Tutti i post della categoria: Media e tecnologia

Nessun bavaglio al web, #noSopa

postato il 24 Gennaio 2012

di Giovanni Villino

Mettere il bavaglio alla rete per tutelare il diritto d’autore o per difendere da truffe e aggressioni gli utenti di Internet significa voler guardare, ancora una volta, al dito e non alla luna. Una soluzione miope e, come ha sottolineato Roberto Rao, capogruppo dell’Udc in Commissione Giustizia, “tipica di una mentalità da regime totalitario”. Oggi si torna a discutere del cosiddetto “Sopa italiano”, un emendamento presentato dal deputato della Lega, Gianni Fava. Si tratta di una norma che consente la rimozione immediata di contenuti online su qualsiasi piattaforma sulla base della richiesta di «qualunque soggetto interessato». Immediata la levata di scudi in rete. Timori e malumori sono stati intercettati da diverse forze politiche che hanno presentato emendamenti soppressivi. Tra i promotori di un controemendamento l’Udc che ha presentato il documento oggi nel corso di una conferenza stampa alla Camera. “Metteremo letteralmente nel cestino una norma che rappresenta di fatto una Sopa italiana – afferma Roberto Rao – Grazie ad alcune sentinelle della Rete, che si sono accorte meglio e prima di noi, del rischio che stava correndo il web, abbiamo affrontato la questione. Con questo, tuttavia, non mettiamo da parte i problemi legati al diritto d’autore, alle truffe o alle aggressioni in rete. Sono temi che vanno affrontanti in un provvedimento ad hoc e su cui tutti iparlamentari sono chiamati, senza paura e senza pregiudizi, a confrontarsi”.


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Difendiamo la nostra libertà. Anche sul Web.

postato il 20 Gennaio 2012

di Giuseppe Portonera

«È sperabile siano passati, ormai, i tempi in cui bisognava difendere la “libertà di stampa” come una delle garanzie contro governi corrotti o tirannici. Sarà ormai superfluo, immagino, mettersi a spiegare come non si possa permettere al legislatore o all’esecutivo che abbiano interessi diversi da quelli del popolo, di prescrivere alla gente quali opinioni avere o di decidere quali dottrine o quali argomenti sia lecito stare ad ascoltare». Così, nel 1859, John Stuart Mill si esprimeva nelle pagine del suo grande capolavoro, On Liberty, convinto ormai che la libertà di stampa, a lungo minacciata, fosse fuori pericolo. Quasi duecento anni dopo, possiamo dire – amaramente – che le parole di uno dei più grandi filosofi liberali fossero solo delle ottimistiche previsioni: duecento anni dopo, i nostri legislatori non hanno ancora del tutto accettato la piena libertà e sovranità non solo della stampa, ma di tutte le forme di comunicazione esistenti – a partire da quella che Mill non poteva neanche lontanamente immaginare: e cioè, la libertà del (e sul) Web.

Noi questa libertà l’abbiamo sempre difesa, specie contro le iniziative liberticide che il precedente governo ha messo in cantiere. Ora, se quel governo è finalmente passato, purtroppo non sono passate le tentazioni autoritarie di alcuni “legislatori” che speravamo fossero diventate solo un brutto e vecchio ricordo. È di qualche giorno fa, infatti, la notizia che l’On. Gianni Fava (Lega Nord) abbia preparato, inserito e fatto approvare dalla Commissione Politiche Comunitarie un emendamento alla Legge Comunitaria 2011, che rassomiglia molto a due disegni di legge – diventati famosi come SOPA e PIPA – elaborati dal Congresso e dal Senato degli Stati Uniti d’America. Queste due ultime leggi, contro cui hanno scioperato migliaia di blogger insieme ai big dell’informazione su internet, altro non faceva che riproporre l’eterno schema che contrappone il diritto d’autore alla libertà di informazione e di trasmissione dei dati, risolvendolo a favore del primo attore, con l’introduzione di forti freni e filtri a scapito del secondo. Soluzione inaccettabile, perché la difesa del copyright – messa in atto con queste modalità – è una chiara sopraffazione della nostra libertà individuale, soprattutto di quella che è diventata caratteristica del nostro tempo: la condivisione (nel senso social del termine) libera e autonoma, con le nostre cerchie, di contenuti che ci interessano e che possiamo apprezzare o meno. Grazie ad Internet si è registrata quindi la grande emancipazione dell’utente, che da semplice fruitore delle notizie, ne può diventare – in ogni momento, con un semplice tweet o un post su Fb o sul proprio blog – fornitore.

L’emendamento Fava è, se possibile, ancora più ardito e pericoloso di tutte le brutture e i commi terrificanti che lo hanno preceduto: esso stabilisce l’obbligo, per qualsiasi fornitore di servizi di hosting, di procedere alla rimozione di un contenuto ritenuto “illegale” o lesivo del copyright, a seguito di una segnalazione da parte di un qualsiasi “soggetto interessato”, anziché a seguito di un provvedimento della competente Autorità. Ci troviamo, quindi, prima di tutto di fronte a una grave e illiberale stortura in termini di legge e diritto, visto che si permetterebbe la rimozione di un contenuto – non in via cautelativa, ma definitiva – senza neanche passare dal giudice competente.

Non è la prima volta che affrontiamo situazioni del genere, che si sono sempre chiuse con un passo indietro del legislatore e una vittoria dei sostenitori della libertà del Web. Il problema è che, nonostante i precedenti, questo genere di proposte continui a prolificare: come ha giustamente sintetizzato Fabio Chiusi, la percezione che viene fuori è che “governi e lobby continuino ad alternare bastone e carota, facendo un passo indietro e due avanti”. E se si continuerà di questo passo, lo scontro potrebbe anche degenerare in qualcosa di più grave e pericoloso (Anonymous ha già dichiarato l’avvio della #primaguerradigitale): ecco perché è necessario vigilare e restare con gli occhi aperti, sempre. Per evitare che la difesa di interessi particolari possa contrastare con quella dei nostri diritti fondamentali e degenerare in abusi e violenze digitali. A partire, proprio come ha sottolineato Roberto Rao, da #SOPAitalia.

 

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Perché #lacquadelsudnonsivede? Per un uso responsabile di Twitter

postato il 26 Novembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

Avevo, colpevolmente, mancato la lettura dell’ultimo post che Dino Amenduni ha scritto per il suo blog sul Fatto Quotidiano. As usual, si tratta di un interessante approfondimento sul rapporto che intercorre tra l’uso dei social network e il loro corrispettivo “buon utilizzo”: è un tema che merita un’analisi completa e attenta. Per Dino, è necessario utilizzare “responsabilmente” i vari strumenti che il Web ci mette a disposizione, Twitter e Fb in primis, perché “i social media offrono possibilità inedite e questo non può essere mai ignorato dagli utenti. Eppure accade molto spesso. Specie quando si usano gli strumenti della Rete in modo istintivo, irrazionale, im-mediato”. La “responsabilità” sta proprio in questo, quindi, nel rendersi conto che Twitter, insieme agli altri social network, è ormai “lo strumento ideale per rendere visibili sentimenti collettivi” e che pertanto non può essere utilizzato in modo decontestualizzato, quasi fosse solo un sfogatoio o un pensatoio raccogli pensieri. Del resto, come abbiamo sempre sostenuto anche noi, i social media – come ogni altro mezzo di comunicazione – sono di per sé “neutri”: è l’utilizzo che il proprio bacino di utenza ne fa, a caratterizzarli come strumenti utili e innovativi o come inutili e passivi o addirittura pericolosi.

Già in occasione della tragica alluvione di Genova di qualche settimana fa, proprio su questo blog, avevo sottolineato come, in situazioni difficili e di emergenza, un uso maturo e responsabile dei social network fosse, oltre che utile, anche “positivamente impressionante” (per riprendere la definizione di @robertorao). Twitter aveva agito da acceleratore, catalizzando tutta la tensione emotiva dei vari utenti e spianando la strada alla libera e rapida circolazione di informazioni dirette (anche se, come ha sottolineato @_arianna, il rischio di “autoreferenzialità” era forte) e dando l’opportunità a ciascuno di noi di “renderci utili”. Lo stesso virtuoso meccanismo, purtroppo, non si è ripetuto con l’altrettanto terribile alluvione di qualche giorno fa in Sicilia e Calabria: il flusso di tweets è stato notevolmente inferiore e l’unico hashtag che è arrivata in TT, rimanendoci tra l’altro per pochissimo tempo, è stata #Saponara; mentre è nata un’altra hashtag (giustamente?) polemica, #lacquadelsudnonsivede. Ci troviamo, in sostanza, di fronte a due casi (quasi) paralleli: due terribili inondazioni, due terribili occasioni di morte, ma due – purtroppo – trattamenti mediatici differenti. Perché? Ha ragione Francesco Merlo, che – su Repubblica – ha sostenuto che è tutto passato inosservato perché “non c’è persona che non pensi che aiutare il Sud possa risultare pericoloso”? Davvero la tragedia di Genova ci ha coinvolti perché ha colpito una terra “virtuosa”, mentre quella che ha colpito Messina no, perché il nostro Sud è visto come un “luogo dove la disgrazia è considerata endemica”?

Io continuo ad augurarmi di no. Mi sforzo di pensare che ci siano altri motivi, altre spiegazioni. In attesa di trovarli, voglio però riflettere su un dato a mio parere fondamentale: l’alluvione messinese è passata inosservata non solo sui “newmedia”, ma anche su quelli tradizionali, sui giornali, sui tg; l’esatto opposto era invece avvenuto per Genova: migliaia di tweet, grandi paginate e lunghi servizi. Esiste dunque un rapporto di reciproca influenza tra new e old media? Ecco, secondo me questo si inscrive perfettamente nella discussione di cui sopra: l’utilizzo responsabile dei social media dovrebbe misurarsi anche sui parametri dell’indipendenza che questi dimostrano di avere nei confronti degli altri canali di comunicazione. Sono convinto, infatti, che se gli utenti twitter avessero puntato la loro attenzione su #Saponara, i quotidiani e i telegiornali se ne sarebbero dovuti accorgere, per forza (per quella celebre storiella del “popolo-della-rete”). E invece questo non è successo. L’acqua del Sud, per l’appunto, non si è vista, è finita in secondo piano. Ma gli utenti twitter italiani non l’hanno considerata meritevole di attenzione fino in fondo di loro sponte o perché sono state, prima di loro, le principali agenzie comunicative a relegarle a terza o quarta notizia?

Questo è una domanda che giro a voi. Di una cosa sono certo, però: la Rete non può essere “regolamentata” da agenti esterni; il processo di “responsabilizzazione” deve essere interno e automatico, deve nascere direttamente dagli stessi utenti. La consapevolezza di avere tra le mani uno strumento dalle potenzialità infinite deve essere accompagnata dalla comprensione che il suo utilizzo deve essere “competente”, deve essere “attento”. È indubbiamente difficile, però, come spiega bene Dino, “bisogna provarci, sapendo che i social media costruiscono e distruggono con la stessa potenza e facilità”.

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WWW, non è qui la festa.

postato il 16 Novembre 2011
 

Tim Berners Lee, inventore del Wordl Wide Web, ha festeggiato a Roma insieme a tutto il gotha della rete italiana i vent’anni del web. Il meeting Happy Birthday Web è stata anche l’occasione per discutere su come sarà il mondo di internet di domani e per confrontarsi anche sul rapporto esistente tra il nostro Paese e il Web. Purtroppo in Italia siamo riusciti a rovinare questa splendida ricorrenza. A dispetto di quanto illustrato dallo stesso Berners Lee e da personaggi del calibro di Stefano Rodotà che hanno chiesto all’Italia di fermare lo “spread digitale”, la legge di stabilità, ovvero l’ultimo atto del governo Berlusconi, ha cancellato lo sviluppo della banda larga. Nonostante la prima bozza della legge di Stabilità prevedesse la voce “Progetto strategico per la banda larga e ultralarga”, il digital divide è nuovamente scomparso dall’agenda del Paese. Dopo la delusione dell’ultima manovra economica dove 800 milioni di euro promessi dal Ministro Romani e derivanti dai lauti incassi della vendita delle frequenze sono stati dirottati altrove eccoci nuovamente punto e a capo. L’ultima chance per l’Italia è ora rappresentata dal prossimo governo di Mario Monti a cui i partecipanti all’IGF di Trento hanno indirizzato una lettera per chiedere di portare il nostro Paese ai livelli dei partner europei, come Svezia e Gran Bretagna dove la rete contribuisce al 6% del Prodotto interno lordo. Il compito di Super Mario è senza dubbio difficile, ma a lui e al suo esecutivo toccherà anche l’arduo compito di affrontare una situazione di arretratezza ed inefficienza delle infrastrutture. Chissà che nel nuovo governo di Monti non trovi posto, come per alto avviene in Francia, un viceministro per l’economia digitale.

 

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#ammazzastartup: non confondiamo le startup con le società di comodo

postato il 11 Novembre 2011

di Mario Pezzati.

Nessuno di noi confonderebbe mele con pere: sono entrambi frutti, ma sono differenti.  Allo stesso modo non si dovrebbero confondere le aziende start up (con questo termine si identifica l’operazione e il periodo durante il quale si avvia un’impresa, si tratta di solito di imprese appena costituite, nelle quali vi sono ancora processi organizzativi in corso) e le società di comodo (società costituite per occultare patrimoni, generalmente utilizzate per procedure di evasione fiscale).

Eppure, come fa rilevare Quintarelli, per lo Stato italiano sono la stessa medesima cosa e questo crea notevoli problemi perché rischia di castigare e fare scappare coloro che volessero iniziare nuove attività imprenditoriali, in particolare nel campo dell’alta tecnologia.

E’ normale per una start up avere un periodo iniziale (generalmente un paio di anni) di profondo rosso, ma questo, per il fisco italiano, equivale ad una società di comodo che, tramite perdite fittizie, permette di occultare capitali per evitare che vengano tassati. Lotta dura all’evasione fiscale, ma altra cosa è penalizzare chi, nel rispetto delle regole, decide di investire, creando occupazione e sviluppo, perché se sei considerato società di comodo, non puoi detrarre le perdite pregresse e neppure l’IVA.

Il problema è che il sistema italiano si fonda tutto sulla “presunzione”. Effettuare le verifiche del caso è impegnativo e costoso, allora: tutte le aziende che hanno 3 anni in perdita oppure due anni in perdita e un anno con un profitto inferiore a quanto “previsto” dallo Stato, sono considerate società di comodo. Per evitare questa presunzione, l’imprenditore deve dimostrare (in quanto “presunto colpevole”) la sua innocenza. Tale dimostrazione avviene tramite una sorta di “entità astratta”, ovvero “l’istanza di interpello disapplicativo”, in pratica altra burocrazia inutile, nonostante già nel 2006 fosse stata varata da Visco e Bersani una legislazione molto stringente per le società di comodo.

Il prossimo governo si preoccupi pure di questo.

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L’Italia si mobilita per #Genova. Anche grazie a #Twitter

postato il 6 Novembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

Ieri per Genova è stata una giornata terribile. Probabilmente la più difficile e luttuosa degli ultimi tempi: un’intera città è stata piegata da un evento naturale catastrofico e ora le lacrime per la morte di 6 persone si mescolano al fango e all’acqua di ieri. Una tragedia, non isolata purtroppo: le immagini di ieri ricordano, del resto, altre alluvioni, altre morti, altra sofferenza. Giampilieri, Ischia, Roma – solo per ricordare gli avvenimenti temporalmente più vicini. Luoghi diversi, uguale sorte. Perché simili eventi non possono essere considerati alla stregua di dolori “locali”, propri solo di coloro che hanno avuto la sventura di doverli sostenere: appartengono a ciascuno di noi e accumunano tutta la Nazione. Nel raccoglimento intorno alla sofferenza, è vero. Ma anche intorno allo spirito di unità, di fratellanza e alla voglia di reagire. Ieri, mentre il fango sommergeva Genova, il resto del Paese non restava alieno, non aspettava di ricevere solo la cronaca dei fatti: si è mosso, ha fatto tutto quello che ha potuto. Ha, per esempio, utilizzato i social network come grande punto di raccordo e di smistamento delle notizie, la maggior parte di esse direttamente di prima mano, ha rilanciato gli appelli alla cautela e alla prudenza, ha funzionato da grande cassa di risonanza. Gli utenti di Twitter, per esempio, con le varie hashtags – in primis #genova, #alluvione, #allertameteoLG – hanno svolto un ruolo cruciale e hanno dimostrato una maturità nell’utilizzo dello strumento davvero encomiabile: c’era chi retwittava il numero verde per le emergenze e chi chiedeva di aprire il wi-fi di casa, per permettere a chi era in strada di potersi collegare e di avere informazioni. La Rete è diventato il modo più immediato per tutti di offrire il proprio contributo, che seppur minimo, è sicuramente indispensabile.

Ricordo di aver visto, una volta, un documentario sul terremoto che devastò Messina nel 1908: si raccontava di come, appena avuta notizia, l’Italia intera si mosse per offrire il proprio sostegno ai cittadini messinesi e si sosteneva che quella grande tragedia fosse stata il primo banco di prova – perfettamente superato – per la coesione nazionale del neonato popolo italiano (che aveva supergiù, almeno formalmente, poco più di 40 anni). Ieri, mentre twittavo e seguivo gli aggiornamenti live, ripensavo proprio a questo discorso (quando il nostro popolo, sempre formalmente, di anni ne ha appena compiuti 150) e riflettevo su come i newmedia di oggi ci aiutino enormemente nel costruire anche la nostra identità collettiva: non lasciatevi, infatti, intortare da chi pensa che lodare la funzione dei social network nella giornata di ieri sia stupido o banale. Di fronte al dolore, certo, ogni entusiasmo svanisce: ma è pur vero che quello che è successo ieri, vedere tutta quella gente mobilitarsi e agire congiuntamente, mi ha rincuorato. Mi ha dimostrato che sì, siamo ancora una Nazione unita. E allora perché, come giustamente ha sottolineato Roberto Rao ieri, non dobbiamo riconoscere il giusto merito anche ai mezzi che hanno permesso che questo accadesse, in primis a Twitter? Proprio per questo dobbiamo ricordare l’importanza della banda larga e la necessità di un accesso libero e veloce alla Rete: la nostra Politica dovrebbe attivarsi per ridurre il gap italiano in materia. E dovrebbe pure farlo assai rapidamente.

 

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Quale sviluppo senza soldi?

postato il 19 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Berlusconi da giorni annuncia per questa settimana un Decreto Sviluppo che dovrebbe dare una sferzata all’economia. Francamente questa affermazione mi fa tremare i polsi, visti i magri -se non pessimi- risultati ottenuti a gennaio scorso con la “frustata all’economia”.

Finalmente Berlusconi getta la maschera e ammette che “non ci sono i soldi”, un decreto che nasce monco. Nel frattempo tutto il popolo italiano chiede un intervento deciso e strutturale, e anzi oggi si è saputo dell’ultimo appello lanciato in una nuova lettera inviata al premier Silvio Berlusconi da Abi, Confindustria, Rete imprese Italia, Ania e Alleanza cooperative per affrontare la crisi con misure «concrete e credibili» nel dl Sviluppo, perché ormai «il tempo è scaduto». Che il tempo sia scaduto, lo sappiamo tutti. Lo sanno le famiglie che fanno la spesa, gli italiani senza lavoro, le imprese che faticano a tenere il passo con la concorrenza, anche il resto del mondo sa che per l’Italia il tempo dei temporeggiamenti e delle furbizie è scaduto. Eppure, Berlusconi continua a mostrare la sua noncuranza, sfiorando l’incoscienza, quando dice che soldi per lo Sviluppo non ce ne sono, ma che non ha fretta di presentare questo Decreto; anzi lo presenterà solo quando sarà sicuro. Sicuro di cosa? Non si sa.

Se il problema sono i soldi, allora spero che l’on.le Berlusconi ci legga, perché stavolta glielo scriverò a lettere maiuscole, visto che da questa estate lo ripetiamo e non riesce a comprenderlo: VENDA LE 6 FREQUENZE DIGITALI TELVISIVE CEH HA REGALATO A MEDIASET E RAI; HANNO UN VALORE DI CIRCA 3 MILIARDI DI EURO.

Dopo che abbiamo incamerato questi soldi, li usi per finanziare la banda larga in Italia, visto che il pieno sviluppo di questo strumento, poterebbe risparmi per 40 miliardi di euro e una crescita del PIL di circa 60 miliardi di euro, come abbiamo detto alcune settimane fa.

Come vedete, le idee ci sono, e i metodi per ottenere soldi senza spremere gli italiani pure; basterebbe ad esempio una lotta seria all’evasione, che sottrae ogni anno circa 250 miliardi di euro all’Italia. Questa lotta si dovrebbe fare distinguendo tra grandi evasori e chi è incorso nelle sanzioni, perché ridotto in miseria da questa crisi: nel primo caso sanzionare senza pietà (chi ha i grossi capitali deve pagare, non può evadere); per il secondo caso, la sanzione dovrebbe essere diluita e rateizzata nel tempo per non essere penalizzante.

Queste proposte, sono state portate avanti a più riprese dall’UDC, anche tramite emendamenti e ordini del giorno regolarmente rifiutati dalla maggioranza che dimostra una arroganza che rasenta la follia e l’incoscienza, oltre a produrre perdite enormi per lo Stato italiano, come nel caso della privatizzazione della Tirrenia che costerà allo stato più di quanto incasserà, ovvero a fronte di un incasso di 380 milioni, il governo si è impegnato a restituire agli acquirenti ben 576 milioni di euro (arrivando a perderci circa 200 milioni di euro).

L’ultimo caso di arroganza è legato al Ponte sullo Stretto di Messina: l’Unione Europea ha ritirato i fondi, ma il governo fa sapere che realizzerà lo stesso il Ponte, usando soldi pubblici e capitali dei privati. Ma siamo sicuri che i privati vorranno investire sul Ponte? Domanda legittima alla luce della situazione economica attuale, e soprattutto alla luce di alcune particolarità che esporrò in un successivo articolo.

Intanto il governo annuncia che a breve si saprà il nome del nuovo governatore della Banca d’Italia, che, a mio avviso, sarà quasi sicuramente Bini Smaghi, nome che il premier sta tirando fuori ora, ma che già era noto, visto che, per fare andare Draghi alla BCE, era necessario che Bini Smaghi si dimettesse e, all’epoca (parliamo di pochi mesi fa), il premier gli promise la carica di Governatore di Bankitalia.

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Miopia strategica tagliare i fondi alla banda larga

postato il 14 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Roberto Dal Pan

Ennesimo voltafaccia, ennesimo dietrofront o forse ennesima conferma che, in materia economica, il ministro Tremonti non ha alcuna intenzione di condividere fette del suo potere decisionale con chicchessia: dalla bozza del testo della legge di stabilità che dovrebbe venire approvata dal Consiglio dei Ministri nelle prossime ore sono spariti gli 800 milioni di euro derivanti dall’asta delle frequenze 4G ed originariamente destinati allo sviluppo della banda larga come da assicurazioni del ministro Romani, tale somma verrebbe invece destinata al Tesoro per il fondo ammortamento titoli.

Una prima considerazione da fare riguarda l’evidente miopia strategica di un taglio del genere: è noto infatti che gli investimenti fatti nei settori delle telecomunicazioni sono tra quelli che generano il maggior risultato in termini di ritorno di interessi sia sul fronte economico che occupazionale e di tale caratteristica è ben conscio anche lo stesso ministro Romani che anzi in più riprese ha citato fonti OSCE per fissare al valore di 1,45 il rapporto investimenti/ricavi nel settore delle TLC. Come noto, la situazione delle infrastrutture della rete Internet in Italia è tra le peggiori in Europa tanto che da più parti si definisce la situazione del nostro Paese come un “medioevo digitale”; ciò è in aperta contraddizione con la necessità – chiara a molti ma evidentemente non al Governo – di porre in essere in brevissimo tempo idonee strategie per rimettere in moto l’economia italiana. Il settore dell’ICT, a detta di molti esperti, può costituire il volano da cui attingere quell’energia necessaria a far ripartire anche altri settori economici e favorire profondi cambiamenti nello stesso tessuto produttivo.

Una seconda considerazione che sorge spontanea dalla vicenda dei fondi destinati alla banda larga è invece di tipo più squisitamente politico e la pone bene in evidenza l’on. Roberto RAO dell’UDC quando si chiede “Qual’è dunque il ruolo del Ministro dello Sviluppo Economico?”. La domanda, che è evidentemente provocatoria, ha però in sé una questione di grande importanza e serve a farci riflettere sui compiti del superministro dell’Economia e delle Finanze che dalla riforma del 2001 accorpa le funzioni che fin dalla nascita della Repubblica erano divise tra i Ministeri delle Finanze e del Tesoro (e del Bilancio e della Programmazione Economica).

Già nel 1947 l’allora Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, pur favorevole all’idea dell’accorpamento, dovette decidere di lasciare separate le attribuzioni del Ministero delle Finanze (con compiti di vigilanza sulle entrate dello Stato) e del Ministero del Tesoro (con compiti di gestione delle spese dello Stato e di programmazione economica) dopo l’esperienza del gabinetto De Gasperi III in quanto evidentemente ritenne non opportuna una tale somma di poteri nelle meni di un’unica persona. Oggi questa scalcagnata Seconda Repubblica si trova alle prese con un Ministero dell’Economia e delle Finanze sulla carta onnipotente ma che dal lato delle Entrate non trova di meglio che incidere con la leva fiscale sulle solite categorie (lavoratori dipendenti, partite IVA, pensionati) senza andare minimamente ad attaccare la grande evasione/elusione fiscale ed i grandi patrimoni mentre dal lato della programmazione economica si limita a navigare a vista e senza un chiaro programma sul lungo periodo, come dimostrano tutti i più recenti provvedimenti legislativi.

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Grazie Steve Jobs

postato il 6 Ottobre 2011

Una rivoluzione che ha reso la tecnologia accattivante e semplice, anche per chi come me preferisce la stilografica. Grazie.

Pier Ferdinando


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PRO BLOG: sì a una giusta riforma delle intercettazioni, no al bavaglio

postato il 5 Ottobre 2011

Il Terzo Polo ha tenuto una conferenza stampa congiunta sul DDL Intercettazioni. Presenti, l’On. Roberto Rao per l’Udc (qui trovate il suo intervento), l’On. Giulia Bongiorno per il Fli, e l’On. Pino Pisicchio per l’Api. I parlamentari, a nome di tutta la coalizione, hanno assicurato la propria disponibilità a cercare un dialogo con la maggioranza sulla regolamentazione della pubblicazione delle intercettazioni, ma hanno ribadito che sull’ipotesi di regolamentarne l’utilizzo come mezzo di indagine, non ci sono margini di discussione. Lo hanno ribadito sia Rao che la Bongiorno, che da relatrice del testo si è detta pronta a ritirare il proprio nome: «o si rispetta l’accordo o farò un passo indietro». Il Governo deve dimostrare, per una buona volta, di essere disposto al confronto parlamentare: noi, da parte nostra, abbiamo rinunciato alla pregiudiziale di costituzionalità precedentemente avanzata e ci asterremo su quelle presentate da Pd e Idv; ma il Pdl deve rinunciare all’idea di apporre la fiducia sul provvedimento, deve accettare la modifica di quella mostruosità giuridica del Comma 29 (meglio noto come ammazza blog) e garantire il ritorno al giudice unico per l’autorizzazione e la proroga degli ascolti (e non un collegio di tre magistrati, come vorrebbe la legge in esame). Del resto, come ha sostenuto Rao, noi del Terzo Polo «siamo assolutamente contrari a qualsiasi tentativo di restringere ulteriormente il diritto all’informazione, anche vietando la ricostruzione dei contenuti delle ordinanze di misure cautelari, sarebbe fuorviante e allontanerebbe la possibilità di confronto e d’intesa sul provvedimento». La soluzione sarebbe quindi riprendere la mediazione proposta a suo tempo proprio dalla relatrice Giulia Bongiorno, che rappresenta il punto di compromesso più avanzato tra le varie istanze in campo. Per dire sì a una giusta riforma, ma un no convinto a ogni tipo di bavaglio.

Noi il primo passo l’abbiamo fatto. Vedremo se dalle parti del Governo vincerà ancora una volta la voglia di voler fare le cose da soli (e pure male).

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