali, un rilancio dell’economia. Serve un nuovo spirito nazionale per costruire qualcosa per valga ancora la pena vivere e non sopravvivere. Serve unirsi , da nord e sud, e tutti insieme, abbracciarci.

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Rating

postato il 21 Settembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

La notizia più rilevante di questi giorni è stato il declassamento del rating dell’Italia da parte dell’agenzia internazionale Standard & Poor’s, ma cosa significa esattamente? Sostanzialmente, il rating è un giudizio che indica il grado di affidabilità dell’Italia verso i creditori: in pratica indica se l’Italia è un debitore solvibile (in grado cioè di ripagare i suoi debiti) oppure no.

Ebbene, con questo declassamento noi siamo indicati come un po’ meno affidabili rispetto a prima, e questo ha una conseguenza importante: lo Stato italiano, quando venderà i suoi BTP dovrà assicurare un interesse maggiore per renderli appetibili agli investitori, noi tutti pagheremo di più.

Ci rendiamo conto ovviamente che parliamo di qualcosa di grave, che andrà ad incidere sulle casse dello Stato e quindi sulle nostre tasche, per cui la domanda che ci dobbiamo porre è: perché? Perché siamo stati declassati? Perché siamo ritenuti meno affidabili rispetto a prima?

Le motivazioni di Standard & Poor’s sono ineccepibili: intanto le prospettive della crescita economica si sono indebolite; la seconda motivazione è legata alla tenuta del nostro governo: la coalizione di governo è «fragile» e non si ritiene che sarà in grado di prendere quelle misure necessarie per affrontare problemi che si faranno più profondi. La terza riguarda la dimensione del nostro debito che resta troppo elevata. Per Berlusconi la colpa è tutta della stampa che dà una percezione distorta della realtà italiana, ma solo ieri il Governo è stato battuto ben 5 volte nelle votazioni alla Camera.

Nonostante il taglio del rating, la borsa ha chiuso in territorio positivo, perché? Perché gli operatori avevano già subodorato il declassamento e anzi, probabilmente, si aspettavano un declassamento maggiore; ci rendiamo conto di cosa significa? Per i mercati la situazione dell’Italia è talmente grave che il declassamento odierno è stato “lieve”, e quindi se le cose non cambieranno a breve, potrebbero esservi altri declassamenti e questo influirà ancor più negativamente sulla situazione italiana.

Di contro, come contraltare alla situazione italiana spicca quella turca che è stata promossa dalla stessa Standard & poor’s: l’economia del Paese gode infatti di un buon momento di salute. I dati del Pil del secondo trimestre hanno mostrato una crescita dell’economia dell’8,8% anno su anno, in ribasso dall’11,6% nel primo trimestre ma al di sopra del dato del consensus pari al 6,3%. La produzione industriale di luglio ha segnato + 6,9% anno su anno contro il 4% atteso. Noi questi dati ce li possiamo solo sognare come testimoniano gli ultimi dati del FMI, mentre il nostro governo sogna un harem di belle fanciulle, ignorando la reale situazione dell’Italia.

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Cari amici del Pdl, vi auguro una crisi…

postato il 21 Settembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

Pur giudicando duramente certe storture ed anche certi personaggi, non ho mai considerato il Pdl una specie di associazione a delinquere. Contrariamente dunque a quanto pensa e propaganda  una certa sinistra forcaiola, contrariamente ai ben pensanti  di una certa elite culturale che la notte leggono Kant, penso che il Popolo delle Libertà annoveri tra le sue fila anche delle persone per bene che hanno creduto sinceramente di poter costruire un partito moderato e popolare.  A queste donne e a questi uomini, che spesso provengono dalla nobile esperienza politica della Democrazia Cristiana, sento di dover rivolgere un accorato appello alla responsabilità. In questa drammatica congiuntura politica ed economica il nostro Paese non si può permettere un premier “a tempo perso”, non si può permettere soprattutto che alcune delle sue migliori risorse continuino a prestar fede e sostenere chi ha sempre dimostrato di anteporre il suo interesse personale a quello del popolo italiano. A voi care amiche e cari amici del Popolo delle Libertà spetta di dire la verità a Berlusconi.  Non è più il momento dell’adulazione e degli osanna ma è giunta l’ora della franchezza e delle verità, di avere il coraggio di dire che nessuno è eterno e che è bene che si chiuda un capitolo della vita politica di questo Paese.

In gioco non c’è il vostro seggio parlamentare o un futuro incarico in un fantomatico governo tecnico o di unità nazionale, bensì i destini dell’Italia e anche la vostra dignità politica. Care amiche ed amici del Pdl, vi auguro una crisi, una crisi della vostra coscienza di uomini e donne liberi e di politici impegnati e rigorosi. Badate la mia non è una sorta di maledizione, perché in origine la  parola “crisi” non aveva l’attuale accezione negativa. “Crisi” deriva dal verbo greco “krino” che vuol dire separare, cernere, in senso più lato, discernere, giudicare, valutare.  Se dunque riflettiamo sull’etimologia della parola crisi, possiamo cogliere una sfumatura positiva, in quanto un momento di crisi cioè di riflessione, di valutazione, di discernimento, può trasformarsi nel presupposto necessario per un miglioramento, per una rinascita, per un rifiorire prossimo.Questo miglioramento che tutti auspichiamo si verificherà solamente se ci sarà verità nelle vostre scelte e nelle vostre azioni, se saprete essere uomini e donne di buona volontà.

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Arriva il “condono Scilipoti”

postato il 20 Settembre 2011


“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Scilipoti, mette a segno un colpo che, se gli procura visibilità, lo qualifica però da “responsabile” a “irresponsabile”. In un momento in cui si chiedono sacrifici agli italiani, in cui, almeno a parole, il governo vuole scoprire gli evasori, il parlamentare in questione propone e fa approvare dal governo un emendamento per valutare la possibilità di un condono fiscale ed edilizio.

Cosa prevede l’emendamento di Scilipoti? Mentre lo stesso ministro dell’economia si è mostrato dubbioso sull’ipotesi di nuovi condoni, il parlamentare in questione ha pensato bene di fare un nuovo regalo agli evasori e quindi «impegna il Governo a valutare se adottare il tanto vituperato condono fiscale».

In pratica propone una sanatoria tombale, che se mai diventasse legge, porterebbe a premiare gli evasori azzerando i contenziosi degli ultimi 5 anni tra Stato e cittadini.

Avevamo già parlato e avanzato una propsota per una riforma di Equitalia e andare incontro ai cittadini senza premiare gli evasori, la proposta non era per un condono tombale, ma per una rateizzazione e una moratoria per le famiglie in difficoltà verso Equitalia, da unire ad un pugno di ferro verso chi evade.

Per Scilipoti e il governo, invece, sembra che gli evasori debbano essere ulteriormente premiati perché si ritroverebbero a pagare tra il 5 e il 10% di quanto dovuto se si è in possesso di partita iva, mentre chi non ha partita iva verrebbe abbandonato a se stesso, ma non è tutto, perché  nell’ odg di Scilipoti, che ha ottenuto il parere favorevole dell’ esecutivo, c’ è anche il condono edilizio «per i piccoli abusi» residenziali.

Cosa si intende per “piccoli abusi residenziali”? In pratica si parla di un condono edilizio per tutti gli abusi realizzati fino al 31 dicembre 2010 per una volumetria pari a 400 metri cubi (una casa di 100 metri quadri ha una volumetria di 300 metri cubi, per fare capire le proporzioni), anche se non «aderente alla costruzione originaria» e indipendentemente dai vincoli ambientali, demaniali, storici.

Anzi per essere precisi l’emendamento riporta: “il condono edilizio per tutte le opere abusive realizzate entro il 31 dicembre 2010 in ampliamento di opere regolarmente assentite. Per ultimazione si intende l’opera completamente definita nella sua volumetria e nella sua sagoma visiva (in caso di abitazioni occorre il tetto ed i muri perimetrali completi di intonaco e pitturazione esterni) ed esternamente esteticamente completate (con intonaco e pitturazione); che l’opera abusiva realizzata in ampliamento non debba essere superiore al 25 per cento della volumetria originaria o, in alternativa, e non deve costituire un ampliamento superiore a 400 metri cubi (circa 130 metri quadri); che l’ampliamento si considera tale anche se questo non è costruito in aderenza alla costruzione originaria, purché sia tutto realizzato entro la distanza di metri 75 dalla costruzione originaria regolarmente assentita.”

Per chi volesse approfondire ecco il testo completo, compresi errori di battitura e grammaticali, del famigerato emendamento Scilipoti.

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Usciamo dalla crisi investendo sulla banda larga

postato il 19 Settembre 2011

di Giuseppe Portonera

Pier Ferdinando Casini ha pubblicato su Fb, qualche giorno fa, un aggiornamento di stato molto interessante, su un tema di primaria importanza: “Senza banda larga si ferma la crescita, si blocca lo sviluppo. I fondi per internet veloce devono essere ripristinati al più presto”. La scelta di ritornare sull’argomento (che noi abbiamo lungamente analizzato, in ultimo qui, ma che sembra essere scomparso dall’agenda politica) assume quindi un grande valore, perché dimostra come l’Udc sia in grado di proporsi come forza rinnovatrice e modernizzatrice e, soprattutto, come forza di Governo. Il ragionamento sviluppato da Casini, infatti, è in linea con le politiche messe in atto dai governi nord-europei che da tempo hanno scelto di investire su internet e banda larga, volani ormai indispensabili per rilanciare le economie dei paesi in crisi. Non è un caso che nella contromanovra che abbiamo presentato lo scorso mese, uno dei punti principali fosse proprio il lancio di un grande piano strutturale per la banda larga nel nostro Paese, da finanziare attraverso l’asta delle frequenze tv: in un momento, cioè, in cui davanti alla sfida della crisi economica, l’esecutivo in carica si barcamena in modo penoso e insufficiente e gran parte della sinistra risponde utilizzando parole d’ordine passate, l’Udc è l’unico partito che, pensando seriamente al futuro, ha compreso che si può superare dalle sacche della depressione solo “approfittandone” per fare le famose “riforme strutturali”, che non investono solo il rapporto tra lavoratori e pensioni, per dire, ma anche e soprattutto l’accesso ad Internet, che dovrebbe – come abbiamo sempre sostenuto – essere uno dei diritti fondamentali del cittadino. Per questo servirebbero regole più flessibili, prezzi più concorrenziali, infrastrutture migliori (lo ripeto sempre: in Italia si parla di Wi-Fi libero quando in tutt’Europa si sperimentano già il Wi-Max e il Wi-Gig!).

La manovra presentata dal governo è riuscita – tra i tanti disastri – anche ad affossare definitivamente il progetto di sviluppo della banda larga in Italia, contribuendo così ad aumentare sempre più il gap che ci separa dagli altri paesi. I fondi che erano stati inizialmente stanziati (800 milioni di euro in un progetto complessivo da 1,47 miliardi), infatti, sono stati successivamente congelati, rendendo plateale il fallimento del Piano Romani; e la cosa che più ci fa innervosire è la motivazione con la quale il Governo ha bloccato quei soldi: “la banda larga – ha spiegato il sottosegretario Letta, tempo fa – non è una priorità”. Pura follia, perché dimostra ancora una volta come la classe politica al governo non sia in grado di definire chiaramente cosa sia una “priorità” e cosa no: contro questa assurda decisioni si sono levati, lo scorso agosto, la Confindustria e Telecom Italia, che hanno rilasciato un dossier (inizialmente classificato come riservato) in cui si sviluppa un’ipotesi di piano d’azione per colmare il digital divide nei principali distretti industriali del Paese, dove internet va al rallentatore o proprio non arriva – come infatti ha ricordato Aldo Bonomi, vicepresidente di Confindustria con delega sul territorio e i distretti, bisogna creare “un’iniziativa di sistema che azzeri una volta per tutte il divario digitale di molte aree industriali, che senza internet perdono competitività”. Nella “mappa” prodotta da Telecom e Confindustria si individuano le aree più colpite dal digital divide: la maglia nera spetta ad Avellino, noto per le industrie alimentari, dove l’Adsl arriva solo al 45% della popolazione e dove, secondo le stime Telecom, basterebbe un milione e mezzo di euro per risolvere decentemente il problema. Più a Nord anche Marsciano, in provincia di Perugia (metalmeccanica e arredamento), non naviga in buona acque, e ci vorrebbero circa 2,6 milioni per “sanare” la situazione. Vanno meglio il distretto di Parma-Langhirano (ancora alimentare), con una copertura del 77%, e Pordenone (meccanica e componentistica), dove Internet raggiunge il 78% della popolazione. Persino nel distretto motoristico di Bologna, dove la velocità non dovrebbe essere un problema, c’è però un buon 1% degli imprenditori completamente tagliati fuori da un collegamento decente.

Fino ad oggi, la politica si è accorta marginalmente di Internet. Per questo è giunto il momento che un leader di partito scelga di intestarsi seriamente la battaglia per l’allargamento della banda larga e l’introduzione quindi di Internet nelle case di tutti gli italiani. Avanti Pier, tocca a noi!

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Referendum elettorale, se il rimedio è peggiore della malattia…

postato il 19 Settembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

L’Italia è un Paese con un mucchio di problemi, e questo è noto a tutti. Pochi però sembrano comprendere che uno dei motivi che ci impediscono di rimetterci in piedi è quella che Giovanni Sartori ha chiamato la “citrullaggine elettorale” cioè “l’incapacità di adottare un sistema di voto che funzioni e che, di conseguenza, consenta alla politica di funzionare”.

L’attuale legge elettorale è stata ribattezzata da Giovanni Sartori, che a dire il vero ha ripreso le parole dell’estensore della legge il ministro Calderoli, Porcellum. Che questa legge elettorale sia una porcata non c’è dubbio poiché assegna un premio di maggioranza alla maggiore minoranza. Per capirci: un premio di maggioranza è lecito se rafforza chi consegue la maggioranza assoluta dei voti (il 50 o più per cento); ma non se trasforma una minoranza elettorale in una maggioranza di governo! Sempre il Porcellum ha introdotto le cosiddette “liste bloccate” con le quali i segretari di partito spediscono in Parlamento, nel migliore dei casi, amici e parenti.

E’ urgente dunque cambiare questa assurda legge elettorale che ha prodotto un sistema politico malato. Bisogna però stare attenti a che il rimedio non sia peggiore della malattia. Se la raccolta di firme per ottenere il referendum abrogativo della legge Calderoli andasse a buon fine, l’eventuale vittoria dei “sì” alla conseguente consultazione referendaria avrebbe come risultato quello di reintrodurre la vecchia legge elettorale, il cosiddetto Mattarellum. Questa situazione è resa possibile da un clamoroso errore del ministro leghista: invece di abrogare la vecchia legge, Calderoli si era accontentato di emendarla. Un errore fatale, che adesso permette il referendum abrogativo, inoltre cancellando gli articoli nuovi, come chiedono i quesiti del comitato referendario,  si risuscita la vecchia legge.

C’è da dire però che tecnicamente il ritorno al Mattarellum in caso di abrogazione della vigente legge elettorale, non è scontato. Come ben illustrato da un recente articolo di Cesare Salvi su “il Riformista” uno dei quesiti proposti dai referendari prevede in particolare l’abrogazione delle norme della legge vigente, che a loro volta avevano abrogato i decreti legislativi sulla determinazione dei collegi uninominali della Camera e del Senato. Anche uno studente di giurisprudenza di primo anno sa che l’abrogazione non può far rivivere norme abrogate, e quindi l’eventuale approvazione del quesito produrrebbe una legge priva della normativa che riguarda il suo punto centrale, cioè l’adozione dei collegi uninominali. Ne risulterebbe una legge non immediatamente operativa, in contrasto con quanto richiesto dalla Corte costituzionale nella sentenza 29/1987. Alla luce di questi importanti rilievi del Prof. Salvi c’è da ritenere che è assai probabile che la Corte Costituzionale dichiarerà inammissibili i quesiti.

Ma oltre al dato tecnico-giuridico c’è quello politico: perché ritornare ad una legge elettorale fallimentare come il Mattarellum? L’errore di fondo, del comitato referendario e di una certa area politica, è associare la vecchia legge elettorale ad un presunto bipolarismo o bipartitismo. Mai associazione fu più sciocca e infondata. Con il sistema proporzionale della prima Repubblica i partiti rilevanti sono stati 5-6; con il successivo Mattarellum si sono triplicati. Perché? Nei collegi uninominali i partitini acquistano un potere di ricatto che altrimenti non hanno: nei collegi «insicuri», dove lo scarto tra i maggiori partiti è piccolo, i piccoli partiti sanno che il loro voto è decisivo. Nasce così i celebri e nefasti accordi di “desistenza”: io non mi presento in dieci collegi e tu, in contraccambio, mi assicuri un collegio ogni dieci.

Alla luce di queste considerazioni possiamo dire che il referendum per cui si stanno raccogliendo le firme, oltre ad essere a forte rischio inammissibilità, produrrebbe, nel caso venisse ammesso dalla Consulta, un nefasto ritorno alla vecchia legge elettorale. L’urgenza di una riforma elettorale che elimini l’orrido Porcellum è sotto gli occhi di tutti, ma questa riforma è bene che sia fatta in Parlamento dove le forze politiche devono confrontarsi e produrre una legge elettorale che faccia crescere politicamente il Paese. L’obiettivo di una legge elettorale non è infatti quello di costruire un sistema politico a tavolino, o di favorire il bipolarismo, ma è quello di dotare l’Italia di un sistema di voto che consenta, come si diceva all’inizio, alla politica di funzionare.

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