Tutti i post della categoria: Economia

L’assegnazione delle frequenze del digitale terrestre è molto di più di una questione economica

postato il 21 Gennaio 2011

La battaglia per le frequenze del digitale terrestre non è solo una battaglia economica per vendere delle frequenze televisive e fare incassare allo Stato dei soldi (per la precisione si prevede un incasso di circa 2,4 miliardi di euro); è soprattutto una battaglia di diritti e trasparenza, e soprattutto una battaglia per determinare il futuro della televisione italiana che è così importante nelle nostre vite (basti pensare all’intrattenimento, ai modelli culturali, all’informazione che veicola la televisione).

Il ministro Romani ha assicurato che entro breve tempo si concluderà la vendita delle frequenze televisive legate al digitale terrestre, eppure la vicenda si trascina da mesi. Perché?

La gara è stata ripetutamente bloccata, dalle obiezioni sollevate in questi mesi dal ministro Romani sulla partecipazione di Sky all’asta, infatti lo scorso luglio la Commissione Europea aveva autorizzato Sky Italia a partecipare alla gara (beauty contest), ma Romani, allora vice ministro, aveva ipotizzato l’esistenza di una norma italiana che, in presenza di determinate condizioni, vieta il controllo del capitale di un operatore di rete televisiva da parte di un soggetto extra-comunitario. Volendo fare una battuta, potremmo dire che anche alle frequenze televisive serve il permesso di soggiorno, anche se per certi programmi servirebbe “il permesso del buon gusto”; ma torniamo sull’argomento centrale.

Avuto l’OK della Commissione Europea si poteva ipotizzare che la procedura si velocizzasse, invece no, perchè Romani decide di rivolgersi al tribunale amministrativo per un altro parere legale; ma il 20 dicembre la richiesta è rigettata, con la motivazione che il quesito era stato posto male e in maniera troppo generica. A questo punto, forte del parere della UE e senza problemi giuridici in vista, ci si aspetterebe il via libera alla gara, ma il ministro Romani decide di rivolgersi nuovamente al Consiglio di Stato, questa volta facendo bene i compitini e ponendo un quesito ben circostanziato. Secondo Romani, il parere arriverà tra 30 giorni circa, poi si procederà alla gara e per fine Aprile si assegneranno le frequenze.

C’è chi sostiene che tale scrupolo legale da parte del ministro Romani sia da ricercare nel fatto che chi maggiormente si è espresso contro la partecipazione di Sky sia appunto il gruppo televisivo Mediaset controllato dalla Finivest del presidente Berlusconi; a queste ipotesi il ministero risponde che la motivazione è quella di “evitare di esporre la gara ad una serie di ricorsi”.

Al di là di queste considerazioni se si va a considerare i dati Auditel degli ultimi 4 anni, pubblicati da Antonio Genna si osserva come il panorama televisivo stia cambiando, la presenza di Sky è cresciuta e che il digitale terrestre ha spezzettato gli ascolti danneggiando principalmente le “Ammiraglie” di Mediaset e Rai, come si osserva dal semplice sotto:

Ma il punto fondamentale è che se il governo italiano continua con questa “melina” giuridica, rischia una guerra commerciale con gli USA (SKY, che ha già lamentato forti penalizzazioni da parte del governo italiano è americana) e delle multe dalla UE perchè rallentiamo la libera concorrenza, per di più non si capisce perché queste obiezioni non siano sollevate anche in altri campi e altri operatori come Wind.

Su tutta questa vicenda, l’on. Rao, che già in passato era stato testimonial di punta nella battaglia per la liberalizzazione del WI FI ha affermato che frenare un operatore commerciale come Sky significa mettere a rischio investimenti, ma soprattutto, penalizzare i consumatori e che bisogna garantire leale concorrenza nel settore informativo.

Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

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100% Made in Italy, il fattore umano dell’impresa, il federalismo: la parola a Confartigianato

postato il 21 Gennaio 2011

La redazione del blog pierferdinandocasini.it intervista quest’oggi il Presidente Nazionale del gruppo Alimentari Vari di Confartigianato, dott. Mauro Cornioli che ringraziamo per la disponibilità.

Il suo settore come sta vivendo la crisi internazionale di questi anni?

Nonostante la crisi finanziaria, posso affermare che il settore alimentare si sta comportando molto bene. Consideri inoltre che la piccola impresa si difende meglio perché realizza un prodotto tipico di una determinata zona, che da un lato non è facilmente omologabile o replicabile altrove, e dall’altro si presta bene anche ad essere esportato quando è un prodotto di qualità.

D’altro canto mi sembra che, nello specifico della sua azienda, il settore erboristico ha vissuto con la globalizzazione e l’import-export con i paesi orientali come ad esempio la Cina, e quindi siete “abituati” a confrontarvi con il Mondo.

Indubbiamente si. Basti pensare a Marco Polo e alla “via della seta” con la Cina su cui transitavano anche spezie e piante officinali. Si importavano prodotti 500 anni fa dalla Cina, si importava dalla Cina 100 anni fa, si continua ad importare dalla Cina anche adesso.

Oggi però vi sono stati alcuni cambiamenti: alcuni prodotti che venivano importati dalla Cina, ad esempio, ora sono importati dall’Est Europa, e certe merci importate dall’Est Europa sono di nuovo prodotte in Italia e poi esportate. Ma questo non è l’unico mutamento.

Un cambiamento molto importante, e che premia l’economia italiana, proviene dal rialzo del costo della manodopera cinese a seguito della crescita di questo paese e il risultato è una crescente difficoltà per i cinesi nei settori dove è preponderante appunto il costo della manodopera.

In molti si lamentano della scarsa capacità competitiva dell’Italia, per migliorare questa situazione, lei cosa farebbe?

E’ importante ripristinare la verità rispetto alla confusione che impera attualmente. Per fare un esempio: una etichettatura trasparente sarebbe molto importante. Ci sono le intenzioni, ma poi queste ultime non si traducono in fatti. La legge Reguzzoni – Versace sul Made in Italy che fine ha fatto? E’ una vergogna che la legge, anche se approvata, sia sparita perchè i decreti attuativi non sono stati fatti. Come vede ci sono buoni slanci, ma poi ci si ferma. E questo non è possibile

Lei cosa suggerisce a tal proposito?

Non mettiamo i dazi, ma trovo che sia una vergogna che i paesi del Nord Europa dicano che l’Italia, paese con una grande tradizione manifatturiera ed estremamente competitivo in termini di manualità, di idee e di inventiva, non possa proteggere il Made in Italy. Il consumatore deve essere informato e deve essere certo che contenuto ha quel prodotto, perché, se vuole un prodotto italiano, deve sapere come e dove è stato prodotto, come diceva le legge Reguzzoni – Versace.

Quindi mi sembra di capire che lei sostenga che la legge Reguzzoni – Versace avrebbe permesso di distinguere tra un prodotto etichettato Made In Italy, ma che di italiano ha solo il passaggio finale e che magari è prodotto altrove, ed un prodotto che è fatto interamente in Italia.

La legge Reguzzoni – Versace cosa diceva? Dava forza ad un nuovo marchio che era culturalmente forte e vincente, ovvero il marchio “100% made in Italy”, così il consumatore sapeva che il marchio “Made in Italy” poteva indicare anche un prodotto che in parte era fatto anche in Cina, mentre il marchio “100% Made In Italy” indicava un prodotto fatto interamente in Italia, tutti così sarebbero stati coscienti di quel che compravano. La piccola impresa che produce esclusivamente in Italia, sarebbe stata premiata.

A proposito di grandi imprese: in questi giorni vi è stato il “referendum” di Mirafiori. A mente fredda, lei che impressione ha avuto dell’intera vicenda?

In questo momento il sindacato deve svincolarsi dal difendere chi fa assenze ingiustificate o chi non comprende l’importanza di essere altamente produttivi. Ecco, se il sindacato continua questa difesa, allora sbaglia.

Ma sbaglia anche Marchionne, perchè non si possono buttare via 60 anni di relazioni in 5 minuti. La trattativa doveva essere gestita meglio e la vittoria è stata sofferta. Per altro nessuno ha parlato della cosa più grave che è successa, ovvero che la Fiat è uscita da Confindustria.

Scusi, potrebbe esplicitare meglio questo suo concetto su Confindustria e Fiat?

Io mi chiedo: cosa farà ora Confindustria senza la Fiat? E le altre imprese resteranno in Confindustria o anche loro se ne usciranno? Lo stile Fiat diventerà un modello per tutti ? Anche perchè bisogna vedere cosa decide di fare la Confindustria che è pur sempre uno dei maggiori sindacati datoriali, inteso come sindacato dei datori di lavoro. Bisogna vedere, infatti, se manterrà un concetto etico fondato sulle relazioni sindacali e il confrontro con lo Stato o se deciderà di raggiungere Fiat nelle sue scelte di rottura. Inoltre si apre un altro quesito molto importante: considerando che all’interno di Confindustria vi sono aziende a partecipazione statale (le ferrovie, Finmeccanica, Enel, Eni per citarne alcune), è giusto che lo Stato paghi Confindustria seppur attraverso il constributo associativo? O questo non genera un conflitto di interessi visto che, senza Fiat, cresce il peso dello Stato all’interno di Confindustria che a sua volta dovrebbe confrontarsi con il governo sui temi lavorativi? Ecco, queste sono domande importanti a cui bisognerebe dare risposta, ma che sembrano non trovare posto nel dibattito odierno.

Sostanzialmente lei afferma che vi è il rischio che in Confindustria restino solo le aziende a partecipazione statale o che quanto meno abbiano un peso preponderante; e considerando che queste stesse aziende pagano un grosso contributo associativo a Confindustria, si potrebbe prefigurare una sorta di conflitto di interessi, giusto?

Assolutamente si, anzi vi è anche una concorrenza sleale verso le altre associazioni datoriali, come Confartigianato, CNA, Confcommercio, e così via, che per essere più forti hanno dato vita a Rete Imprese per porsi come quarta gamba del tavolo nelle trattative. Però noi viviamo solo delle quote associative pagate dalle piccole imprese totalmente private, mentre Confindustria, come detto, ha anche questo contributo da parte delle aziende a partecipazione statale.

A proposito di Rete Impresa, Guerrini, il presidente dell’associazione, ha parlato del rischio che il federalismo fiscale porti nuove tasse alla piccola impresa. Lei che ne pensa?

Consideri che la fiscalità generale è rimasta elevata, e in più sono stati aggiunti in questi anni, tutta una serie di balzelli locali anche in ossequio a direttive europee, come quella per i controlli sui prodotti alimentari attuata dalle ASL ad esempio. E qui mi chiedo: il federalismo fiscale non è che porterà nuove tasse a livello comunale, provinciale, regionale? Tenga presente che il piccolo imprenditore non ha usufruito dello scudo fiscale, perchè la grandissima maggioranza delle piccole imprese pagano regolarmente le tasse. Noi vogliamo vedere, ad esempio, come si svilupperò il discorso sugli studi di settore e il redditometro, che può anche essere utile nella lotta all’evasione. In questo momento bisognerebbe tutelare davvero la piccola impresa che fa fatica a chiudere i bilanci, anzi capita che vi è gente che lavora anche in perdita pur di ammortizzare i costi fissi.

Per finire mi piacerebbe un suo giudizio sul ruolo delle banche in Italia. Verso gli istituti di credito vi è un rapporto ambivalente da parte del grande pubblico: da un lato si chiede rigore agli istituti di credito per evitare che possano esservi fallimenti come è accaduto negli USA, dall’altro si chiede maggiore elasticità verso il credito alle famiglie e alle imprese. Lei da imprenditore, sente le banche italiane come amiche o pensa che sono “fredde” verso il sistema produttivo e le sue esigenze?

Questo inseguire il modello americano, non è l’ideale, perchè il modello anglosassone ha prodotto la crisi, di contro il sistema bancario italiano, con le sue particolarità si è difeso meglio: grazie all’aver evitato di concedere credito facile garantendosi sempre della capacità di rimborso, sul credito al consumo, su investimenti rischiosi. Però il sistema bancario italiano ha perso il rapporto che aveva prima con l’imprenditore. Troppa attenzione ai bilanci e poca verso l’imprenditore, verso la famiglia, verso le persone .

Bisogna recuperare la dimensione dei valori, dove è necessario mantenere l’attenzione ai bilanci delle piccole imprese, ma poi la banca deve anche valutare il passato e le prospettive future dell’imprenditore. Un imprenditore che magari non ha il bilancio in attivo, ma che investe nella propria impresa, dove la famiglia intera partecipa all’attività imprenditoriale , è un imprenditore che meriterebbe di essere aiutato. Bisogna recuperare il rapporto umano tra l’imprenditore e la banca.

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Mirafiori e la mancanza di progettualità della politica

postato il 18 Gennaio 2011

Fiumi di parole e d’inchiostro si sono spesi, giustamente, per la vicenda di Mirafiori tra chi sosteneva le ragioni della Fiom e chi celebrava l’astro Marchionne e il suo “metodo”. Eppure in questo turbine di parole e di pensieri è mancata quasi completamente la voce rassicurante della politica che invece ha preferito mantenere un basso profilo, rimanendo alla finestra forse temendo di essere stritolata tra i meccanismi della catena di montaggio. Ma il silenzio assordante della politica, a parte qualche timida dichiarazione o apparizione a Mirafiori, è un indice assolutamente negativo.

Ha argomentato acutamente questa latitanza della politica Enrico Cisnetto, che qualche giorno fa sul Il Foglio non ha solamente rilevato questa assenza della classe politica ma anche la mancanza di un piano di politica industriale e dunque di un più generale “piano Paese”. A tal proposito Cisnetto ha sfatato la comune equazione tra il cosiddetto “metodo Marchionne” e il modello di sviluppo tedesco che è ascrivibile unicamente ad una politica responsabile e coraggiosa che pur di salvare l’economia e lo sviluppo tedesco non ha avuto paura di scelte impopolari (che a Gerhard Schröder sono costati la poltrona di Cancelliere) e di mettere da parte interessi di bottega per lavorare unita (la Grande Coalizione tra Spd e Cdu) alla ripresa. Ad oggi la Germania di Angela Merkel, continua Cisnetto, ha messo le premesse, una volta passata la recessione, per diventare la prima economia europea. Mentre in Germania i cancellieri che si sono avvicendati e la politica tutta hanno lavorato alacremente per garantire un futuro a tutti i tedeschi, nella nostra Italia la classe politica non è solo afona rispetto a temi di capitale importanza, ma resta incomprensibilmente impantanata nei problemi politici e giudiziari del Presidente del Consiglio.

La politica in Italia non deve solamente tornare a parlare, ma deve soprattutto rimboccarsi le maniche cominciando, sempre che non sia troppo tardi, a delineare un vero e proprio “piano Paese” dove si ragioni e si guardi al futuro magari cominciando a liberalizzare il sistema dei servizi e a rafforzare l’infrastrutture materiali e immateriali (trasporti, logistica, centrali nucleari e banda larga in primis). E considerato che tutte queste cose costano, la politica, uscita finalmente dall’apofatismo, dovrebbe mettere mano seriamente alle riforme  e – pensioni, sanità, decentramento, intervento una tantum sul debito pubblico – che ci possono creare quei margini di spesa che oggi non abbiamo.

Il ritorno della politica, della progettualità della politica è l’unica risposta che c’è al declino ed è l’unico modo che la classe dirigente di questo Paese ha per tornare ad unire i lavoratori che a Mirafiori si sono divisi.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Referendum Fiat, risultato di grande saggezza

postato il 15 Gennaio 2011

Il risultato del referendum di Mirafiori segnala grande saggezza da parte degli operai della Fiat. Ma emerge anche un messaggio rivolto all’azienda e a Marchionne: non tirate troppo la corda, perché stiamo facendo sacrifici pesanti.

Pier Ferdinando

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Referendum Fiat, rispettare la volontà dei lavoratori

postato il 11 Gennaio 2011

L’amministratore delegato della Fiat Marchionne non è un santo, ma oggi il fatto di evitare che gli investimenti scappino all’estero è una grande questione sociale e politica che riguarda tutti, la sinistra e la destra. Mi colpisce molto sentire che c’è qualcuno che ritiene che non si debba prendere atto del risultato del referendum di Mirafiori, perché credo che rispettare la volontà dei lavoratori sia sacrosanto.

Pier Ferdinando

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Non siamo un problema, siamo la soluzione

postato il 23 Dicembre 2010

Pubblichiamo l’intervista a Pier Ferdinando Casini su ‘Liberal’ di Vincenzo Faccioli Pintozzi

Il Polo della Nazione nasce in un momento estremamente difficile per l’Italia, caratterizzato da una crisi economica e politica. Ha suscitato tante attese, ma anche più di un’obiezione. Per rispondere alle une e alle altre interviene Pier Ferdinando Casini, leader dell’Unione di Centro, che in un’intervista a Liberal spiega genesi e obiettivi della nuova formazione politica.

Presidente Casini, come è nata l’avventura di questo nuovo Polo?
Il Polo della Nazione nasce non per dividere il Paese, come hanno finora fatto destra e sinistra, ma per unirlo. Abbiamo bisogno di uno sforzo di unità nazionale se vogliamo uscire da una crisi che non è soltanto economica, ma anche, e forse, soprattutto politica e morale. Per farlo dobbiamo liberarci dal giogo della scelta secca tra le proposte fino ad ora presentate dal Popolo delle libertà e dal Partito democratico, che si sono dimostrate fallimentari. A noi interessa parlare degli italiani e dei loro problemi e lanciare un messaggio di pacificazione nazionale. [Continua a leggere]

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Pier Ferdinando Casini ospite di ‘Radio Anch’io’

postato il 21 Dicembre 2010

Ospite di ‘Radio Anch’io’, Pier Ferdinando Casini risponde alle domande  del direttore de ‘Il Sole 24 Ore’ Gianni Riotta, del direttore di ‘Libero’ Maurizio Belpietro e dei radioascoltatori sui principali temi di ’attualità politica: dal futuro della legislatura, al sostegno sollecitato dal premier Berlusconi dopo la nuova fiducia, dalle proteste studentesche contro la riforma dell’Università, alla crisi internazionale.

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Per l’OCSE la pressione fiscale sale e per i giovani non ci sono buone notizie

postato il 16 Dicembre 2010

L’OCSE ha pubblicato uno studio dal quale si evince che la pressione fiscale in Italia è elevatissima, pari al 43,5% del PIL (l’anno precedente era al 43,3%), che ci colloca al terzo posto nel mondo. Questo rapporto contraddice palesemente quanto era stato promesso dal governo, ovvero diminuire la pressione fiscale.

A giugno di questo stesso anno, avevamo denunciato che la pressione fiscale in Italia andava aumentando e non certo diminuendo come vuole fare credere certa propaganda, e lo avevamo fatto citando fatti e non parole vuote. Già all’inizio dell’estate, infatti, avevamo dato grande attenzione agli studi del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, i quali avevano rilevato che eravamo primi per la pressione fiscale come affermava Claudio Siciliotti, Presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, andando ben oltre i valori rilevati dall’OCSE, infatti, se consideriamo la pressione fiscale sulla sola componente del Pil che le imposte le paga per davvero, ossia sulla componente depurata della quota stimata di economia sommersa, si vede chiaramente come la pressione fiscale ”reale” in Italia sia superiore: 51,6% nel 2009 rispetto al 50,8% nel 2008, e quindi ben al di sopra del risultato rilevato dall’OCSE (pari al 43,5%).

Come mai questa divergenza tra i dati dell’OCSE e i dati del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti?

Questa differenza è legata alla componente di economia sommersa stimata in Italia, che e’ percentualmente piu’ rilevante di quella di tutti gli altri Paesi europei, esclusa la sola Grecia; in concreto significa che a causa dell’evasione e del sommerso i lavoratori onesti pagano molto di più, e l’indice della pressione fiscale ”reale” cresce significativamente di piu’ di quello che accade con riferimento ad altri Paesi.

A conferma di quanto affermato, possiamo anche citare uno studio della CGIA di Mestre che affermava la stessa cosa e che quantificava il sommerso in Italia pari a 250 miliardi di euro nel 2009.

Quando abbiamo dato grande risalto a questi dati, all’inizio dell’estate, ci augurammo che il governo non li sottovalutasse, ma anzi intervenisse al più presto, purtroppo la nostra speranza è stata disattesa. Oggi non solo vediamo confermati i nostri timori dallo studio dell’OCSE, ma questo stesso studio getta una luce sinsitra sul futuro dell’Italia, perchè denuncia la situazione gravissima in cui versano i giovani e il mondo del lavoro: l’Italia è al penultimo posto tra i 33 Paesi membri per quanto riguarda il tasso dell’occupazione giovanile. Se guardiamo le cifre, osserviamo che in Italia solo il 21,7% dei giovani tra i 15 e i 24 anni è occupato, contro una media Ocse del 40,2%.

E non è tutto, perchè l’Italia ha anche il minor tasso di occupati tra i giovani laureati e la maggior percentuale di giovani «falsi autonomi»: infatti nel 2008 circa il 10% dei giovani occupati italiani risultava autonomo ma senza dipendenti, contro una media del 3% nell’Ue. Che significa “falso autonomo”? Sostanzialmente che è sempre più diffuso il caso in cui aziende assumono giovani ma li costringono ad aprirsi la partita iva, in tal modo l’azienda non ha obblighi verso il giovane, ma anzi può scaricarlo in ogni momento. Tra gli occupati inoltre, riporta ancora lo studio, il 44,4% ha un impiego precario, e il 18,8% lavora part time.

Sono cifre allarmanti, che ci fanno temere per il futuro dell’Italia: sia perchè i giovani sono il futuro, sia perchè se non si da una scossa al mondo del lavoro, sono a rischio anche i conti pubblici dell’Italia stessa. Serve quindi che il governo adesso agisca, proponendo delle riforme concrete e una seria e credibile politica economica e del lavoro.

Flessibilità e svecchiare il mondo del lavoro si, ma senza che questo diventi sfruttamento.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Caterina Catanese

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Tirrenia di Navigazione, gli sviluppi

postato il 23 Novembre 2010

La vicenda della Tirrenia e della sua privatizzazione si arrichisce di nuovi sviluppi e forse siamo arrivati alle battute finali. I conti della Tirrenia sono  in profondo rosso a causa della scriteriata gestione degli anni passati: abbiamo detto delle 6 navi  acquistate anni fa e mai messe in mare nonostante siano costate complessivamente 300 milioni di euro perchè o consumano troppo o addirittura hanno una navigazione difficile con mare agitato; abbiamo detto che chi acquistava Tirrenia lo faceva con la garanzia di  72,6 milioni di aiuti pubblici l’anno per otto anni per Tirrenia e 55,6 (per 12 anni) per Siremar (sempre del gruppo Tirrenia); abbiamo detto di come, al momento del bando di vendita, alla fine nessun acquirente avesse chiuso la trattativa con lo Stato.

Chiusa quindi il primo tentativo di vendita con un nulla di fatto, il governo italiano ha deciso di tentare nuovamente la vendita della Tirrenia, anche perchè obbligato dalla UE.

Di questo nuovo bando non si sa nulla, se non quello che è trapelato da qualche intervista fatta a chi vorrebbe partecipare. Ma andiamo con ordine.

Intanto per rendere il piatto più appetibile, il governo ha diviso Tirrenia Viaggi da Siremar di cui ha dichiarato lo stato di insolvenzaseppure il Governo avesse dichiarato che non ci sarebbe stato il famoso “spezzatino”,  la divisione delle società (magari facendo come con Alitalia, ovvero vendendo ai privati la parte buona, tenendo per lo Stato i debiti)riproponendo la vendita per la sola Tirrenia.

Il governo ha fatto partire la nuova procedura di vendita, affidandola alla banca d’affari Rotschild, la medesima che nel 2008 aveva valutato Alitalia.

Ovviamente in questo non c’è nulla di male, non sono molte le banche d’affari e gli advisor internazionali che possono gestire una operazione di queste dimensioni, ma suona strano che ti questa nuova vendita non si conosca nessun particolare o condizione di vendita, se non che le offerte dovranno pervenire a gennaio dopo 6 settimane durante le quali i possibili acquirenti potranno studiare i conti della Tirrenia.

Intanto l’armatore italo-svizzero Gianluigi Aponte, afferma che intende partecipare alla gara tramite la compagnia Grandi Navi Veloci, di cui ha appena acquisito il 50% con la MSC e darà vita al nuovo marchio Gnv-Snav. Aponte, assieme a ad altri due armatori italiani molto noti, Grimaldi e Onorato, darà vita ad una newco che sarà guidata dal manager Ettore Morace, e si chiamerà Compagnia Italiana e avrà lo scopo, tra le altre cose, di acquisire la Tirrenia.

Il nome della newco, richiama alla mente la CAI di Colaninno che ha rilevato la vecchia Alitalia. Sarà un caso, o forse no, che Aponte era inizialmente azionista della stessa CAI e poi è uscito dall’azionariato.

Aponte ha dichiarato che parteciperà alla gara per Tirrenia, perchè “i debiti statali se li accollerà lo Stato”.

Quindi, dalle parole di Aponte, si desume che la nuova vendita di Tirrenia potrebbe essere l’ennesimo regalo che il generosissimo governo Berlusconi sta facendo a spese degli italiani, perchè in pratica ai cittadini resterà da pagare il salatissimo conto dei debiti della Tirrenia, che ammontano a circa 3 miliardi di euro, mentre la parte profittevole verrà ceduta. Ovviamente a nostre spese.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzanti

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Marcegaglia e Bonanni dialogano all’Assemblea “-promesse +Nord” dell’UDC

postato il 20 Novembre 2010

I temi dell’economia tornano al centro del dibattito politico, rilanciati dai segnali davvero preoccupanti che provengono dal mondo produttivo: le imprese hanno il fiato corto, cala l’occupazione (380 mila unità in meno dal 2008 al 2009), gli investimenti crollano.

Nel pieno di una crisi che sta cambiando pelle ma che non ci ha ancora lasciato, il Nord produttivo del Paese soffre: con le sue aziende in liquidazione, le sue cattedrali della produzione della ricchezza costrette a tagliare dipendenti e forza lavoro. Dobbiamo constatare, seppur malvolentieri, che nessun territorio, nessuna comunità socioeconomica è immune dalla virulenza di questa crisi. A coloro che hanno a cuore la crescita del Paese preme che si riparta da qui: i centri produttivi del Nord, Milano, Torino, l’ex-locomotiva del Nord-Est hanno bisogno di risposte chiare, perché la “ripartenza” a cui si punta rappresenta a ben vedere la via d’uscita più convincente.

Responsabilità è la parola chiave. La rilancia in modo deciso il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che dialoga con il segretario della CISL Raffaele Bonanni, in un’affollatissima assemblea UDC dall’emblematico  titolo “-promesse, +Nord, per far ripartire l’Italia”, in corso in queste ore a Milano. Il leader degli industriali chiede alla politica un’attenzione puntuale alle questioni economiche, lasciando da parte l’interesse di facciata che tanta classe dirigente rivolge all’Italia che produce, in attesa di politiche economiche robuste.

Si parte dall’assunto che la politica ha un grande ruolo: può decidere le sorti della crescita di un Paese, legiferando pro o contro quella spina dorsale di piccole e medie imprese che ci  ha permesso di stare tra i grandi del mondo e che oggi si ritrova nella più grande incertezza, proprio nel momento più difficile. E l’incertezza si risolve con “un disegno politico serio”, per dirla con Emma Marcegaglia, e Raffaele Bonanni sottoscrive, soffermandosi sul ruolo del sindacato nei rapporti capitale-lavoro (il caso FIAT, rievocato dai due protagonisti dell’incontro, è emblematico, Bonanni critico, la Marcegaglia più comprensiva).

E parlando di lavoro è il tema della detassazione a tenere banco: il mondo sindacale ci ricorda che in Italia la pressione fiscale è ancora troppo pesante, mentre ancora libere da ogni imposizione sono le rendite finanziarie, come i guadagni in borsa. Contemperare le esigenze delle imprese e dei lavoratori per rilanciare la crescita è dunque la sfida che Confindustria e sindacati lanciano alla politica.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Stefano Barbero

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