Tutti i post della categoria: Esteri

Emigrazione, il governo si svegli

postato il 18 Novembre 2010

Quella della rappresentanza degli italiani all’estero è stata una grande conquista, una grande possibilità e non possiamo sprecarla. Sembra che adesso se ne sia perso il senso.
Bisogna dare grande importanza ai temi della lingua italiana, della scuola, dell’assistenza. Per questo credo che il lavoro del consiglio generale degli Italiani all’Estero vada sostenuto. Il governo si svegli!

Pier Ferdinando

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Grande emozione per la liberazione di Aung San Suu Kyi

postato il 13 Novembre 2010

La liberazione Aung San Suu Kyi segna la fine di un’epoca e pone le premesse per il superamento di un regime dispotico, che ha umiliato milioni di cittadini asiatici.
Finalmente la comunità internazionale è stata ascoltata. In particolare, bisogna riconoscere il grande impegno del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama.
I democratici cristiani di tutto il mondo, che più volte hanno chiesto la liberazione del premio Nobel, vivono questo momento con grande emozione.

Pier Ferdinando

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Immigrati, il Governo nella trappola libica

postato il 11 Novembre 2010

Corsi e ricorsi storici sulle sabbie dei deserti libici. Sembra non far eccezione questo esecutivo, che come tanti altri ha avuto a che fare con problemi legati a quella terra.

Lunedì, nel corso di un voto alla Camera sulla ratifica del Trattato di amicizia italo-libico, la maggioranza è stata battuta dal voto dell’opposizione. La mozione rimarcava ciò che l’UDC chiede a gran voce da oltre due anni, da quando cioè è stato siglato il patto tra i Roma e Tripoli: maggiori garanzie sui diritti umani dei rifugiati.

Il governo ha dapprima acconsentito, in seguito con un inspiegabile passo indietro, si è rifiutato di riconoscere l’estensione della tutela ai migranti nei confronti degli abusi libici. Sono note le vicende dei migranti che oltrepassano il confine libico da sud, per dirigersi verso la costa: coloro che scampano alle terribili condizioni ambientali del deserto, si trovano catapultati in quelle quasi peggiori dei campi di prigionia.

Nel caso degli eritrei, oltre al rimpatrio, si aggiunge la consapevolezza che il regime di Asmara ha già provveduto a punire anche i congiunti. Persino il costo economico, non solo quello umano dell’accordo è esorbitante: 180 milioni di Euro all’anno per 18 anni.

La crisi di governo si acuisce quindi su un tema fondamentale quali sono i diritti umani e che, a quanto pare, agli occhi del PDL e della Lega, non sono temi così assodati.

Anche la sponda opposta del Mediterraneo non sembra essere immune a crisi politiche. E’ in corso da tempo una battaglia politica tra ciò che è definibile la vecchia e la nuova guardia del regime: da una parte l’establishment che fa capo al primo ministro Baghdadi Ali al-Mahmudi, interessato a conservare l’attuale struttura di potere; dall’altra il figlio del leader stesso, Seifulislam Gheddafi, che con questa mossa tenta di ipotecare il potere per sé nel momento in cui si dovesse aprire la successione.

Lo scontro ha raggiunto il suo acme venerdì, quando per ordine del primo ministro, 20 giornalisti del quotidiano “al-Ghad”, critico nei confronti dell’operato del governo al punto da accusarlo di corruzione, sono stati tratti in arresto sino a domenica. Solo l’intervento di Gheddafi in persona ha sbloccato la situazione.

Suo figlio Seifulislam sponsorizza Jallud, già capo dell’esecutivo dal 1972 al 1977 ed allontanato dalla vita politica nel 1988 in seguito a dei contrasti nati con il Colonnello in occasione della strage di Lockerbie. Le ripercussioni politiche internazionali di questa lotta di potere potrebbero essere nel breve periodo irrilevanti: la struttura è infatti saldamente nelle mani della famiglia Gheddafi, che con l’esclusione di al-Mahmudi accentrerebbe ulteriormente nelle proprie mani il controllo del paese, con scarse possibilità di assistere ad un cambiamento sostanziale di politica, anche in materia di rispetto dei diritti umani.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Federico Poggianti

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Geopolitica: La Tigre ed il Dragone.

postato il 4 Novembre 2010

Il nuovo secolo molto probabilmente aprirà una pagina inedita nella storia dell’Umanità. Per la prima volta infatti, l’epicentro politico, economico e militare di un mondo dove i confini sono sempre più labili, non si troverà in una capitale europea o nordamericana, ma in Asia. E’ arrivato il momento degli astri nascenti orientali.

I presupposti per una leadership indo-cinese si stanno manifestando tutti, proporzionalmente allo sviluppo dei due colossi. Entrambi i paesi possiedono l’arma atomica: la Cina dal 1964 mentre l’India nel 1974. Mentre la Bomba cinese traeva la propria origine dalla logica imposta dalla Guerra Fredda, in qualità di alleata di Mosca, l’atomica indiana traeva la propria legittimazione dapprima dalla volontà di supremazia strategica, in seguito nella mera deterrenza del confinante Pakistan.

L’India, infatti, si dotò di armi atomiche prima del Pakistan con l’intento strategico di imporre al paese confinante una sfera di influenza coperta dal proprio ombrello atomico. Ma il programma atomico segreto pakistano mandò all’aria i piani di Delhi, poiché già nel 1982 il Pakistan possedeva cinque testate atomiche. La supremazia indiana si trasformò in deterrenza.

Lo sviluppo atomico cinese fu dettato da esigenze diverse: nei tardi anni ’50 la Cina era ancora in stretti rapporti con l’Unione Sovietica. I rapporti andarono progressivamente deteriorandosi, sino alla rottura definitiva tra maoismo e comunismo sovietico. E’ in un’ottica di affermazione della propria sfera geopolitica che nasce il programma nucleare cinese.

Oggi, la capacità atomica dei due paesi a confronto è ben differente: la Cina ha sviluppato circa 400 testate nucleari, contro le “modeste” 65 indiane; ciò peraltro riflette le differenti necessità per cui sono state sviluppate dei rispettivi governi. La convivenza dei due colossi non è stata sempre pacifica, e, a dire il vero, considerarla tale anche al giorno d’oggi è un errore.

I due paesi sono pervenuti ad una guerra aperta nel 1962, passata alla Storia come Guerra Sino-Indiana, per la demarcazione di confini ereditati dall’Impero Britannico e mai definitivamente consolidati, complice anche l’aspro territorio che separa i due stati. Le ostilità scoppiarono per il controllo dell’Aksai Chin, un altopiano desertico sito a 7000 metri d’altezza e praticamente disabitato. In ballo c’era però ben altro: lo stato federato indiano dell’Arunachal Pradesh, che confina con la Cina e che i cinesi considerano come Tibet meridionale.

La pace non è mai stata siglata, si è giunti solo ad un armistizio. Dal 2004 i cinesi hanno ripreso a premere sulla frontiera indiana di nord-est, complice anche il ritrovato feeling tra Nuova Delhi e Washington nella Guerra al terrorismo voluta dalla presidenza Bush.

Cina ed India, hanno storicamente esercitato una influenza determinante sugli innumerevoli stati di piccole dimensioni che li attorniavano. Il Paese del Drago, estende più o meno direttamente la propria influenza su tutta l’area dell’Estremo Oriente. Il caso più eclatante di questa influenza è rappresentato dalla Corea del Nord, il regime comunista al potere nel paese dal 1948, è il più fedele alleato di Pechino. Isolato dalla comunità internazionale, con un’economia al collasso ed una popolazione che risente ancora della carestia che dal 1995 ha messo il paese in ginocchio, la Cina rappresenta una sorta di “fratello maggiore” per la nomenklatura ed il popolo nord-coreano. La scheletrica economia nordcoreana si basa praticamente solo sugli aiuti che pervengono dall’estero, principalmente da Pechino. Sono proprio questi aiuti che permettono all’establishment politico, militare e burocratico di reggersi in piedi a fronte di una situazione interna che Amnesty International ed Human Right Watch giudicano tra le peggiori al mondo. In cambio, il regime nordcoreano garantisce una lealtà unica al Fratello Maggiore, arrivando a modellare il proprio interesse nazionale su quello cinese.

Altri paesi che risentono dell’espansione cinese sono quelli che storicamente si ponevano come baluardo occidentale in Estremo Oriente: Giappone, Taiwan e Corea del Sud. Il Paese del Sol Levante ha negli ultimi anni iniziato un lento ma inesorabile riavvicinamento alla Cina. Nonostante dallo scorso settembre i rapporti tra i due paesi si siano raffreddati a seguito di un incidente in acque contese, il Giappone prosegue nella direzione di voler migliorare i rapporti tra due giganti economici, affrancandosi progressivamente dall’influenza statunitense che nell’ultimo mezzo secolo ha garantito ai nipponici uno sviluppo economico a cifre doppie apparentemente inarrestabile, al prezzo di una limitazione effettiva della propria presenza geopolitica nell’area.

Con la Corea del Sud e Taiwan i rapporti restano invece più complessi: la prima infatti non ha mai siglato la pace con la Corea del Nord, mentre Taiwan (ufficialmente Repubblica di Cina), non è riconosciuta dalla Repubblica Popolare Cinese come uno stato indipendente, ma come una mera provincia ribelle. Taiwan, al termine della Lunga Marcia che portò i comunisti al potere in tutta la Cina continentale, divenne il rifugio dei nazionalisti. Sotto la protezione occidentale, ed in particolare statunitense, il governo nazionalista cinese si proclamò come unico legittimo, aprendo una crisi che prende le mosse dal 1949.

La tensione giunse al culmine allorquando i cinesi comunisti tentarono di forzare militarmente Taiwan nel 1958, non vi riuscirono, grazie in particolar modo all’aiuto militare americano.

Nel 1970, tuttavia, la Cina registrò una importante vittoria: il seggio di membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sino ad allora ricoperto da Taiwan, le fu ceduto. Oggi, sono pochi gli stati al mondo che intrattengono relazioni diplomatiche con la Cina insulare: la quasi totalità della comunità internazionale riconosce ormai come legittimo interlocutore Pechino. E’ importante però notare come gli ultimi paesi in ordine cronologico a discostarsi da Taiwan, chiudendo le relazioni diplomatiche, siano paesi in via di sviluppo, dove l’interesse per i capitali cinesi è così forte da spingere a questa scelta.

La sfera d’influenza indiana invece sembra concentrarsi sui propri confini: stati himalayani come il Nepal o il Bhutan, sono perfettamente incastonati nella corona montuosa di Nuova Delhi. Il Bhutan, piccolo regno montuoso, deve il 37% del proprio PIL agli aiuti economici indiani.

A sud, principale punto di focalizzazione dell’interesse politico è lo Sri Lanka. Dilaniato da anni di lotte civili che vedevano da una parte il governo e dall’altra i guerriglieri socialisti indipendentisti conosciuti come Tigri Tamil, il conflitto, iniziato nel 1970, è terminato con la vittoria governativa nel 2009, dopo una violenta offensiva militare che ha posto fine al controllo delle Tigri nel nord dell’isola. E’ impensabile che ciò sia potuto accadere senza un tacito accordo indiano, che vede nella guerriglia maoista particolarmente forte nello stato del Bengala Occidentale, uno dei peggiori nemici alla stabilità del paese.

Le tensioni interne che si manifestano regolarmente tanto in India quanto in Cina non sono altro che il prezzo di una crescita economica forsennata che crea inevitabilmente terribili squilibri sociali. La Cina, il cui tasso di crescita si attesta intorno al 9%, riesce ad arginare le tensioni sociali a patto che riesca a garantire una crescita annua notevole.

Ma un altro tipo di tensione cova sotto la cenere, quella etnica. Sono trascorsi due anni dall’esplosione di violenza in Tibet, seguita da quella nello Xinjiang ad opera della minoranza uigura. Pechino teme che il riconoscimento troppo ampio di culture estranee a quella Han, la maggioritaria, possa provocare un indebolimento inarrestabile del potere centrale del Partito.

In India invece, la situazione è diversa. La millenaria cultura indiana prevede una divisione sociale rigidissima, per caste. L’odierna democrazia indiana, ha acquisito questo elemento, integrandolo. Il voto è ancora diviso per caste, ma oggi, nonostante permanga la struttura, il sistema si è evoluto. La Costituzione indiana, pur tutelando fortemente i diritti delle classi più deboli, come i dalit (o intoccabili), prevedendo quote riservate ad essi in materie come l’istruzione, il lavoro ed i seggi parlamentari, ad oggi non è pienamente applicata.

Anche l’India, inoltre, non è esente da tensioni etniche e religiose: tra queste vale la pena ricordare la lotta dei seguaci sikh che ha portato all’assassinio del primo ministro Indira Ghandi nel 1984 come rappresaglia per l’operazione condotta dall’esercito indiano contro i militanti asserragliati nel luogo più sacro a questa confessione: il Tempio d’Oro. Da non dimenticare infine, le conseguenze della crescita economica. Le stime danno il PIL indiano in crescita tra il 2010 ed il 2011 dell’ 8,5%. Per alimentare una macchina che brucia tanta energia, sono necessarie enormi quantità di materie prime.

La devastazione ambientale, che ha messo in ginocchio intere popolazioni, sommandosi ai fenomeni di squilibrio sociale tipico delle economie in ascesa, hanno dato vita a tensioni in molti stati indiani. Gli slums, quartieri composti di baracche che si estendono a perdita d’occhio nelle periferie delle megalopoli indiane, sono la cicatrice che lo sviluppo incontrollato lascia sulla faccia dell’India. A poche decine di chilometri, i centri di sviluppo delle maggiori aziende hi-tech mondiali, che in questo paese trovano giovani laureati competenti ed un costo del lavoro competitivo.

Ecco il grande motore dell’India: accanto alla onnipresente Tata, che oltre a fabbricare auto, investe con l’aiuto del governo in comparti strategici come l’energia, ci sono le ditte occidentali e l’hi-tech.

Oggi, sembra che Cina ed India stiano vivendo uno sviluppo senza controllo né direzione. Vale la pena ricordare che i due paesi rappresentano 1/3 della popolazione mondiale e che si stanno affacciando alla ribalta di un mondo mai così globalizzato prima d’ora. La penetrazione cinese in Africa è la dimostrazione di quanto la necessità di approvvigionarsi di materie prime unitamente a quella di trovare nuovi mercati alternativi ad un Occidente sempre più coperto dai debiti, spingeranno i due colossi ad una gara senza tregua.

Il potenziale militare, oggi ancora secondario, assumerà presto una valenza primaria, concentrando definitivamente l’egemonia economica e militare in mano a dei paesi geograficamente e culturalmente lontani da quello che da quasi due millenni è stato considerato il centro del mondo: l’Europa. C’è da giurare che la Tigre ed il Dragone tireranno fuori di nuovo le zanne, una volta che il mondo sarà diventato troppo piccolo per contenerle entrambe.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Federico Poggianti

—–

Abbiamo voluto dar vita ad una serie di post riguardanti la politica estera. I motivi di questa volontà di approfondimento li trovate qui, nel post introduttivo.

Allego alcuni siti internet che trattano di politica internazionale e di geopolitica in maniera completa, affinché i lettori possano approfondire:

In lingua italiana, uno dei più completi:

http://temi.repubblica.it/limes/

In lingua inglese, si tratta di due periodici statunitensi specializzati in geopolitica.

Entrambi estremamente interessanti e completi:

http://www.foreignaffairs.com/

http://www.foreignpolicy.com/

Sempre in lingua inglese, il settimanale britannico di economia più famoso al mondo.

Con un occhio di riguardo allo sviluppo delle potenze emergenti:

http://www.economist.com/

In lingua francese, mensile di geopolitica del giornale Le Monde.

Si tratta di un giornale di sinistra, ma che propone sempre spunti di riflessione interessanti e profondi:

http://www.monde-diplomatique.fr/

Buona lettura!

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Scontri Italia-Serbia, solidali con la Polizia italiana

postato il 13 Ottobre 2010

Autorità serbe si assumano proprie responsabilità

Attaccare la Polizia di Stato per i comportamenti avuti ieri per la partita Italia-Serbia è completamente fuori luogo. Cosa avrebbero dovuto fare le forze dell’ordine?
E’ chiaro che il loro comportamento responsabile ha evitato una possibile carneficina.
E’ stata una pagina buia per lo sport, ma le autorità serbe devono assumersi le proprie responsabilità e non possono certo riversarle sulla parte lesa.

Pier Ferdinando

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Alpini morti in Afghanistan, il nostro abbraccio alle famiglie

postato il 12 Ottobre 2010

Dall’Afghanistan non si puo’ scappare, non usiamo ipocrisie. Oggi onoriamo i nostri eroi, facciamo sentire forte il nostro abbraccio alle famiglie dei quattro alpini morti in missione.
Poi, al più tardi nella prossima settimana, riflettiamo con serietà in Parlamento: chiediamo un dibattito ampio e sereno, ed invitiamo tutti a chiamare le cose con il proprio nome.

Pier Ferdinando

1 Commento

Missione in Afghanistan, troppe polemiche e poche riflessioni?

postato il 12 Ottobre 2010

Avevano dai 23 ai 32 anni i 4 alpini morti in Afghanistan: Sebastiano Ville, Marco Pedone, Francesco Vannozzi, Gianmarco Manca. Quattro esistenze spezzate: progetti, speranze per il futuro, sogni e obiettivi saltati in aria all’improvviso come i loro corpi su quell’ordigno che il blindato Lince non è riuscito a rendere inoffensivo. [Continua a leggere]

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Afghanistan, il governo formuli la sua proposta in Parlamento

postato il 11 Ottobre 2010

Se il governo vuole armare gli aerei con le bombe in Afghanistan deve formulare una sua proposta in Parlamento, perché questo significherebbe cambiare le modalità di impiego in quel Paese.
Abbiamo sempre espresso al governo il nostro sostegno quando si è trattato di missioni di pace, per le quali ben sappiamo che talvolta è inevitabile il ricorso alla forza. Lo abbiamo fatto con Prodi, lo abbiamo fatto con Berlusconi. C’è un dovere di responsabilità nazionale, ma è il governo che deve decidere quale proposta fare in Parlamento. In democrazia la confusione è sbagliata ed autolesionista.
La situazione in Afghanistan è figlia di grandi contraddizioni, per responsabilità di Karzai ma anche dell’amministrazione Usa, che ha annunciato date di ritiro in modo improprio, generando confusione. Tutto cio’ non è a mio avviso estraneo alla escalation di violenza che si sta verificando. [Continua a leggere]

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Ricordiamoci della nostra missione in Afghanistan tutti i giorni dell’anno

postato il 10 Ottobre 2010

afghanistan-in pattuglia di ivmontisAlle Famiglie delle Vittime, al 7o Reggimento Alpini va il nostro cordoglio.

Su le nude rocce, sui perenni ghiacciai,
su ogni balza delle Alpi ove la provvidenza
ci ha posto a baluardo fedele delle nostre
contrade, noi, purificati dal dovere
pericolosamente compiuto,
eleviamo l’animo a Te, o Signore, che proteggi
le nostre mamme, le nostre spose,
i nostri figli e fratelli lontani, e
ci aiuti ad essere degni delle glorie
dei nostri avi.
Dio onnipotente, che governi tutti gli elementi,
salva noi, armati come siamo di fede e di amore.
Salvaci dal gelo implacabile, dai vortici della
tormenta, dall’impeto della valanga,
fa che il nostro piede posi sicuro
sulle creste vertiginose, su le diritte pareti,
oltre i crepacci insidiosi,
rendi forti le nostre armi contro chiunque
minacci la nostra Patria, la nostra Bandiera,
la nostra millenaria civiltà cristiana.
E Tu, Madre di Dio, candida più della neve,
Tu che hai conosciuto e raccolto
ogni sofferenza e ogni sacrificio
di tutti gli Alpini caduti,
tu che conosci e raccogli ogni anelito
e ogni speranza
di tutti gli Alpini vivi ed in armi.
Tu benedici e sorridi ai nostri Battaglioni
e ai nostri Gruppi.
Così sia.”

Oggi è un giorno di lutto.

Nell’adempimento del proprio dovere il nostro contingente ha perso quattro alpini. Le vittime sono i primi caporalmaggiori Francesco Vannozzi, Gianmarco Manca, Sebastiano Ville ed il caporalmaggiore Marco Pedone. Un quinto alpino è rimasto ferito: si tratta del caporalmaggiore scelto Luca Cornacchia; per fortuna non è in pericolo di vita. E’ l’ennesima tragedia che si consuma in Afghanistan ai danni dei nostri militari, la più grave per numero di vittime dal Settembre 2009, quando rimasero sul campo sei italiani.

L’agguato è avvenuto in una delle zone più turbolente del paese, nel distretto del Gulistan. I militari stavano scortando un convoglio composto da circa settanta camion quando, alle 9.45 locali (7.45 ora di Roma), il convoglio è stato attaccato con armi leggere da un gruppo di guerriglieri talebani. Nel deviare dalla strada in cui era in corso l’imboscata per cercare di disingaggiare il nemico, il mezzo su cui viaggiavano i militari è stato investito da una terribile esplosione, che ha letteralmente disintegrato il blindato. L’attacco è stato quindi respinto ed i talebani costretti alla fuga.

Non è chiaro che tipo di ordigno sia stato utilizzato per l’attacco. Si penserebbe ad uno “Ied” (improvised explosive device – un ordigno improvvisato nascosto ai bordi della strada). L’ipotesi non è scontata, poiché i blindati Lince erano stati modificati e pesantemente corazzati dopo gli attacchi subiti negli anni passati che ne avevano messo in luce la vulnerabilità ad attacchi provenienti da sotto di essi. In tal caso si sarebbe trattato di un ordigno a pressione od con innesco mediante cavo, in quanto i nostri mezzi sono dotati di disturbatori radio, che conteneva almeno cento kilogrammi di esplosivo.

Si fa strada un’altra ipotesi, ben peggiore. Si potrebbe infatti pensare anche ad un altro tipo di esplosivo, a carica cava, con una maggiore capacità di penetrazione laterale. Questo tipo di bombe, conosciute con l’acronimo “Efp” (explosively formed projectile) non sarebbero di fabbricazione talebana. E’ richiesto infatti un grado di tecnologia di cui i guerriglieri non dispongono; è possibile quindi che questi ordigni siano prodotti in Iran.

Divampano le polemiche in Patria per l’accaduto. Si torna a gran voce a chiedere il disimpegno immediato dei nostri militari, in particolar modo da parte di esponenti dell’Italia dei Valori e di Sinistra Ecologia e Libertà. Il Ministro della Difesa La Russa chiederà al Parlamento la possibilità di inviare più elicotteri per alleggerire la presenza di convogli terrestri e di munire i nostri aerei AMX di bombe.

Il governo si affretta a ricordare i termini dell’impegno, che scadranno nel 2011, per cercare di placare una opinione pubblica sempre più insofferente.

La partita nello scacchiere si è terribilmente complicata dal 2001 ad oggi. In Afghanistan non disponiamo di alcuna opzione politica o strategica convincente. I talebani, dopo la rocambolesca ritirata, si sono nel corso degli anni riorganizzati nelle montagne al confine tra Pakistan ed Afghanistan. Lì hanno trovato terreno fertile tra i Pasthun: essi vivono secondo codici tribali particolarmente rigidi, su cui la dottrina islamica radicale ha fatto rapidamente presa; sono inoltre la tribù più numerosa in Afghanistan.

Il Pakistan, che con Musharraf si era schierato a fianco della missione NATO (convinto anche dai miliardi di dollari che piovevano sul suo paese sotto forma di aiuti militari), iniziò dapprima una blanda guerra contro queste tribù di confine, intensificata a tratti quando le pressioni statunitensi si facevano più insistenti. Il generale Musharraf infatti stava combattendo una guerra interna contro i propri servizi segreti, gli stessi che hanno addestrato i talebani, e che in Pakistan sono estremamente influenti. La sua deposizione ha aperto una voragine politica, senza un leader in grado di mantenere salde le redini del comando militare in un paese che assomiglia ad una polveriera pronta ad esplodere. Infine, per tornare a Kabul, l’attuale governo si dimostra debole, con scarso controllo del territorio e lontano dalla legittimazione popolare che potrebbe garantirne la stabilità.

Il termine della missione, coerentemente con quanto sostiene anche il presidente Obama, dovrebbe avvenire gradualmente a partire dal 2011. La grave situazione che si sta delineando in quel tormentato angolo del globo, esige che ci si affidi per i tempi tecnici richiesti dal disimpegno ai nostri generali.

In questo caso, i proclami politici di un ritiro immediato risultano dannosi: non possiamo permetterci di abbandonare Kabul in una disordinata rotta che ricorda quella americana di Saigon. Creare in così poco tempo le condizioni per una stabilità credo sia molto difficile, in particolar modo con le scarse opzioni politiche che la NATO ha dinnanzi.

Nel frattempo, dopo ormai quasi dieci anni di combattimenti (ed è inutile nasconderci che di questo si tratta), c’è da prendere coscienza di una situazione che de facto richiede l’utilizzo di mezzi adeguati a far fronte alle necessità dei nostri soldati che operano sul campo, nella speranza magari ingenua, ma certamente sincera, che tragedie come questa, non si ripetano.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Federico Poggianti

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Non si parli di ritiro, ma è urgente una messa a punto complessiva

postato il 10 Ottobre 2010

«II governo in Aula spieghi come intende procedere»

Pubblichiamo l’intervista a Pier Ferdinando Casini su Avvenire’ di Giovanni Grasso

L’ Italia «sta pagando un pesante e dolorosissimo tributo di sangue per una causa giusta. Non è in discussione il nostro impegno in Afghanistan, ma occorre una seria riflessione sulle modalità». Il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini si dice «addolorato» per la morte dei quattro alpini, ma anche «preoccupato» per la piega che sta prendendo l’intervento militare in quel tormentato Paese. E, in questa intervista, spiega: «Siamo in Afghanistan per una causa giusta: l’impegno a fianco degli alleati contro il terrorismo e per l’ Afghanistan libero non è e non può essere messo in discussione. Ma occorre riflettere sulle modalità e sull’efficacia di questo impegno, alla luce di quanto sta accadendo».

Qual è dunque il suo parere riguardo alla permanenza dei nostri militari a Kabul?
È urgente rimettere la questione afghana al centro dell’agenda politica nazionale. Non possiamo ricordarci del tema solo quando accadono tragiche vicende ai nostri ragazzi. [Continua a leggere]

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