Tutti i post della categoria: Media e tecnologia

Perché dall’estero non investono in Italia?

postato il 24 Maggio 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Nei giorni scorsi ho potuto parlare con alcuni amici che si sono trasferiti in Germania per lavoro e mi hanno detto che, facendo due conti, le tasse che pagano (come IRPEF) più o meno quanto pagherebbero in Italia.

Partendo da questo punto viene da chiedersi perché dall’estero si investa poco in Italia e quali sono i problemi degli imprenditori italiani ad investire in Italia, rispetto ad altre nazioni come la Germania.

La risposta la forniscono alcuni studi internazionali secondo i quali quello che penalizza l’Italia davvero sono quattro punti: la complessità burocratica, la minore produttività, la lentezza nei trasporti e il digital divide.
In particolare il “Global Competitiveness report 2011-2012” del World Economic Forum afferma che, in Italia, l’indice di complessità del quadro legislativo relativo all’applicazione delle regole misura 125 punti, contro i 17 della Francia, i 60 della Francia, i 12 della Germania, i 13 della Spagna. Secondo la società di Consulenza McKinsey ogni posto di lavoro nelle imprese estere crea maggiore valore aggiunto e ricerca che nelle imprese nazionali, citando a supporto di questa affermazione i dati dell’Istat, la quale afferma che nel 2009 il valore aggiunto medio per addetto delle imprese (ovvero la produttività per addetto) è pari a 33.700 euro contro i circa 65.000 euro delle imprese estere. Inoltre, a fronte di una spesa di 600 euro per addetto in ricerca e sviluppo da parte delle imprese nazionali, le imprese a controllo estero ne spendono in media 2.100. Guido Meardi della McKinsey ha anche ricordato che rispetto ai principali partner europei l’Italia nel periodo 2005-2011 è stata la peggiore nella capacità di raccogliere i flussi netti di investimenti diretti esteri in entrata, pari all’1,0% del Pil contro il 4,8% del Regno Unito, il 2,4% della Francia, il 2,6% della Spagna e l’1,3% della Germania. E sugli altri due punti (ovvero trasporti e digital divide) cosa possiamo dire? Secondo Nando Volpicelli, amministratore delegato di Schneider Electric Industrie Italia le nostre infrastrutture sono ridotte ai minimi termini, e addirittura il costo di trasporto per unità di prodotto (al netto della benzina) dallo stabilimento di Rieti della multinazionale transalpina è «di due euro più caro rispetto al Sud della Francia». In questo campo il recente provvedimento del governo Monti per sbloccare 100 miliardi di euro da investire nelle infrastrutture potrebbe essere un toccasana decisivo, infatti nel 1970 eravamo al terzo posto in Europa per dotazione autostradale in rapporto agli abitanti, ora siamo al quattordicesimo.
Ma a livello generale la situazione delle infrastrutture in Italia è alquanto carente: l’Italia è stato il primo Paese europeo a sperimentare l’Alta velocità ferroviaria nel 1970, ma oggi siamo indietro a tutti, infatti la Spagna ha 3230 chilometri di linee veloci, contro gli 876 dell’Italia. E a che prezzo, sta avvenendo quel recupero: 48,9 milioni di euro al chilometro, a fronte dei 10,2 milioni della Francia e dei 9,8 della Spagna. Per quanto riguarda i porti (ricordiamo che il 70% del traffico merci, viaggia su mare), tutti i principali porti italiani, per i loro problemi strutturali, hanno visto transitare nel 2009 meno container (9 milioni 321 mila teu, l’unità di misura del settore) che nel solo scalo olandese di Rotterdam (9 milioni 743 mila teu). Se guardiamo alla rete informatica, le cose non migliorano, consideriamo che la classifica 2010 di netindex.com sulla velocità media delle connessioni internet collocava l’Italia al settantesimo posto nel mondo, dietro Georgia, Mongolia, Kazakistan, Thailandia, Turchia e Giamaica.

Indubbiamente i punti sopra individuati sono delle catene che limitano le capacità dell’economia italiana e proprio per questo il governo Monti sta coniugando il rigore a delle riforme che abbattano queste catene: 100 miliardi di investimenti nelle infrastrutture, la semplificazione nel mondo del lavoro, e l’agenda per colmare il digital divide sono tutte iniziative che permetteranno di rilanciare l’economia italiana nel mondo.

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Escludere gli investimenti sulla banda larga dal Patto di Stabilità

postato il 16 Maggio 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Investire nella banda larga rappresenta una opportunità di crescita enorme per il paese, basti pensare che nel giro di due-tre anni si potrebbe avere una crescita del pil di circa 3-4% (ovvero circa 65 miliardi di euro) e generare risparmi per aziende e pubblica amministrazione pari a 40 miliardi annui.

Proprio per questo motivo ci siamo sempre battuti perché si investisse nella banda larga e abbiamo salutato con favore l’agenda digitale del governo e oggi appoggiamo in pieno l’iniziativa del governo, che intende proporre di scorporare gli investimenti per abbattere il digital divide dal Patto di Stabilità, in modo da potere sbloccare gli investimenti necessari per spingere il programma di crescita economica dell’Italia.

Ovviamente questo non significa pensionare il Patto di Stabilità, ma ammettere la possibilità di una deroga (la golden rule) per specifici casi e per investimenti necessari alla crescita economica di un paese.

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L’Europa boccia ACTA. Ora tocca all’Italia.

postato il 27 Aprile 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

Buone notizie dal fronte europeo. Il garante europeo dei dati personali, infatti, ha bocciato ACTA, l’accordo commerciale volto a fissare norme più restrittive per contrastare la contraffazione e la pirateria informatica, al fine di tutelare il copyright, le proprietà intellettuali e i brevetti su beni, servizi e attività legati alla rete, sottolineando la vaghezza della terminologia nelle clausole del documento, che lasciavano spazio a troppe interpretazioni. Si tratta di un fondamentale passo avanti, specialmente perché si aggiunge all’importante presa di posizione dell’assemblea parlamentare del Consiglio di Europa, che, nella sua seduta di ieri, ha approvato il rapporto sulla “Protezione della libertà di espressione e di informazione su internet e sui mezzi di comunicazione online”, raccomandando agli stati membri del Consiglio d’Europa che hanno sottoscritto l’Acta, tra cui proprio il nostro Paese (sigh!), di condurre ampie consultazioni pubbliche su eventuali leggi nazionali basate su quel testo, specificando inoltre che qualsiasi legge venga introdotta dovrà in tutti i casi rispettare il diritto a un equo processo, al rispetto della vita privata e quello alla libertà, diritti fondamentali che sono sicuramente molto più importanti della tutela del copyright.

Nel rapporto si chiede poi agli Stati di “tentare di garantire che i service provider non possano indebitamente limitare l’accesso alle informazioni e la loro divulgazione per motivi commerciali o di altra natura” e di renderli quindi legalmente responsabili delle eventuali violazioni dei diritti alla libertà di espressione e di informazione dei propri utenti.

Non per nulla all’interno del parlamento europeo è partita la gara a “demolire” definitivamente il trattato ACTA, con l’ALDE (liberali), che ha annunciato che chiedererà il rigetto totale di ACTA (proponendo che la materia del copyright online sia trattata in modo specifico e non nell’ambito generale della contraffazione). Allo stesso tempo, il gruppo popolare dell’EPP ha tenuto una conferenza stampa spiegando che ACTA non può essere sostenuto a meno che non sia fatta chiarezza sui punti più controversi del trattato, a partire dal fatto che gli Internet providers non possono essere obbligati ad agire come i poliziotti della Rete e dalla necessaria ridefinizione del “large scale IPR infringement”, in modo da non criminalizzare gli utenti in Rete.

Solo che, mentre la bocciatura europea di ACTA rappresenta un ottimo passo in avanti verso il superamento della vecchia concezione dei diritti (copyright vs copyleft, per intenderci) e l’affermazione di nuove tutele, a partire da quelle della libertà individuale degli utenti su Internet, in Italia – as usual – la fuoriuscita dal medioevo digitale appare ancora lunga e faticosa. E questo ci preoccupa, sempre di più.

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Il Governo vara la sua Agenda Digitale. Un primo, importante passo

postato il 28 Marzo 2012

di Giuseppe Portonera

Il Governo sta lavorando al piano dell’Agenda Digitale. Roberto Rao, ieri, con due tweet ci ha informato dell’esito della riunione avuta con i rappresentanti del Governo: entro giugno si dovrebbe esaminare la proposta targata Profumo e approvarne quindi il testo unico.

Nella bozza della proposta, si ritrova l’impegno dell’esecutivo a colmare il digital divide italiano entro il 2013, assicurando a tutti gli italiani di poter accedere a una linea a banda larga di base, e a rispettare gli impegni dell’Agenda Digitale Europea, offrendo dunque entro il 2020 a tutti i cittadini de Belpaese la Banda Larga Veloce pari o superiore a 30 Mbit, aggiungendo inoltre che sempre entro il 2020, il 50% dei cittadini italiani dovrà poter disporre di connessioni a Banda Larga Ultraveloce (NGN) sino a 100Mbit (per cui, però, ad oggi, mancano i fondi). Tutto questo perché si intende incentivare la diffusione dell’E-commerce con alcune strategie ad hoc con la defiscalizzazione per incentivare domanda e offerta. Spazio, poi, all’alfabetizzazione informatica, che è uno dei principali problemi italiani, incentivando corsi e la didattica digitale e all’e-Gov e Open Data, cioè a una maggiore diffusione di servizi pubblici per il cittadino di cui usufruire via Internet, con un maggiore spazio al cloud computing. Il Governo vuole puoi investire sul progetto delle “smart communities”, vere e proprie “comunità intelligenti”, realizzando servizi avanzati per la sicurezza come il telecontrollo del territorio o reti per la gestione del traffico.

La proposta dell’esecutivo è sicuramente un primo, importante passo in avanti: per la prima volta il problema del digital divide viene affrontato in modo organico e completo, anche se non del tutto soddisfacente. Nella nostra proposta di legge, targata Gentiloni-Rao, alcuni punti dell’Agenda Digitale infatti venivano trattati in modo più sistematico (a partire dai tempi dello switch off per la pubblica amministrazione o dall’adozione di programmi di alfabetizzazione informatica e di educazione ai nuovi media); si prevedeva la riduzione dell’Iva, con un’aliquota privilegiata per favorire il commercio elettronico; si introducevano contributi una tantum per le famiglie meno abbienti che vorranno accedere a una connessione a Internet, come primo incentivo all’alfabetizzazione digitale, e agevolazioni ai giovani imprenditori che creano e sviluppano nel settore delle nuove tecnologie.

C’è quindi spazio per lavorare a nuove e condivise modifiche per ampliare il raggio d’azione del testo del Governo sull’Agenda Digitale, perché – ma questo vale per tutte le riforme di questi tempi, credo – non possiamo più permetterci di avere solo dei “buoni punti di partenza”. Ci servono soddisfacenti punti di arrivo, come in questo caso.

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Sviluppo digitale. Il futuro è a banda larghissima!

postato il 19 Febbraio 2012

di Giuseppe Portonera. (L’immagine: Topolino n. 2917 – copertina di Paolo Mottura)

Mentre stavo per scrivere questo pezzo, la mia attenzione è stata catturata dalla copertina di un numero di Topolino di qualche mese fa, che titolava: “Archimede e lo Zione in Italia. Il futuro è a banda… larghissima!”. Sfogliandolo sono arrivato fino alla storia di copertina, che merita di essere raccontata – seppure in sintesi: Rockerduck, il grande antagonista di Paperone, ha deciso di investire nel progetto della “banda ultralarga” in Italia; visto che il tutto stenta a decollare, però, pensa bene di chiedere aiuto all’inventore per eccellenza del mondo parallelo di Paperopoli, Archimede. Il quale scoprirà – a sorpresa – che il fallimento del progetto è dovuto a un deliberato sabotaggio da parte dello stesso Rockerduck, che dopo aver inizialmente creduto nel progetto del Wi Max (beato lui), ne ha avuto infine paura. E ai Bassotti, suoi complici, spiega anche il perché: “un colossale e istantaneo flusso di informazioni favorirebbe la nascita di nuove, giovani aziende e la diffusione dei loro prodotti! Per esempio, qualunque fabbricante indipendente di nanetti di gesso potrebbe rivaleggiare con me! Vi rendete conto?!”.

Ora, so che un approccio del genere potrà sembrarvi puerile o insensato, ma a me è sembrato che queste poche battute di un fumetto riescano a spiegare meglio di tanti altri e lunghi discorsi perché non possiamo più permetterci di tergiversare sugli investimenti in materia di banda larga e digital divide. Ne ho scritto più volte, proprio su questo sito, l’ultima volta in occasione della bocciatura dell’emendamento Fava: non possiamo più restare sulla difensiva, servono subito interventi ben definiti e mirati al superamento del digital divide tutto italiano. In questa direzione, finalmente, si sono mossi i primi passi. A partire dal disegno di legge che porta le firme congiunte del nostro Roberto Rao e del deputato Pd Paolo Gentiloni, intitolato “Misure urgenti per lo sviluppo della domanda di servizi digitali”. Già dal titolo si può ben capire quale sia il principio ispiratore di questo testo: in Italia più ancora che l’assenza di adeguati servizi digitali, stupisce la mancanza di una loro adeguata “domanda”; sono in pochi, in troppo pochi quegli imprenditori, quei commercianti, quei liberi professionisti che pensano (ancora prima di volere) di usufruire di infrastrutture digitali per il loro lavoro. Troppi gli ostacoli – culturali e strutturali – in questo senso. Il primo passo da compiere, allora, è rimuoverli, per creare poi la consapevolezza delle immense potenzialità offerte da Internet e incrementare quindi la “domanda di servizi digitali”. Il documento, che è articolato in dodici punti e che sarà presentato a breve alla commissione Trasporti e comunicazioni, si incardina in quattro punti chiave: una legge quadro ciclica che metta ordine allo sviluppo degli incentivi digitali ogni dodici mesi, in stretta connessione con le tappe dell’Agenda digitale europea; una tabella di marcia a tappe forzate per la fornitura dei servizi digitali al cittadino con un piano di swich off della Pubblica Amministrazione analogica già nel corso del 2013; un’aliquota privilegiata e unica del 10% per favorire il commercio elettronico, per un commercio che deve vederci fra gli attori principali e che invece al momento ci vede in fondo alle classifiche; un contributo una tantum pari a 50 euro per le famiglie meno abbienti che vorranno accedere a una connessione a Internet, come primo incentivo all’alfabetizzazione digitale. Questo perché investire in banda larga, oggi, significa scegliere una delle soluzioni più efficaci per uscire dalla situazione di crisi economica internazionale in atto: il commissario all’Agenda digitale Neelie Kroes, vice presidente della Commissione europea, ci ha ricordato, qualche settimana fa, che i paesi europei leader per produttività sono gli stessi che più hanno investito nel settore delle tecnologie digitali. Una crescita del 10% della penetrazione della banda larga, infatti, porterebbe a un aumento del Pil fra lo 0,9 e l’1,5% e consentirebbe di generare attività per oltre un trilione di euro e creare milioni di nuovi posti di lavoro a favore di nuove, giovani e moderne (anche piccole e medie) aziende competitive sul mercato italiano e europeo.

Ecco perché non possiamo più stare a giocare al gatto e al topo con quanti credono di vivere ancora in un bel passato in cui i mezzi di comunicazione più veloci erano il telefono di casa o la tv. Queste “sacche di resistenza allo sviluppo digitale, che hanno paura del nuovo… andrebbero tutti #defollowati!” – per riprendere uno degli ultimi tweet del nostro Rao. L’approvazione di questo disegno di legge, che speriamo possa essere ancora migliorato durante il suo iter alle Camere, può anche avere effetti benefici sul nostro (stantio e ingessato) mercato del lavoro e far sì che nel nostro Paese possano nascere quanti più e numerosi “fabbricanti indipendenti di nanetti di gesso” in grado di rivaleggiare e vincere anche contro i soliti, grandi e inamovibili produttori.

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Il futuro di internet potrebbe parlare italiano

postato il 7 Febbraio 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Il prossimo motore di ricerca su Internet potrebbe parlare italiano

grazie a Massimo Marchiori che promette di rivoluzionare i motori di ricerca.

Il suo algoritmo iniziale (che ideò circa 10 anni fa) è la base della struttura di Google: senza Marchiori, google non esisterebbe (fu Larry Page a vedere l’algoritmo e intuendone la genialità propose a Marchiori di poterlo usare). Dopo avere lavorato negli USA è tornato in Italia e ha provato a mettere su una sua iniziativa. Attualmente lavora per 2000 euro al mese per l’università di Padova, e ha fondato una sua piccola società, con la quale ha lanciato un nuovo motore di ricerca che rivoluzionerà (afferma) il mondo di internet e dei motori di ricerca.

Questo nuovo motore di ricerca consente di creare una mappa personalizzata del sito stesso in consultazione utilizzando gli elementi che ospita, inoltre permette un’immediata visualizzazione dei contenuti multimediali per effettuare rapidamente delle ricerche. Ma il punto più importante è la possibilità di vedere chi e quanti lo stanno consultando nello stesso momento, o lo hanno consultato, e entrare  in contatto con loro. «È questo un modo prezioso per fare amicizia con persone che hanno i nostri stessi interessi; è cioè una possibilità straordinaria di socializzazione».

Per realizzare tutto questo, Marchiori ha creato una società (www.volunia.com) che ha incontrato tantissimi problemi legati sia alla burocrazia (due mesi per avere l’allacciamento alla rete elettrica da parte dell’ENEL….) e legati all’arretratezza della rete informatica italiana; addirittura Telecom sostenne che non poteva connettergli i computer alla rete, come racconta lo stesso Marchiori: “Quando dovevo collegare i computer, Telecom mi informava che non poteva perché nel condotto non c’era spazio per un altro cavo. Sono stato costretto a installare una parabola e attivare una connessione radio con un fornitore remoto che supplisce ai disservizi delle reti normali.”

Se azzerassimo il famoso digital divide, se vi fosse stata la disponibilità della rete a banda larga e ultralarga, avrebbe avuto molti meno problemi (ci sono voluti 4 anni per metter in piedi la sua piccola società). E’ un italiano geniale, giovane, che lavora e genera sviluppo; e dobbiamo aiutarlo, e oltre a lui aiutare tutti gli italiani geniali, con voglia di lavorare e che sono “castrati” dalle carenze infrastrutturali italiane.

Per questo motivo, oltre a dettare i tempi dell’agenda digitale, bisogna dare certezza dei fondi; e siccome i fondi necessari sono circa 10-15 miliardi per abbattere il digital divide e potenziare al rete italiana, e i fondi pubblici stanziati in passato sono solo 800 milioni, io aggiungerei nella proposta, di usare una parte dei fondi FAS che, a vario titolo, giacciono inutilizzati (per mancanza di progetti e/o altro genere di problemi). Potenziare le infrastrutture informatiche, infondo, permetterebbe di sviluppare tutta l’Italia e soprattutto le aree più disagiate del nostro paese (è innegabile che le zone economicamente più svantaggiate sono anche quelle dove è maggiore la carenza di infrastrutture tecnologiche adeguate a cominciare dalle possibilità di connessione alla rete).

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Storie ordinarie di digital divide

postato il 6 Febbraio 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Marta Romano

Non ho mai disdegnato l’idea di vivere in un piccolo paesino di una altrettanto piccola regione come la Basilicata. Certo, le difficoltà sono molte, come la necessità dell’automobile, le scuole lontane, l’essere pendolare. Tuttavia, con l’ottimismo e con la convinzione di vivere in un paese dove persiste “l’aria buona”, ho sempre accettato queste difficoltà con spirito positivo. Tutte, tranne una: il non poter usufruire di internet veloce. Ebbene sì, faccio parte di quei 2,3 milioni di italiani del tutto privi di copertura internet, senza la possibilità di godere di una connessione internet davvero veloce, costretta a ripiegare su molto meno convenienti soluzioni. Dopo sfortunate esperienze con vari operatori telefonici per sopperire all’assenza della copertura della banda larga, sono giunta ad un’ovvia e sconsolata conclusione: ebbene sì, in Italia esiste ed è forte il problema del digital divide. Siamo alle solite, ad un’Italia che corre su due binari: l’uno prosegue spedito verso il progresso, l’altro retrocede verso l’oblio e approda nella stazione del mancato sviluppo.

Purtroppo, questo mancato sviluppo lo si avverte nella vita quotidiana di un piccolo paese: disservizi e ritardi nelle operazioni alle poste, impossibilità di fruire di servizi internet per le piccole imprese, isolamento totale. Un isolamento che appare ironico e beffardo in un mondo globalizzato, capace di azzerare le distanze tra nazioni e continenti, e non tra paesi della stessa Italia. Questo per la miopia di una politica, incapace di intuire che nell’accessibilità ad internet veloce si Può nascondere una grandissima possibilità di sviluppo e investimento. Rendendo efficienti anche i territori più periferici (che costituiscono la vera Italia, fatta di piccoli centri, e non soltanto di grandi città), si potrebbero aprire nuove zone d’investimento, invogliare gli imprenditori ad investire in piccole imprese, anche in centri di modeste dimensioni, naturalmente con adeguate condizioni infrastrutturali.

E far sì che tutta l’Italia possa godere di un’adeguata copertura ADSL, significa fornire già il primo mattoncino per una nuova economia, per aprirsi al nuovo mondo e alle nuove tecnologie.


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Tg1, è ora del Monti style

postato il 31 Gennaio 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

Berlusconi non è più a Palazzo Chigi, Minzolini ha lasciato il Tg1 per una storia di carte di credito ma al Tg della rete ammiraglia Rai poco sembra essere cambiato o almeno qualcuno vorrebbe non cambiare niente. L’idea de dg della Rai Lorenza Lei di confermare alla guida del Tg1 Alberto Maccari più che una soluzione di transizione sembra una di quelle mosse per salvare lo status quo politico e quindi non dispiacersi troppo l’asse Pdl-Lega che fino a poco tempo fa  faceva il bello e il cattivo tempo a Viale Mazzini. Non è in discussione la professionalità di Alberto Maccari ( anche se la telefonata con il finto Bossi David Parenzo è degna di un film di Alberto Sordi) ma l’immagine del Tg1 che viene da una stagione non troppo esaltante, per usare un eufemismo. Il Tg1 deve tornare ai vecchi fasti e per far questo è necessaria una direzione autorevole e di qualità che si caratterizzi per uno stile e uno spirito equivalente a quello del governo Monti. Come ha giustamente detto Roberto Rao alla Rai la resistenza degli ultimi giapponesi non serve; la guerra per il Tg1 è finita, è giunta l’ora del Monti style.

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Agenda digitale, la modernizzazione del Paese passa da qui

postato il 28 Gennaio 2012
“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

In Italia il rapporto tra politica e web non è mai stato, giusto per usare un eufemismo, dei migliori. Anziché comprendere tutte le immense potenzialità offerte da uno sviluppo consapevole della Rete e sfruttarle adeguatamente, in tutti questi anni abbiamo assistito al concepimento e all’approvazione – o tentata tale – di mostruosi decreti che rappresentano la cifra ideale dell’arretratezza culturale di larga parte della nostra classe dirigente. Decreto Pisanu, di Comma 29, di Emendamento Fava: cambiano i nomi, non la sostanza. Il problema è a monte: i difensori della libertà, anche sul Web, si trovano sempre sulla difensiva, costretti a rintuzzare gli attacchi sferrati da lobby o da parlamentari poco attenti e svegli; se si vuole invertire questa tendenza, quindi, occorre che alla difesa del principio di libertà e di neutralità sul Web, vada aggiunta l’impegno per rendere consapevole il Paese che la modernizzazione e il miglioramento del nostro sistema passano proprio da Internet. Che non è solo un canale di comunicazione alternativo, ma è uno strumento rivoluzionario.
In Italia c’è un ostacolo enorme al libero sviluppo di Internet: un divario che è infrastrutturale, economico e culturale. Infrastrutturale, perché chi vorrebbe accedere a Internet non può per l’assenza della banda larga. Economico, perché quasi il 20% delle famiglie che non ha accesso a Internet trova troppo costoso il computer o l’accesso a Internet, o entrambe le cose. Culturale, perché il 23% di chi non accede a Internet la considera inutile e non interessante, mentre il 41% vorrebbe accedere, ma non ritiene di averne le capacità. Ecco a cosa serve un’Agenda Digitale. Bisogna colmare il digital device italiano creando una nuova e diffusa consapevolezza (o meglio ancora, un vero e proprio processo di alfabetizzazione) nel Paese che Internet migliora la qualità della nostra vita e il fatto che nel Decreto Semplificazioni sia stato inserito questo riferimento è già un’ottima notizia. Nel decreto sono già inserite importante novità: dal finanziamento delle infrastrutture per la banda larga e ultra-larga (in Italia ci sono 5,6 milioni di cittadini che soffrono di gravi disagi a causa del “divario digitale”); dalla condivisione attraverso la rete dei dati in possesso delle istituzioni pubbliche, per garantire la piena trasparenza nei confronti dei cittadini e la sburocratizzazione delle pratiche (visto che i dati in possesso delle pubbliche amministrazioni saranno condivisi al loro interno, senza bisogno di inutili duplicazioni); dalla creazione di spazi virtuali sul web in cui i cittadini possono scambiare opinioni, discutere dei problemi e stimolare soluzioni condivise con la pubblica amministrazione; dall’incentivazione dell’e-commerce e delle transazioni finanziarie sul Web.
È sicuramente un grande passo in avanti, ma non è ancora abbastanza. Perché – come recita la mozione di Agendadigitale.org – “il XIX secolo è stato caratterizzato dalle macchine a vapore, il XX secolo dall’elettricità. Il XXI secolo è il secolo digitale”. Finora questo principio non è riuscito a fare breccia in Italia, conservatrice per sua natura e abbastanza diffidente nei confronti di qualsiasi novità: abbiamo fiducia, invece, nel fatto che questo Governo saprà superare anche questi ostacoli e contribuire ancor di più a modernizzare il nostro Paese.
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Digital divide, se il censimento non censisce

postato il 26 Gennaio 2012

Per il censimento del governatore Quirino in Siria e Giudea anche la Sacra Famiglia dovette scomodarsi per tornare a farsi registrare nell’oscura Betlemme, ma allora i censimenti erano una cosa seria e soprattutto i romani ci sapevano fare. Oggi nell’era di internet i censimenti sono un po’ più difficili e forse anche incompleti. Sembrerà un paradosso ma è quanto ammette la stessa Istat nel sito del censimento 2011:

Sono state predisposte due versioni di questionario, una contenente tutti i quesiti previsti dal piano di rilevazione censuaria e una in forma ridotta, allo scopo di ridurre al massimo l’onere sui rispondenti.
Il questionario ridotto viene distribuito ai due terzi delle famiglie residenti nei centri abitati dei Comuni capoluogo di provincia o con almeno 20 mila abitanti al 1° gennaio 2008, nei quali è stato possibile costruire campioni di famiglie significativi per aree sub comunali (Aree di Censimento).
Nei restanti Comuni viene utilizzato unicamente il modello in forma completa.

Se si parla di “campioni” anche un profano della materia potrebbe capire che non si tratta più di censimento della popolazione ma di un sondaggio piuttosto approfondito. Ma non è questo il punto, un’operazione statistica di questo tipo per quanto importante non mette nelle condizioni di intervenire su dei settori cruciali per lo sviluppo del Paese. Il riferimento ad esempio è ad una materia importante come il digital divide, cioè il divario esistente tra chi ha accesso al computer e ad internet e chi ne è escluso, che in base ai dati di questa rilevazione non sarebbe determinato correttamente dato che nella forma ridotta del questionario non c’è alcuna domanda sull’uso del Pc e di Internet. Ciò significa che ai due terzi delle famiglie residenti nei centri abitati dei Comuni capoluogo di provincia o con almeno 20 mila abitanti non sono state rivolte tali domande. Il censimento 2011 sarebbe stata un’ottima occasione per fare il punto sul digital divide italiano e prendere tutte le misure del caso per un’intervento senza precedenti, purtroppo in questa maniera i dati saranno ancora approssimativi con un danno evidente per i centri più piccoli che spesso sono quelli che soffrono di più del divario digitale. Una questione di rilievo visto che il governo Monti si sta muovendo per l’agenda digitale italiana, certo ci sarebbe anche la domanda sulla gestione del censimento e quindi sull’utilizzo di soldi pubblici per un’indagine incompleta, ma questa è un’altra storia.

di Adriano Frinchi

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