Ebbene, pare che le nostre previsioni si siano avverate.
Intanto registriamo che il limite originario posto dalla UE, della vendita da concludere entro il 30 settembre, è stato ovviamente sforato solo grazie ad un permesso speciale accordato dalla UE medesima, la quale, però, non sarà paziente molto a lungo.
E cosa fa il governo nel frattempo?
Intanto ha dichiarato lo stato di insolvenza per la Siremar, la società che si occupa dei collegamenti tra la Sicilia e le isole minori ovvero le rotte meno appetibili, iniziando a realizzare proprio quello spezzatino che i sindacati e i lavoratori.
Quasi in contemporanea (in data 15 settembre), hanno rifatto un nuovo bando di vendita, ma per la sola Tirrenia, mentre per la Siremar si provvederà in seguito (senza specificare, però, come e quando si prenderanno le decisioni che coinvolgono varie diecine di lavoratori); ma la cosa importante è che questo bando valeva dal 15 settembre al 29 settembre (ricordiamo che l’UE aveva posto, originariamente, come data limite per chiudere la pratica il 30 settembre, data rivista purchè poi la procedura fosse accelerata).
Tutta la procedura è stata data in mano all’advisor, la banca d’affari Rotschild, e fin qui non ci sarebbe nulla di male, se non che ad oggi, 14 ottobre, non si è più saputo nulla su questa vendita: non si sa se vi sono state società interessate all’acquisto (la precedente procedura aveva vista solo una società interessata), non si sanno gli eventuali importi e soprattutto non si sa nulla sugli eventuali piani di sviluppo per i lavoratori, se ci saranno licenziamenti, riduzioni di stipendio o un rilancio della compagnia magari investendo sui lavoratori oltre che sulle navi (ricordiamo che la Tirrenia ha parcheggiato in vari porti 6 navi, per il valore di circa 300 milioni di euro, che per problemi di progettazione e costruzione, non possono essere messe in mare).
Nel frattempo Giancarlo D’Andrea, l’amministratore nominato dal Presidente del Consiglio, l’on.le Berlusconi, a parte generiche rassicurazioni sul mantenimento dei collegamenti non ha più dato notizie.
La situazione appare, quindi, fumosa, soprattutto se consideriamo che la vendita della Tirrenia, vede escluse, come detto, le rotte meno profittevoli, e questo fa pensare che l’interesse del governo non sia primariamente quello della gestione più accorta del problema, ma solo quello di scaricare sulla Regione Sicilia, le tratte in perdita, per avvantaggiare i privati che volessero prendere la Tirrenia.
Eppure il business del mare sarebbe estremamente profittevole come dimostra il dinamismo di Grandi Navi Veloci che proprio ieri è stata acquistata per il 50% dall’armatore sorrentino Gianluigi Aponte già presente nel cabotaggio con SNAV, che confluirà nel nuovo gruppo. Il valore di questa acquisizione è di 130 milioni di euro e vedrà la nascita di un gruppo in cui le punte di diamante saranno la Grandi Navi Veloci e la MSC Crociere, raggruppate sotto il cappello della Marinvest.
E questa operazione potrebbe preludere ad altre operazioni con la Tirrenia, infatti cito testualmente: “con Marinvest entra in Gnv un partner molto importante, che ci dà solidità e che ci permette di creare un’entità più grande dotata di liquidità”, spiega l’amministratore delegato di Gnv Roberto Martinoli, che apre la porta all’operazione Tirrenia: “Di sicuro se dovessimo fare un’offerta lo faremo con il nuovo assetto”.
Alla luce di quanto sopra, si vede che il settore marittimo è un settore promettente, e Tirrenia a certe condizioni potrebbe diventare profittevole. Il punto è: queste condizioni a spese di chi verranno poste? Si spera non del contribuente italiano.
“Riceviamo e pubblichiamo” di Gaspare Compagno
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Qualche giorno fa, alla Camera dei Deputati, gli onorevoli Mauro Libè, Teresio Delfino e Gian Luca Galletti, hanno presentato all’aula parlamentare alcuni ordini del giorno, che prendendo atto della grave situazione dell’agricoltura italiana, delle aziende agricole, degli alti costi di produzione e dei bassi prezzi di vendita, che non riescono a ripagare le spese sostenute dagli agricoltori, della crisi del settore bieticolo-saccarifero e della forte incertezza dei mercati mondiali di materie prime. Gli ordini del giorno sono stati approvati, anche con alcuni voti della maggioranza, ed ora impegnano il Governo e il ministro dell’Agricoltura Giancarlo Galan ad attivarsi con tutti mezzi, a livello locale, nazionale e comunitario per reperire risorse da investire in questi settori vitali per molte aree d’Italia. Non basta: bisogna cercare concertazione a livello europeo per ridistribuire la ricchezza prodotta nella filiera agroalimentare in maniera più equa e soprattutto guardando al produttore.
Ha ragione il ministro Giancarlo Galan quando dice che l’ordine del giorno dell’onorevole Libè e colleghi è aria fritta. Infatti la situazione è continuamente peggiorata, in un’univoca discesa dei redditi che ha portato all’azzeramento totale dei profitti, fino al sorgere di gravi situazioni di indebitamento degli agricoltori. Ma al ministro ha risposto la Camera dei Deputati, approvando l’odg presentato dagli onorevoli dell’Udc, con 247 voti a favore. Dopo tanti anni di crisi perenne, dopo tanta rabbia degli agricoltori, dopo tante belle parole spese da destra e sinistra, il Governo del Fare, cosa ha fatto? Rappresentato dal ministro competente, il Governo ha rigettato al mittente l’ormai arcinota “questione agricola”, tacciandola come vecchia.
Ma cosa si può fare per rialzare il settore primario? Le risposte potrebbero essere tante. Le vie per il rilancio organico dell’agricoltura sono infinite e tutte potrebbero portare a dei risultati, ma il Governo quale di queste strade ha preso? Per ora è al bivio, in attesa che qualche azienda chiuda, che qualche altra vada in mano alle banche, che qualche agricoltore venda i terreni e la casa, da dove la sua famiglia vive da più di 3-4 generazioni e vada a fare il disoccupato in “città”. Il Governo attende una possibile ripresa interna dei consumi, una nuova politica economica dall’Unione Europea, un rilancio delle esportazioni, un’annata climatica decente. Forse il Governo attende che il mercato faccia la sua parte e che la regola del più forte prevalga anche in agricoltura: pesce grande mangia pesce piccolo.
Gli onorevoli Libè e Galletti chiedono al Governo di investire risorse e tempo nel settore bieticolo-saccarifero, ormai allo stremo dopo anni di completa distruzione attuata dalla Comunità Europea. Io mi chiedo: perché continuare con lo stato comatoso in cui persistono le aziende agricole del comparto bieticolo-saccarifero? I soldi ci sono solo per rottamare le attrezzature delle aziende del settore e per la riconversione di tutte le strutture industriali e produttive che lavorano le barbabietole. Se si tratta di un settore vitale per l’economia locale e per le migliaia di lavoratori che vi sono impiegati, perché riconvertirlo ad altre produzioni, che poi faranno la stessa fine del settore bieticolo-saccarifero tra qualche anno? Perché un settore di 10 mila aziende agricole, in 11 regioni italiane, con 62 mila ettari che riforniscono 4 stabilimenti industriali produttori di zucchero completamente consumato dal mercato italiano, occupando il 30% del mercato nazionale, deve essere dismesso? Perché questo suicidio? Perché i costi superano i ricavi e allora c’è bisogno di soldi pubblici per reggere a galla la barca: contributi, premi, finanziamenti, ecc.
Possibile che la Grande Europa non riesca a trovare un equilibrio ai settori agroalimentari? Possibile che non riesca a difendere le produzioni locali, le produzioni nazionali, le produzioni autoctone? Possibile che non sappia fare altro che concedere a destra e a manca indicazioni di origine protetta e denominazione di origine controllata e altre sigle varie? E bene si: i tanti governi dell’Europa unita non riescono a governare i mercati internazionali di materie prime. L’unico modo sarebbe reintrodurre dazi doganali degni di tale nome e portare ad un aumento consistente del prezzo dei prodotti di consumo alimentare, spostando i problemi dal produttore al consumatore, senza penalizzare i livelli intermedi. Quale la via da intraprendere? Anche l’Europa aspetta. Attende i mercati, la fine della crisi, la ripresa dell’economia. Ma forse attende ancor più il 2013, anno della scadenza dell’attuale Pac (politica agricola comunitaria), per iniziare a discutere di una nuova Pac più equa, meno spendacciona, più mirata alle vere esigenze del settore, più sana. Insomma tutti attendono.
Il Decreto Pisanu è superato per una serie di diversi motivi. Primo, perché fu pensato come argine per il rischio di terrorismo informatico, forma di terrorismo mai avvenuta sul nostro territorio. Secondo, perché l’Italia è un Paese fortemente tecnologizzato, ma con un handicap fortissimo, quello di non avere lo Stato dalla propria parte. Da noi ci sono infatti 4.806 punti di accesso Wi-Fi (in maggioranza privati), mentre in Francia ce ne sono 5 (cinque) volte di più. Prova ne è il fatto che se negli altri Paesi mezzi come I-Pod, I-Pad o Smartphone sono esclusivamente Wi-Fi, da noi sono in maggioranza Edge (dato che non ci sono punti di accesso). Terzo, perché frenare l’espansione del Wi-Fi libero è controproducente per l’economia e la nascita di nuove forme di investimento.
Senza dubbio il grande male del decreto Pisanu è contenuto nel suo primo comma (che impone la richiesta di un’autorizzazione al questore per condividere un po’ di connettività tra gli avventori del proprio esercizio commerciale) e nel quarto (il quale sancisce il famigerato obbligo di identificazione a mezzo carta d’identità nonché di logging della clientela). In parole semplici, il gestore che offre il servizio deve registrare l’utenza che ne usufruisce: se quindi mi connetto ad Internet tramite un punto di accesso Wifi, vengo automaticamente schedato. Un vero e proprio abominio dal punto di vista intellettuale e sociale. Un inutile e dannoso adempimento burocratico dal punto di vista giuridico. Scorrendo le varie statistiche, ci si può bene rendere conto di come l’Italia sia sistematicamente tra gli ultimi Paesi in Europa, a fianco di Romania e Bulgaria, per tutto quanto riguarda Internet e informatica. Ciò che più colpisce è la fotografia sociale che ne risulta: metà dei nostri cittadini non ha mai usato un computer (a fronte di un’altra metà, quella più giovane, che però è più che al passo con i tempi); sono indietro anche le imprese, che investono decisamente meno di quelle tedesche o inglesi in tecnologie dell’informazione (e qui ne paga chiaramente il nostro livello di concorrenza); è complessivamente indietro la pubblica amministrazione, nonostante i periodici annunci di rivoluzioni digitali (vero Ministro Brunetta?). Il tutto, perché, non ci sono leggi che valorizzino e supportino un uso sapiente e costruttivo di Internet nella vita di ciascuno di noi. E qual è, secondo voi, la madre di questa mancanza? Proprio il Decreto Pisanu, che – nel 2005 – rappresentò un tipo di risposta sbagliata (perché generalizzata e superficiale) a un serio problema come quello del terrorismo. Perché non è certo chiudendo le porte ad Internet che si impediscono gli attentati.
Altro punto, molto interessante, che a nostro avviso merita di essere portato all’attenzione di tutti il prima possibile è il fatto che il Governo italiano non abbia ancora liberato le frequenze necessarie per ampliare le reti mobili, cosi che navigare in Internet con le chiavette internet è sempre più difficile. Eppure, come spiega un rapporto realizzato dalla School of Management del Politecnico di Milano, gli italiani che navigano attraverso la rete mobile sono saliti alla fine dell’estate a 12 milioni, il doppio dei sei milioni di inizio 2009. Questo significa che, per gli operatori, vendere l’accesso a Internet attraverso la rete mobile sta diventando un business, stimato a fine 2009 in circa 1,24 miliardi di euro (più 30 per cento rispetto al 2008). Una miniera d’oro, che però non viene adeguatamente sfruttata, per il discorso di cui sopra: a fronte di pochissime frequenze, il traffico sta diventando eccessivo. Il rischio di collasso è dietro la porta. Inoltre è chiaro a tutti che le tariffe italiane sono tra le più salate d’Europa, mentre la velocità effettiva di navigazione è circa un quinto di quella promessa. In Austria e Finlandia bastano 10 euro al mese e si naviga quanto si vuole, ovunque; in Germania e in Spagna bastano 17 euro. Un sogno per gli utenti del nostro Paese.
Ecco perché l’on. Roberto Rao non ha tutti i torti a dichiarare inutile e dannoso il Decreto Pisanu. Perché, finalmente, avremo la possibilità di liberarci di uno di quei fastidiosissimi e retrogradi laccioli burocratici che frenano il lavoro, lo svago e l’impegno di cittadini moderni, attivi e ben informati.
“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera
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A seguire la trascrizione stenografica del question time odierno
Interrogazione a risposta immediata sulla liberta della rete wi-fi
Illustrata dall’On Roberto Rao
PRESIDENTE. L’onorevole Rao ha facoltà di illustrare la sua interrogazione n. 3-01274 concernente gli intendimenti del Governo in merito alla proroga dell’efficacia dei limiti previsti dall’articolo 7 del decreto-legge n. 144 del 2005 in materia di accesso senza fili alla rete Internet
ROBERTO RAO. Signor Presidente, signor Ministro – come lei ben ricorda – all’indomani degli attentati di Londra e Madrid, sanguinosi, nelle metropolitane, il nostro Paese – come tanti altri – assunse una serie di misure di contrasto al terrorismo, tra cui il cosiddetto decreto Pisanu. Un decreto che ha posto dei limiti severi – parliamo di adempimenti burocratici pesantissimi – per l’accesso alla rete Internet senza fili (la cosiddetta rete wi-fi). Si tratta di una norma che non ha eguali in altri Paesi occidentali e secondo la quale i gestori dei pubblici servizi per utilizzare questo sistema, ancora oggi, sono obbligati a chiedere una specifica licenza al questore, a identificare con documento coloro che vogliono accedere alla rete, e a conservare i dati cartacei in un apposito archivio. Gli stessi proponenti hanno ammesso che questa misura si è rivelata poco utile per il contrasto al terrorismo, ma molto gravosa per la diffusione del libero accesso ad Internet, e dunque estremamente dannosa per lo sviluppo del nostro Paese. Concludo, signor Presidente, facendo una richiesta al Ministro: visto che su iniziativa degli onorevoli Lanzillotta e Gentiloni, insieme al collega Barbareschi, abbiamo presentato una proposta di legge per abrogare o per modificare questa norma, vorrei sapere il parere del Governo su questa questione.
PRESIDENTE. Il Ministro per i rapporti con il Parlamento, Elio Vito, ha facoltà di rispondere.
ELIO VITO, Ministro per i rapporti con il Parlamento. Signor Presidente, rispondo all’onorevole Rao sulla base degli elementi che sono stati forniti dal Ministero dell’interno. Come lei ha ricordato, l’articolo 7 del decreto-legge n. 144 del 2005 fa parte di un gruppo di disposizioni volte a controllare attività sensibili, in particolare gli Internet point e gli altri esercizi nei quali sono offerti servizi di comunicazione anche telematica, in relazione a possibili minacce terroristiche. Questa disposizione risponde quindi a esigenze di sicurezza dello Stato. Va evidenziato che l’applicazione della normativa, di straordinaria importanza, ha consentito attività investigative di assoluto rilievo per il contrasto del terrorismo sia nazionale che internazionale, nonché per il contrasto del grave fenomeno della pedopornografia on line. Le richieste di semplificazione e di liberalizzazione poste alla base della sua interrogazione, onorevole Rao, unitamente all’esigenza di non pregiudicare la sicurezza dello Stato (e quindi la sicurezza dei cittadini), le posso assicurare, sono pertanto all’attenta valutazione del Governo e del Ministero dell’interno.
PRESIDENTE. L’onorevole Rao ha facoltà di replicare.
ROBERTO RAO. Signor Presidente, ringrazio il signor Ministro, e mi dispiace che abbiano scomodato lei, nel senso che la mia richiesta poteva anche essere rivolta al Ministro Romani, o al Ministro Calderoli (che è competente per la semplificazione). Con grande cortesia lei ha interpretato, invece, il pensiero del Ministro dell’interno che chiaramente ha come primo interesse quello della tutela dei nostri cittadini rispetto agli attacchi e in materia di sicurezza anche internazionale, ma è lo stesso pensiero che abbiamo noi. Ovviamente la sicurezza nazionale viene al primo posto, ma questa norma a nostro giudizio – lei ha citato alcuni fatti, ma la risposta era anche necessariamente sintetica e generica, sui grandi risultati cha ha dato questa norma in termini di contrasto al terrorismo e questa è la prima volta che ne sentiamo parlare, e sarà il caso di approfondire la questione in sede di dibattito parlamentare – senza dubbio complica la vita dei cittadini, quindi ci saremmo aspettati un intervento che lasciasse presupporre un’iniziativa un po’ più forte per abrogarla. È una questione che non riguarda soltanto la sicurezza dei cittadini. Internet rappresenta per noi l’ultima frontiera della libertà, ma anche un volano determinante per lo sviluppo dell’economia. L’abrogazione o la modifica del decreto Pisanu presenta un interesse trasversale. Lei lo sa, anche nei vertici della Commissione Trasporti abbiamo trovato una grande attenzione. Si possono trovare anche soluzioni intermedie (forse quelle che lei ha auspicato), ma si deve assolutamente cancellare l’obbligo per i gestori di conservare un archivio cartaceo di chi si connette, altrimenti siamo veramente agli antipodi. Del resto, se un terrorista ha in animo di commettere un attentato non gli sarà certo difficile falsificare un documento in modo da ingannare il gestore di un locale pubblico. Inoltre, corriamo l’ulteriore rischio che questa norma venga ancora una volta prorogata con il mille proroghe che sarà approvato da qui a breve. E così, di anno in anno, di proroga in proroga, il decreto Pisanu potrebbe diventare come le accise sulla benzina introdotte per la guerra d’Abissinia, rinnovate ciclicamente fino ad assumere un’impropria stabilità. In altre parole, si rischia di prorogare una norma sbagliata solo perché non si trova il tempo di occuparsi della questione.
L’Italia ha un quinto dei punti di accesso wi-fi della Francia, è agli ultimi posti in Europa – e che tristezza queste classifiche – a fianco di Romania e Bulgaria. In altri Paesi che si impegnano come noi e forse anche più di noi nella lotta al terrorismo non ci sono regole simili. Per quanto riguarda lo sviluppo di Internet noi saremo in prima linea, anche al fianco di iniziative come quella che abbiamo presentato noi o di analoghe del Governo. Se vogliamo crescere e svilupparci dobbiamo colmare questo grave ritardo.
Avevano dai 23 ai 32 anni i 4 alpini morti in Afghanistan: Sebastiano Ville, Marco Pedone, Francesco Vannozzi, Gianmarco Manca. Quattro esistenze spezzate: progetti, speranze per il futuro, sogni e obiettivi saltati in aria all’improvviso come i loro corpi su quell’ordigno che il blindato Lince non è riuscito a rendere inoffensivo. [Continua a leggere]
Per chi nell’ultimo mese non avesse seguito la tragica storia di Sarah (difficile, vista la quantità di parole spese in tv e nei giornali) ricordo qual è stato l’altrettanto tragico epilogo: mercoledì 6 ottobre durante la puntata serale di “Chi l’ha visto?”, la madre di Sarah scopre in diretta che è stato ritrovato il corpo della ragazza e che lo zio è in qualche modo coinvolto, visto che le ricerche si sono focalizzate in un unico punto solo dopo il lungo interrogatorio di Michele, cognato della madre Concetta. Non solo: Sabrina, cugina di Sarah e figlia di Michele, scopre in diretta che suo padre (suo padre!) è l’artefice del fatto orribile che ha sconvolto l’intera famiglia. Inoltre, la verità è stata svelata contemporaneamente a 3.680.000 italiani, che, avidi di sapere, hanno seguito fino all’ultimo minuto la puntata.
Inevitabilmente, è scoppiata la polemica: come avrebbe dovuto agire Federica Sciarelli, conduttrice del programma? Perché nessuno ha impedito che una notizia così sconvolgente venisse data da un’estranea e di fronte a milioni di spettatori, violando l’intimità e il raccoglimento della famiglia attorno al dolore provocato da questa scoperta?
Prima di azzardare una risposta, ritengo necessaria una riflessione. Spesso mi capita di chiedermi, come mai “Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce”? Perché ci colpiscono di più le cattive notizie piuttosto che quelle positive? Come mai la nostra empatia sembra attivarsi di più se assistiamo a situazioni di sofferenza invece che di felicità? Perfino la scienza sembra non offrirci via di scampo annoverando, fra le emozioni classificate primarie (tristezza, collera, paura, disgusto, sorpresa e gioia), più emozioni negative che positive.
Istintivamente siamo portati ad indagare, ad informarci, come per valutare quale sia il grado di sofferenza dei diretti interessati. “Dobbiamo” sentire il pianto straziante di Sabrina e vedere il volto impietrito della madre. Oppure, quando veniamo a sapere delle morte di una persona, subito chiediamo se questa aveva famigliari, figli, se era sposata… come se volessimo sapere qual è il vuoto che si porta dietro, quanta sofferenza provoca la sua scomparsa: ci concentriamo sul dolore. Ma perché, mi chiedo, sentiamo questo bisogno di conoscere tutti i particolari, di immergerci nella sofferenza del dramma che ci viene presentato? È per semplice “partecipazione empatica”? per curiosità? O c’è dell’altro?
E quando riusciamo a percepire la gravità di ciò che è successo, o pensiamo di esserci riusciti, ci sentiamo responsabili di gridare quanto il mondo sia ingiusto e quanto disgusti tutto il male che esisite. Ci sentiamo in dovere di indigniarci e, cinicamente, di perdere le speranze in questa umanità capace di compiere atti orribili. Noi invece abbiamo la possibilità di sentirci migliori, noi non faremmo mai niente del genere, anzi… e ci ritroviamo a riproporre la pena di morte come giusto prezzo da pagare, come se uccidendo un’altra vita riuscissimo a mettere fine al ciclo di morti e di omicidi. E troviamo anche un “macabro” conforto nel constatare che non siamo soli nella sofferenza di tutti i giorni, del tipo: c’è chi sta peggio!
Ma che ruolo hanno i media in tutto questo? Semplice. Questa “macchina dell’informazione” ha capito di poter giocare su quanto appena scritto, di poter far leva sui sentimenti degli “spettatori” amplificando le nostre paure, il nostro disgusto, la nostra partecipazione al dolore altrui, sfruttando tutto ciò per aumentare gli ascolti, le vendite (per fortuna questo rappresenta solo una parte del giornalismo). Ma, usando le parole di Aldo Grasso in occasione dei vent’anni da Vermicino (caso che ricorda quanto successo in tv la sera del 6 ottobre), “E’ opportuno immettere in un circuito incontrollabile immagini che invocano solo la pietà? Una cosa è soffrire, un’altra vivere con le immagini della sofferenza, che non rafforzano necessariamente la coscienza o la capacità di avere compassione. Possono anche corromperle”. Infatti, l’effetto che questo fenomeno produce, è l’abituare la persone al male. La compassione, l’empatia, la sensibilità vengono anestetizzate. Una persona abituata al dolore e alla sofferenza alza una barriera nel suo cuore: per un istinto di autoconservazione, un meccanismo di difesa, si rende passivo di fronte al dolore, fugge in ogni modo al contatto diretto con esso. Seguendo un tg veniamo bombardati da notizie di cronaca negative ad una così alta velocità che la nostra mente non ha il tempo meteriale di elaborare l’accaduto e di rendersi pienamente conto della sua gravità. Abituarsi al peggio, non è mai un bene, ci impedisce di stupirci di fronte ad eventi più grandi di noi, ci rende passivi e inerti di fronte alla realtà.
Dunque, forse la giornalista avrebbe dovuto interrompere subito il collegamento invece di limitarsi a chiedere alla madre se voleva farlo, una madre che per sapere le ultime novità riguardanti le sorti di sua figlia era costretta a dipendere dai giornali e dalla tv. Non si sarebbe dovuto insistere nel continuare a leggere notizie non confermate, non si sarebbe dovuto insistere nel puntare le telecamera su questa famiglia che si è vista costretta a frantumare l’ultimo briciolo di speranza davanti a milioni di persone, non si sarebbe dovuto insistere nel chiedere a Sabrina di mostrarsi alla telecamera per spiegare quanto sapeva e nel mandare in onda il suo pianto alla scoperta della verità.
Ma le colpe non sono da attribuire solo a Federica Sciarelli, perché è l’intero sistema che sotto questo aspetto non funziona: saper distinguere e separare ciò che è lavoro da ciò che è buonsenso, ciò che è scoop da ciò che è una tragica verità, ciò che è curiosità da ciò che è rispetto, ciò che è spettacolo da ciò che è realtà. “Bisogna smetterla di parlare della normalità del male, qui siamo di fronte al male della normalità” (Aldo Grasso).
Dopo l’ennesimo tira e molla, dopo mesi e mesi di discussione in merito alla necessari età o meno delle province italiane, dopo proposte e proteste, Tremonti, dall’alto del suo ministero, dice la sua: “Tagliare le province è inutile”.
Dunque, quella che sembrava dover essere una prerogativa di questo Governo, si è sciolta come neve al sole, con le parole del Ministro dell’Economia. Secondo Tremonti, infatti, con il taglio delle province non si ricaverebbero che poche centinaia di milioni di euro, al contrario di quanto ipotizzato fino ad ora. Tagliare le province significherebbe soltanto ridistribuire gli impiegati dell’ente tra comuni e Regione.
Ebbene, il ministro scuserà la mia ingenuità, ma mi sorge spontanea una domanda: se abolire le province è inutile(ipse dixit!), perché era uno dei primi punti del programma di Governo? Una risposta ce l’avrei: pura demagogia.
Allo stesso modo Tremonti, con semplicità e freddezza matematica, conti alla mano, ha spento gli entusiasmi di tutti coloro i quali erano convinti di poter aiutare i conti dello Stato tagliando il numero e i privilegi legati alle cosiddette auto blu. Anche questi tagli sono inutili.
Ecco, mi sorge un’altra domanda: molte imprese chiudono i battenti, le famiglie non arrivano neanche alla terza settimana, la disoccupazione dilaga, tagliare le province e le auto blu è inutile.. E di che abbiamo parlato fino ad ora? Diun assurdo federalismo, di cui non è lecito conoscere i costi e le conseguenze economiche,di una riforma scolastica e universitaria che è assurdo chiamare “riforma”, delle quote latte che hanno colpito soltanto gli onesti allevatori. Ecco qual è il bilancio di 3 anni di governo Berlusconi: il nulla.
Il programma di questo governo si è pian piano sgretolato, le promesse sono rimaste tali o, in altri casi, sono state addirittura smentite da chi quelle proposte le ha scritte. E la domanda è questa: può una maggioranza così, che si smentisce da sola giorno dopo giorno, incapace di rialzarsi da questa condizione di stallo, governare ancora?
Non credo sia possibile definire ancora credibile né il premier, né la sua maggioranza. C’è bisogno di cambiamento. Allora, si faccia un governo tecnico, e si pensi a fare ciò che non si fa da troppo tempo: governare.
L’Italia ha bisogno di coraggio, l’Italia ha bisogno di vere riforme.
Alle Famiglie delle Vittime, al 7o Reggimento Alpini va il nostro cordoglio.
“Su le nude rocce, sui perenni ghiacciai,
su ogni balza delle Alpi ove la provvidenza
ci ha posto a baluardo fedele delle nostre
contrade, noi, purificati dal dovere
pericolosamente compiuto,
eleviamo l’animo a Te, o Signore, che proteggi
le nostre mamme, le nostre spose,
i nostri figli e fratelli lontani, e
ci aiuti ad essere degni delle glorie
dei nostri avi.
Dio onnipotente, che governi tutti gli elementi,
salva noi, armati come siamo di fede e di amore.
Salvaci dal gelo implacabile, dai vortici della
tormenta, dall’impeto della valanga,
fa che il nostro piede posi sicuro
sulle creste vertiginose, su le diritte pareti,
oltre i crepacci insidiosi,
rendi forti le nostre armi contro chiunque
minacci la nostra Patria, la nostra Bandiera,
la nostra millenaria civiltà cristiana.
E Tu, Madre di Dio, candida più della neve,
Tu che hai conosciuto e raccolto
ogni sofferenza e ogni sacrificio
di tutti gli Alpini caduti,
tu che conosci e raccogli ogni anelito
e ogni speranza
di tutti gli Alpini vivi ed in armi.
Tu benedici e sorridi ai nostri Battaglioni
e ai nostri Gruppi.
Così sia.”
Oggi è un giorno di lutto.
Nell’adempimento del proprio dovere il nostro contingente ha perso quattro alpini. Le vittime sono i primi caporalmaggiori Francesco Vannozzi, Gianmarco Manca, Sebastiano Ville ed il caporalmaggiore Marco Pedone. Un quinto alpino è rimasto ferito: si tratta del caporalmaggiore scelto Luca Cornacchia; per fortuna non è in pericolo di vita. E’ l’ennesima tragedia che si consuma in Afghanistan ai danni dei nostri militari, la più grave per numero di vittime dal Settembre 2009, quando rimasero sul campo sei italiani.
L’agguato è avvenuto in una delle zone più turbolente del paese, nel distretto del Gulistan. I militari stavano scortando un convoglio composto da circa settanta camion quando, alle 9.45 locali (7.45 ora di Roma), il convoglio è stato attaccato con armi leggere da un gruppo di guerriglieri talebani. Nel deviare dalla strada in cui era in corso l’imboscata per cercare di disingaggiare il nemico, il mezzo su cui viaggiavano i militari è stato investito da una terribile esplosione, che ha letteralmente disintegrato il blindato. L’attacco è stato quindi respinto ed i talebani costretti alla fuga.
Non è chiaro che tipo di ordigno sia stato utilizzato per l’attacco. Si penserebbe ad uno “Ied” (improvised explosive device – un ordigno improvvisato nascosto ai bordi della strada). L’ipotesi non è scontata, poiché i blindati Lince erano stati modificati e pesantemente corazzati dopo gli attacchi subiti negli anni passati che ne avevano messo in luce la vulnerabilità ad attacchi provenienti da sotto di essi. In tal caso si sarebbe trattato di un ordigno a pressione od con innesco mediante cavo, in quanto i nostri mezzi sono dotati di disturbatori radio, che conteneva almeno cento kilogrammi di esplosivo.
Si fa strada un’altra ipotesi, ben peggiore. Si potrebbe infatti pensare anche ad un altro tipo di esplosivo, a carica cava, con una maggiore capacità di penetrazione laterale. Questo tipo di bombe, conosciute con l’acronimo “Efp” (explosively formed projectile) non sarebbero di fabbricazione talebana. E’ richiesto infatti un grado di tecnologia di cui i guerriglieri non dispongono; è possibile quindi che questi ordigni siano prodotti in Iran.
Divampano le polemiche in Patria per l’accaduto. Si torna a gran voce a chiedere il disimpegno immediato dei nostri militari, in particolar modo da parte di esponenti dell’Italia dei Valori e di Sinistra Ecologia e Libertà. Il Ministro della Difesa La Russa chiederà al Parlamento la possibilità di inviare più elicotteri per alleggerire la presenza di convogli terrestri e di munire i nostri aerei AMX di bombe.
Il governo si affretta a ricordare i termini dell’impegno, che scadranno nel 2011, per cercare di placare una opinione pubblica sempre più insofferente.
La partita nello scacchiere si è terribilmente complicata dal 2001 ad oggi. In Afghanistan non disponiamo di alcuna opzione politica o strategica convincente. I talebani, dopo la rocambolesca ritirata, si sono nel corso degli anni riorganizzati nelle montagne al confine tra Pakistan ed Afghanistan. Lì hanno trovato terreno fertile tra i Pasthun: essi vivono secondo codici tribali particolarmente rigidi, su cui la dottrina islamica radicale ha fatto rapidamente presa; sono inoltre la tribù più numerosa in Afghanistan.
Il Pakistan, che con Musharraf si era schierato a fianco della missione NATO (convinto anche dai miliardi di dollari che piovevano sul suo paese sotto forma di aiuti militari), iniziò dapprima una blanda guerra contro queste tribù di confine, intensificata a tratti quando le pressioni statunitensi si facevano più insistenti. Il generale Musharraf infatti stava combattendo una guerra interna contro i propri servizi segreti, gli stessi che hanno addestrato i talebani, e che in Pakistan sono estremamente influenti. La sua deposizione ha aperto una voragine politica, senza un leader in grado di mantenere salde le redini del comando militare in un paese che assomiglia ad una polveriera pronta ad esplodere. Infine, per tornare a Kabul, l’attuale governo si dimostra debole, con scarso controllo del territorio e lontano dalla legittimazione popolare che potrebbe garantirne la stabilità.
Il termine della missione, coerentemente con quanto sostiene anche il presidente Obama, dovrebbe avvenire gradualmente a partire dal 2011. La grave situazione che si sta delineando in quel tormentato angolo del globo, esige che ci si affidi per i tempi tecnici richiesti dal disimpegno ai nostri generali.
In questo caso, i proclami politici di un ritiro immediato risultano dannosi: non possiamo permetterci di abbandonare Kabul in una disordinata rotta che ricorda quella americana di Saigon. Creare in così poco tempo le condizioni per una stabilità credo sia molto difficile, in particolar modo con le scarse opzioni politiche che la NATO ha dinnanzi.
Nel frattempo, dopo ormai quasi dieci anni di combattimenti (ed è inutile nasconderci che di questo si tratta), c’è da prendere coscienza di una situazione che de facto richiede l’utilizzo di mezzi adeguati a far fronte alle necessità dei nostri soldati che operano sul campo, nella speranza magari ingenua, ma certamente sincera, che tragedie come questa, non si ripetano.
A dieci anni di distanza dalla consegna del premio Nobel per la Pace a Kim Dae-Jung, ex presidente della Corea del Sud, l’ambito riconoscimento internazionale è stato assegnato, secondo “quasi tutte” le aspettative, ad un altro personaggio dagli occhi a mandorla.
Questa volta non si tratta né di un Presidente, né di un Re del Sol Levante, bensì di un semplice uomo cinese tra il miliardo e quattrocento milioni di connazionali. L’uomo in questione è un anti-eroe per eccellenza, diventato, quasi per caso, il simbolo della lotta per il riconoscimento dei diritti e delle libertà in Cina. Il suo nome è Liu Xiaobo, e sta scontando 11 anni di carcere per “incitamento a sovvertire il potere dello Stato”.
Il possente e numeroso esercito cinese è stato sconfitto da un cittadino magrolino e con gli occhiali “a fondo di bottiglia”, che ha avuto il coraggio di denunciare quello che il Governo “giallo” cerca da sempre di celare. Le sue parole hanno scavalcato la lunga muraglia cinese e hanno superato i confini asiatici, giungendo alle orecchie europee e di tutto il mondo. Alla sede ufficiale del Nobel di Oslo, è stata letta la motivazione della premiazione: “Per la sua lunga e non violenta battaglia per i diritti umani in Cina”.
Siamo tutti con Liu Xiaobo!!!
A tal proposito ricordiamo che l’articolo 35 della Costituzione cinese stabilisce che i cittadini godono delle libertà di associazione, di assemblea, di manifestazione e di discorso. Peccato che queste disposizioni non siano, di fatto, mai state garantite alla popolazione.
Liu Xiaobo ha semplicemente manifestato legittimamente il suo dissenso per queste pratiche anti-democratiche e il popolo cinese lo ha sostenuto. E anche la rete, il web, ha diffuso il contenuto della famosa Carta 08, un documento favorevole alla democrazia nel Paese tra i più ricchi e influenti del mondo, ispirato alla Carta 77 dei dissidenti ceco-slovacchi.
Non è un caso che la notizia è stata data da Twitter, il nuovo uccellino virtuale che vaga indisturbato da un capo all’altro del mondo non conoscendo frontiere.
Come tutti sanno, il premio Nobel per la Pace conferisce grande prestigio, sebbene sia spesso fonte di controversie politiche, e infatti pare che il Governo cinese avesse “avvertito” le alte cariche delle istituzioni, dei comitati organizzatori e della monarchia norvegese, ad accantonare l’idea di premiare colui che, in patria, secondo chi dovrebbe “applicare” correttamente la legge, è considerato un dissidente politico. Fortunatamente il “consiglio” non è stato accolto.
Oggi assistiamo ad un passaggio di testimone importante, da Barack Obama a Liu Xiaobo, dall’uomo più potente del mondo ad un uomo prigioniero, ostaggio del suo stesso Paese, reo di aver chiesto di poter esercitare i diritti e le libertà fondamentali riconosciute a tutti i cittadini del mondo.
La Cina sta attuando una forte censura anche dei mezzi di comunicazione e di informazione interni, cercando di controllarli e di far trapelare solo determinate notizie.
Io allora dico: “Per fortuna che c’è Twitter e che, oltre ai giornali, ci sono coraggiosi blogger che diffondono anche le notizie più scomode, senza paura”, con la speranza che questa “Oscenità” (così è stata commentata la notizia del Nobel dal Governo di Pechino), possa essere d’esempio a tutti i componenti del Governo asiatico.
Cosa ha motivato questo cambio di umore in pochi giorni?
Semplice, il provvedimento preso oggi in Consiglio dei Ministri, ovvero il federalismo fiscale.
Un provvedimento preso forzando palesemente i tempi e che di fatto taglia via il Parlamento da ogni intervento e discussione sull’argomento e che è stato approvato in soli 30 minuti, pur andando a coinvolgere temi importantissimi: finanza regionale, provinciale e i costi standard in sanità.
Siamo di fronte ad una evidente e palese forzatura, visto che due giorni fa il governo medesimo aveva concordato con le Regioni di approfondire gli aspetti tecnici, e adesso, invece, pone la Conferenza Stato-Regioni di fronte al fatto compiuto, e la forzatura è resa tanto più evidente dalle reazioni dei Presidenti delle Regioni che hanno protestato contro un vero e proprio colpo di mano.
Ma andiamo ad esaminare questo provvedimento.
Come sempre si afferma che il federalismo fiscale porterà a dei risparmi. Può essere, ma per chi?
Avanzo una ipotesi: per lo Stato, ma non certo per i cittadini, i quali si troveranno, bene che vada, una partita di giro, ovvero pagheranno la stessa cifra senza avere un tangibile miglioramento dei servizi o un risparmio. Nell’ipotesi peggiore, ovviamente, il cittadino si troverà a pagare di più.
Ma come è possibile? Lo Stato spende di meno, non perché è più accorto, ma perché dà meno servizi ai cittadini, i quali dovranno rivolgersi alle Regioni, le quali già lamentano troppi tagli da parte dello Stato. Non ci vuole una grande fantasia per capire che dovranno aumentare l’imposizione fiscale sui cittadini.
Tutto questo lo si vede se si va a studiare il contenuto del decreto che riporta i seguenti provvedimenti: le Regioni hanno facoltà di aumentare l’Irpef dell’1,4% nel 2013, dell’1,8% nel 2014 e del 3% nel 2015, in compenso non potranno aumentare l’Irpef per i primi due scaglioni di reddito (dipendenti e pensionati) e nemmeno diminuire l’Irap in caso di aumento dell’addizionale Irpef.
In pratica, le regioni possono aumentare l’addizionale IRPEF (penalizzando i cittadini), ma se lo fanno non possono diminuire l’IRAP e quindi penalizzano le aziende.
Si dirà: ma i primi due scaglioni di reddito sono salvi. Vero, ma invito tutti a riflettere sul fatto che gli scaglioni per l’IRPEF vengono conteggiati al lordo di tutte le trattenute in busta paga, quindi con un valore complessivo superiore a quello che viene realmente percepito.
Altro provvedimento riguarda l’IVA dove il governo ha deciso che la compartecipazione regionale “potrà aggirarsi sul 45%”, dunque al livello attuale.
E’ finita qui? Assolutamente no.
Intanto vi è il cosiddetto Fondo di Solidarietà tra le regioni che servirà per i 5 anni successivi al 2014 a rendere meno traumatico il passaggio al federalismo per le regioni che attualmente non hanno i conti in ordine. Il fondo verrà alimentato con una parte dei fondi di compartecipazione dell’Iva, mentre l’attribuzione dell’IVA alle Regioni sarà determinata in base ai consumi sul territorio (penalizzando le Regioni che consumano meno).
Altro punto fondamentale sono le accise su energia elettrica, benzina e prodotti petroliferi che verrano redistribuite sulla base della competenza territoriale di produzione (quindi, ad esempio la Sicilia e la Sardegna verrebbero favorite).
Ma la cosa che veramente fa capire che non si prospetta una riduzione delle tasse per i cittadini, ma anzi un aumento, è quando il provvedimento dichiara che le Regioni potranno mettere nuovi tributi regionali e locali, anche se solo su beni che non sono già tassati dallo Stato.
Quanto scommettiamo che le Regioni troveranno sicuramente un sacco di nuovi beni da tassare?
Cosa diceva questo famoso articolo 7? Che bisognava procedere ad identificazione dei fruitori delle reti wireless tramite raccolta dei dati di un documento di identità.
E qui veniamo al vulnus che rende nei fatti inutile questa norma e una maledizione a livello burocratico, tanto che nessuna altra nazione ha adottato qualcosa di simile, neanche gli USA del post Patriot Act.
Infatti, se un gestore deve tenere copia cartacea di tutti i documenti di identità si pone un grosso problema in ordine alla tenuta di simile archivio, con notevole aggravio di costi, oltre ad aumentare i passaggi burocratici (comunicazione agli enti appositi e così via); da un punto di vista pratico, inoltre, questa norma è assolutamente inutile: il gestore può solo prendere nota dei dati, ma non può verificare se i dati riportati sulla carta di identità siano veri o falsi.
Questa norma è sempre stata rinnovata anno per anno con il decreto milleproroghe, e da qui discendono alcune considerazioni.
La prima è che se una norma è transitoria, allora, per definizione, deve essere limitata nel tempo, se viene rinnovata di volta in volta sine die, allora non si parla più di norma transitoria, ma è necessario pensare una soluzione stabile e definitiva e che venga discussa in Parlamento.
La seconda considerazione è che, come detto, questa norma non ha eguali in nessun altra nazione del mondo, e le motivazioni le abbiamo menzionate: non è efficace, e appesantisce la burocrazia.
La terza considerazione, molto importante, è che a questo punto, proponendo in sede apposita la cancellazione, lo scopo, assolutamente corretto a mio avviso, è quello di porre l’accento sulla necessità di realizzare una normativa sul settore, che sia da un lato a tutela del cittadino e della sua sicurezza e dall’altro possa rilanciare il settore del Wi Fi in Italia fortemente penalizzato da una mancanza di prospettiva, e che potrebbe essere un interessantissimo volano per lo sviluppo economico e per la creazione di nuovi posti di lavoro oltre che di maggiori servizi per il cittadino.
Ovviamente il settore necessita di una regolamentazione, e proprio per questo si sta provando ad accelerare l’iter scardinando alla base la norma, in modo da avere una corsia preferenziale per la calendarizzazione alla Camera e avviare una proficua discussione nelle sedi competenti.
Pubblicato da Pier Ferdinando Casini | su: Facebook
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