Tutti i post della categoria: Economia

Non scherziamo col fuoco, pieno appoggio a Monti

postato il 28 Novembre 2011

Siamo a rischio catastrofe in Europa, non possiamo scherzare con il fuoco. Chi pensava che con un semplice cambio a Palazzo Chigi ci sarebbe stato un miglioramento immediato dell’economia, nutriva un’illusione.
Ora dobbiamo essere seri e appoggiare questo governo, dandogli piena solidarietà. Monti può essere una figura forte, e in grado di spingere la Germania ad avere più coraggio.

Pier Ferdinando

 

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Germania, Usa e Cina hanno il fiato corto? Qualche preoccupazione nei mercati finanziari.

postato il 23 Novembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

In questi giorni le cronache finanziarie hanno presentato molte notizie negative che hanno riguardato tre economie che sembravano in piena ripresa: Stati Uniti, Germania e Cina. Ovviamente questo avrebbe ripercussioni sull’Italia e sui nostri risparmi.

Volendo riassumere, quali notizie hanno colpito i mercati?

Intanto, l’asta dei BUND a 10 anni, i titoli di stato tedeschi, è andata male tanto che hanno fatto registrare una quota di invenduto pari al 35% e rendimenti sottilissimi (1,98%), ed infatti la Bundesbank e’ stata costretta a intervenire per evitare esiti negativi clamorosi.

La cancelliera tedesca Angela Merkel ha sostenuto che è stato effetto solo del nervosismo dei mercati finanziari e probabilmente è vero, ma nulla vieta di ipotizzare che questo nervosismo sia legato ai problemi che potrebbe vivere a breve la Deutsche Bank, la più grande banca tedesca. Secondo un articolo di Simon Johnson apparso su Bloomberg, proprio la banca tedesca potrebbe essere il veicolo definitivo del contagio della crisi facendola. Cosa dice l’articolo, ripreso anche da Wall Street Italia? La Deutsche Bank presenta due rischi: da un lato possiede moltissimi titoli di stato altamente rischiosi, come quelli della Grecia, dall’altro lato è anche esposta in maniera rilevante al settore immobiliare statunitense. Eppure se si pensa alla Deutsche Bank, la gente pensa ad un colosso finanziario, in realtà si tratta di un gigante dai piedi di argilla: a fine settembre 2011 i suoi asset totalizzavano 2,28 trilioni di euro, ma aveva una capitalizzazione esigua (ovvero aveva poco capitale proprio rispetto a tutto il capitale detenuto e investito) inoltre in America è un fiduciario importante di mutui, tramite la Taunus, che però ha bisogno di circa 20 miliardi di dollari per soddisfare i requisiti patrimoniali richiesti dalle Authority americane. Per evitare questo esborso finanziario, hanno cercato di declassare lo status della sua filiale da banca a holding, ma nessuno sa come sia finita la vicenda. Fa anche pensare la posizione assunta da Paul Achleitner, direttore finanziario della compagnia assicurativa Allianz nonché ex dirigente di Goldman Sachs, che ha recentemente ammesso  di essere preoccupato per questa situazione.

Altra fonte di preoccupazione per i mercati è la Cina: l’indice Hsbc che misura l’andamento del settore manifatturiero cinese è sceso al di sotto del livello che demarca la recessione e questa notizia segue altre notizie di analoghi rischi per la Cina pubblicati nei giorni scorsi . Da mesi la congiuntura del Dragone deve fare i conti con una serie di fattori domestici e internazionali che rischia di rallentarne lo sviluppo: la politica monetaria restrittiva promossa dalla banca centrale negli ultimi 18 mesi; la profonda incertezza che grava sul settore immobiliare; il raffreddamento della domanda mondiale che penalizza l’export del made in China. Quest’ultimo fattore è sicuramente quello che preoccupa maggiormente Pechino perché sfugge al suo controllo, e perché lo stato di salute dell’economia cinese dipende dal quadro clinico del ciclo globale.

Ma quello che preoccupa davvero in Cina è il rischio contemporaneo di due bolle: quella immobilaire e quella finanziaria. Quella immobiliare è particolarmente grave perché il mattone offre lavoro alla manodopera non specializzata che ancora abbonda in Cina, contribuendo così a garantire l’ordine sociale. La bolla immobiliare cinese tende a gonfiarsi e a diventare cronica per la mancanza di alternative d’investimento: i “nuovi ricchi” non investono in borsa e si sono buttati sul mattone, ma oggi i cinesi benestanti si rendono conto che il loro investimento sta perdendo valore. Si prefigura una nuova ragione di attrito tra il governo e il blocco sociale che, arricchendosi alla sua ombra, l’ha finora sostenuto, tanto che ad ottobre una quarantina di proprietari hanno protestato presso la sede del gruppo immobiliare Greenland di Shanghai. Chi protestava ce l’aveva con la svalutazione delle proprie case (-28%) e con la svendita a minor prezzo di appartamenti uguali ai loro da parte della società. A questi rischi si aggiungono i moniti del FMI che recentemente ha messo in guardia la Cina su possibili “fragilità” del suo sistema finanziario, in quanto le banche cinesi, che sono abbastanza robuste da sostenere crisi isolate, non riuscirebbero a sostenere crisi composte derivate da sovraesposizione ai crediti, bolle immobiliari, valore della moneta.

Infine i problemi degli Usa, dove gli esperti dell’Università del Michigan e di Reuters hanno deciso di rivedere al ribasso l’indice sulla fiducia dei consumatori statunitensi del mese di novembre a 64,1 punti dai 64,2 della lettura preliminare. Il dato è inferiore alle attese degli analisti che si aspettavano una revisione al rialzo a 64,5 punti, mentre la spesa per consumi ha registrato una crescita dello 0,1% rispetto al mese precedente, inferiore dunque alle attese degli analisti (+0,3%). Da registrare anche la resa della super commissione bipartisan Usa, che doveva approvare i provvedimenti di rilancio dell’economia statunitense, ma che ha gettato la spugna perchè non ha trovato un accordo al suo interno.

 

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Sì alla patrimoniale se abbassa le tasse

postato il 21 Novembre 2011

Se la tassazione sulle rendite e sui grandi patrimoni serve a compensare una minor pressione fiscale sui lavoratori, sulle famiglie e sulle aziende, noi siamo d’accordo: può essere una strada opportuna.

Pier Ferdinando

 

 

 

 

 

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La lotta all’evasione fiscale conviene a tutti. Partecipa anche tu!

postato il 20 Novembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

La soluzione per risanare l’Italia passa da una lotta dura e seria all’evasione fiscale, e questa lotta deve essere combattuta da tutti i cittadini ogni giorno, chiedendo scontrini, fatture e accettando di pagare il giusto, perché l’evasione è un danno che ci colpisce tutti.

Se le tasse in Italia sono alte è anche colpa dell’evasione fiscale, perché se vi è del reddito sommerso, se vi sono persone che non pagano quanto devono, allora gli onesti si troveranno a pagare di più, e questo è inaccettabile sia per una questione etica, che per una questione di responsabilità. In uno studio del Centro Studi di Economia e Finanza è stato accertato da Francesco Flaviano Russo, tramite i dati del sito evasori.info, che dove l’atteggiamento è più indulgente, l’evasione è più diffusa.

Da quanto detto, discende che, anche solo ipotizzare un condono, o una sorta di “accettazione” dell’evasione, permette a questo comportamento illecito di prosperare e di diffondersi.

Ma quanto è grande questo fenomeno?

In pratica siamo il paese dove si evade di più, dopo la Grecia, ed è pari al 18% del PIL Italiano. E’ una cifra astronomica che ci permetterebbe, se ridotta della metà, non solo di procedere all’azzeramento del debito pubblico in pochi anni, ma anche di potere investire nello sviluppo economico e nella riduzione delle tasse.

Nello specifico, la tassa più evasa è l’IVA, che in base ai calcoli della Corte dei Conti ha un tasso di evasione che arriva al 36%. L’IVA raccoglie meno fondi di quanto faccia lo stesso tipo d’imposta in ambito medio europeo perché il rendimento dell’imposta italiana risulta intaccato dal livello e dall’estensione delle basi imponibili diverse da quella ordinaria, oltreché dai regimi speciali e di esenzione.

D’altronde che l’evasione fosse estremamente diffusa si sapeva da tempo, ma forse non si sa quanto, non chiedere lo scontrino o permettere l’evasione, costi al cittadino onesto. Secondo Giampaolini, presidente della Corte dei Conti, le effettive “implicazioni del fenomeno emergono ancora più nettamente quando si va a calcolare la pressione fiscale “effettiva”, rapportando il carico impositivo solo al Pil “dichiarato” al fisco: la pressione fiscale effettiva va corretta verso l’alto, di circa 10 punti rispetto a quella “apparente”, con l’effetto, così, anche di un ampliamento della distanza dai partners europei, a causa del nostro più alto tasso di evasione”.

Ovvero, se la pressione fiscale “teorica” è del 43%, quella reale per il cittadino onesto è pari al 53%, e per questo motivo siamo pienamente d’accordo con Monti quando, nel suo programma di governo, dichiara che uno dei primi punti è la lotta all’evasione fiscale.

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Se non si capisce la crisi

postato il 8 Novembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Mantovani

“La crisi non si sente in Italia, i ristoranti sono pieni”.

Esattamente ciò di cui i tedeschi ci accusano: diamo l’idea di essere i pirati che ballano e bevono intorno alla cassa del morto.

Le città tedesche nel 2001 e ancor di più nel 2008 erano piene di negozi chiusi, alla sera sembrava ci fosse il coprifuoco. Risparmiando, investendo nelle aziende, accettando riduzioni temporanee dei salari, puntando sull’export i tedeschi si sono ripresi. E si domandano perché da noi non debba mai arrivare il giorno dei sacrifici.

La realtà è che l’Italia è un Paese con un terziario più forte di quello tedesco. Se Berlusconi avesse detto “i ristoranti di Roma, Venezia, Firenze, delle Langhe e del Chianti sono pieni di stranieri e stiamo lavorando perché accada altrettanto in altre 100 città e cittadine d’Italia” avrebbe messo in luce la più grande riserva di crescita del nostro Paese. Noi potremmo avere un export competitivo quanto quello tedesco ed un incoming molto più forte.

Non è negativo evitare di deprimere troppo i consumi in una fase di crisi, ma occorre comprenderne le dinamiche sociali.

Oggi esistono certamente single o coppie senza figli benestanti, con un discreto lavoro, con qualche proprietà immobiliare ed un po’ di liquidità lasciate dai genitori, che possono frequentare ristoranti e locali più volte la settimana. Ma il numero dei senzatetto di Bologna – tanto per fare un esempio – è raddoppiato nell’ultimo anno. Le famiglie della classe media con figli e reddito fisso hanno tagliato le vacanze invernali e riducono ad una settimana quelle estive; difficilmente li vedrete al ristorante. I nostri pensionati non sono quelli della Florida.

Stiamo rapidamente consumando risorse accumulate in decenni ed il risparmio delle famiglie – ancora significativo – fa il paio con un indebitamento delle medesime in rapida crescita. Senza contare gli effetti di un’inevitabile contrazione del welfare, che porterà ad utilizzare i risparmi (di chi li ha) a sostegno del reddito nei perodi di malattia, disoccupazione o pensionamento.

Se uniamo questo quadro al crescente esodo dei giovani più istruiti e brillanti, non compensato da altrettanti “acquisti” di cervelli, abbiamo la rappresentazione di un Paese nel quale le differenze sociali si accentuano, la classe media e le famiglie si assottigliano e la ricchezza accumulata si consuma rapidamente. Chi dispone di risorse liquide o di aziende sta rapidamente perdendo la fiducia e tenderà sempre di più ad investire all’estero. Abbiamo già visto questo scenario, specialmente in Sud America, ma anche nel Portogallo post-coloniale. Se non interveniamo immediatamente, ci attende un futuro fatto di pochi giovani disoccupati o sotto-occupati, diversi milioni di immigrati per i quali l’ascensore sociale non partirà mai, un grande numero di anziani con forti attese di welfare e bassi redditi, una classe media svuotata ed un nucleo sempre più ristretto di ricchi che, per quanto frequenti i ristoranti, non sarà in grado di sostenere l’attuale livello complessivo di consumi. Un cocktail tossico, questo è il concreto timore dei “mercati”.

Non sentire questa crisi, non percepirne la minaccia epocale è prova del definitivo distacco del nostro Presidente del Consiglio dalla realtà italiana. Un premier che parla più forte degli altri perché non vuol sentire.

 

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G20, la magra figura del governo.

postato il 5 Novembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Dalla conclusione del G20 possiamo dire che sono state spese molte parole, ma sono state prese ben poche decisioni e l’Italia come nazione ne esce sconfitta, pagando le incertezze di questi mesi e l’incapacità del governo di questi anni.

Possiamo affermare che nessun accordo è stato raggiunto per il potenziamento del Fondo monetario internazionale, e questo era un punto fondamentale per l’Europa che, da un potenziamento del FMI, avrebbe potuto ottenere ulteriori risorse finanziarie, mentre l’Italia dovrà ogni tre mesi superare l’esame del FMI che controllerà l’attuazione del paino di riforme promesso dal Governo.

Durante la conferenza stampa conclusiva del vertice il presidente francese Nicolas Sarkozy ha detto c’è un accordo di massima sul potenziamento del rapporto di collaborazione tra Fmi e Fondo Salva Stati (Efsf), ma rimane poco chiaro come questo potrà avvenire, visto che, secondo la Merkel, quasi nessuno stato vuole aprtecipare al potenziamento di tale fondo. In definitiva i leader mondiali del G20 non hanno sottoscritto nessun accordo e non hanno messo nero su bianco alcun impegno che li vincoli a potenziare l’Fmi per aiutare l’Europa.

L’idea originaria era quella di potenziare il Fondo salva Stati europeo tramite un’emissione di Sdr (sono diritti speciali di prelievo), ovvero uno strumento finanziario creato dal Fondo monetario internazionale per aumentare la liquiditá internazionale e per finanziare lo sviluppo economico mondiale. Berlino si sarebbe opposta a questa soluzione perché considerata una monetizzazione del debito. Difatti l’unico impegno preso dal G20 è di lungo periodo, e prevede di rivedere la composizione del paniere di valute alla base dei Sdr entro il 2015 per dare maggiore peso alle economie emergenti.

In tutto questo, l’Italia, subendo le pressioni esercitate dagli altri leader, e in particolare da Germania, Francia e Stati Uniti, ha acconsentito al monitoraggio del FMI. Anche se il presidente della Commissione Europea, Jose Manuel Barroso ha affermato: “l’Italia ha chiesto di sua iniziativa il monitoraggio del Fondo Monetario Internazionale sull’applicazione dei suoi impegni”, in realtà tale controllo è stato imposto all’Italia dalle altre nazioni.

Anche se il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha cercato di sostenere che l’attività di monitoraggio del Fondo a quella di una società di revisione di conti, rimane il dubbio che da un lato si tratti di una prima intrusione delle Autorità internazionali negli affari del Governo, e dall’altro lato, potrebbe sembrare un modo per forzare la mano al Parlamento italiano per ottenere la fiducia sui provvedimenti da prendere senza pagarne il dazio politico e forzare la mano all’opposizione. Con il controllo del FMI l’Italia non può più perdere tempo nelle riforme, e di fatto se venisse a mancare la maggioranza, a livello internazionale Berlusconi potrebbe affermare che la colpa non è sua.

Il Presidente del Consiglio ha sostanzialmente fatto commissariare l’Italia dal FMI per non dovere chiedere i fondi del FMI del Fondo Salva Stati, e al contempo evitare di finire in minoranza nel Parlamento.
Chiudo queste mie riflessioni con una considerazione sull’infelice uscita di Berlusconi che ha detto come secondo lui “in Italia non si avverta una forte crisi. La vita in Italia è la vita di un Paese benestante. I consumi non sono diminuiti, i ristoranti sono pieni, per gli aerei si riesce a fatica a prenotare un posto”. Aggiungendo: “Noi pensiamo che l’avventarsi sui titoli del debito italiano sia una moda passeggera”. Sono parole che ancora una volta dimostrano quanto Berlusconi sconosca la realtà che lo circonda, vivendo in una sua realtà fittizia. Se gli italiani possono spendere è solo perché non risparmiano più (come testimonia Banca d’Italia) e perché vi è il sostegno dei 50-70enni, verso i figli di 30-45 anni che faticano a trovare un lavoro a causa della abssa crescita dell’Italia.

 

 

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Cosa significa avere un alto tasso di interesse ed andare in default?

postato il 3 Novembre 2011

di Mario Pezzati

Aprendo un giornale e ascoltando i telegiornali si viene assaliti da concetti astratti, ma che impattano profondamente con la realtà di ogni giorno: il default di uno Stato e il tasso di interesse sui titoli dello stesso. Cerchiamo di trovare delle spiegazioni a questi termini, in maniera molto semplice.

Essenzialmente il default, come avevamo detto in precedenza è il termine per indicare il fallimento di un debitore, nel caso in questione il debitore è una nazione. Cosa significa per il cittadino se la propria nazione dichiara fallimento? Essenzialmente significa che lo Stato non può rimborsare i prestiti contratti, quindi anche i cittadini che hanno investito in titoli di stato vedono una perdita secca dei loro investimenti, inoltre lo Stato non avrebbe soldi per pagare stipendi, pensioni e i servizi sociali (pensiamo alla sanità pubblica). Proprio per questo motivo, il default di uno Stato è un evento traumatico per la sua popolazione, e quindi a maggior ragione il governo si deve impegnare per evitarlo.

L’altro termine, ovvero “tasso di interesse sui titoli di Stato” è abbastanza intuibile come significato, ma nel concreto, cosa significa per il cittadino se la nazione paga alti tassi di interesse?

Potrebbe sembrare una cosa buona: io compro titoli di stato e ottengo un interesse alto, ma a ben vedere non è così. Intanto più alti sono gli interessi, maggiore è la spesa pubblica, perché maggiore è la quantità di denaro necessario per pagare gli interessi da parte dello Stato, infatti è stato calcolato che un aumento dell’1% del tasso di interesse significa per l’Italia un aumento di spesa per interessi pari allo 0,2% del PIL il primo anno, dello 0,4 il secondo anno e dello 0,5 il terzo anno, rispetto agli stati più “sicuri” (come la Germania); se si manterrà una differenza del 4%, come è ora, per lo stato italiano si parlerebbe di una spesa aggiuntiva di circa 100 miliardi di euro di interessi. Inoltre, alti tassi di interesse implicano per le banche, le imprese e le famiglie, maggiori difficoltà nel reperire i fondi necessari; in altre parole una famiglia pagherà di più come interessi per avere un prestito, ma anche le imprese pagheranno di più (questa estate i prestiti alle imprese erano saliti ad un tasso di interesse del 9%).

Perché questo meccanismo? Sostanzialmente le banche per rifornirsi di capitale hanno due strade: i depositi bancari, e rivolgersi al mercato (tra cui anche alle banche centrali) che chiederà un certo interesse per il denaro prestato alle banche, che in pratica fungono da veicolo di passaggio tra questa massa monetaria raccolta sul mercato e le famiglie e le imprese che chiedono soldi. Chiaramente, maggiore è il tasso di interesse pagato dalle banche al mercato, maggiore è il tasso di interesse che le banche chiedono ai loro clienti. Il tasso di interesse richiesto dal mercato dipende dai tassi pagati dai titoli di stato e dalla solidità del sistema bancario nazionale, che, nel caso dell’Italia, è messo sotto pressione proprio dalla difficile situazione dei conti pubblici italiani.

Da quanto detto, è chiaro a tutti che bisogna evitare non solo il default dell’Italia, ma anche che i tassi di interesse crescano ancora andando ad appesantire ulteriormente i bilanci di famiglie e imprese.

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Lavoro, il difficile connubio tra flessibilità e garanzie

postato il 31 Ottobre 2011

lavoro di ilcapofficina(semanticamente uno stronzo) “Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Pier Ferdinando Casini ha affermato che si può avere flessibilità sul lavoro, purchè prima si prevedano degli adeguati paracaduti sociali, mentre il governo afferma che maggiore libertà di licenziare equivale a fare investire le aziende in Italia.

Personalmente dubito di quanto affermato dal ministro Sacconi perché il mercato del lavoro è già ampiamente flessibile, inoltre tutti parlano dell’occupazione giovanile, ma a quegli italiani che si trovano nella fascia d’età tra i 35 e i 60 anni, chi ci pensa? Dare libertà di licenziare alle aziende, anche se in “stato di crisi”, comprime in modo insopportabile le garanzie per i lavoratori proprio di quella fascia d’età. Per altro, ritengo che questa libertà sono un “di più”, perché le aziende in crisi possono già ridurre la forza lavoro tramite la cassa integrazione.

E allora il mercato del lavoro non deve essere toccato? Ecco, io penso che si possa intervenire, con una riforma a costo zero per lo Stato italiano e dando le maggiori garanzie richieste dal leader dell’Udc Casini.

La mia proposta segue la legislazione spagnola, cioè quella di un paese molto simile all’Italia: alta disoccupazione (la media ufficiale della Spagna è di circa il 23% di disoccupati), alto ricorso ai contratti a tempo determinato (circa il 30% degli occupati spagnoli, lavorano con il nostro equivalente dei contratti a progetto), e che ha introdotto inutilmente le stesse liberalizzazioni in tema di licenziamento, che vuole introdurre questo governo.

La proposta verte su una lotta all’utilizzo del contratto a progetto come forma di assunzione “mascherata” per evitare il contratto a tempo indeterminato, ciò si può ottenere con la trasformazione in indeterminato di un rapporto temporaneo quando si raggiunge una durata determinata, che è il presupposto per stabilire se l’azienda ha bisogno “strutturalmente” di un lavoratore.

Il vero punto diventa stabilire un limite temporale massimo, assoluto e insuperabile, attraverso la successione di contratti a tempo determinato, per eseguire un medesimo lavoro dalla stessa persona o mediante rotazione di lavoratori, di modo che se si  è superato, si dovrà ritenere che siamo davanti ad un posto di lavoro strutturale. A mio avviso, tale limite di tempo può fissarsi in 24 mesi cumulativi di lavoro nell’arco di complessivi 36 mesi: in tal modo, non basterà, per azzerare i conteggi dei mesi, che l’azienda tenga scoperto il posto di lavoro per uno o due mesi (come è accaduto fino ad ora).

Si tratta , in definitiva, di evitare quella pratica che vede parte dei posti di lavoro di un’impresa permanentemente occupati da lavoratori precari , disponendo l’azienda di un organico fisso inferiore a quello necessario per affrontare la sua normale attività produttiva.

Questa norma sicuramente servirebbe a garantire e proteggere l’abuso da parte delle aziende dei contratti a tempo, inoltre è ovvio che il conto dei 24 mesi avviene anche se tra un contratto e l’altro vi è una interruzione breve (che potremmo quantificare in 3-6 mesi). In altre parole, al conteggio non si sfuggirebbe neanche se l’azienda tra  i vari contratti mettesse delle interruzioni brevi.

 

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Casini: «Flessibilità con paracadute»

postato il 29 Ottobre 2011

Con i licenziamenti serve il salario minimo, troppo poco sulle pensioni

L’intervista a Pier Ferdinando Casini pubblicata su ‘Il Sole 24 Ore’ di Barbara  Fiammeri

“La non credibilità di questo governo è nei fatti. Nonostante il via libera della Ue alla lettera di impegni e il costante lavoro della Bce per calmierare i tassi, oggi per vendere i nostri titoli pubblici siamo stati costretti a offrire un rendimento record, oltre il 6%”.
Il riferimento di Pier Ferdinando Casini è all’asta dei Btp a medio e lungo termine che si è conclusa in mattinata. Il leader dell’Udc scuote la testa lasciandosi cadere sul divano del suo ufficio all’ultimo piano della Camera. Le ultime battute del premier sull’euro («moneta strana che non ha convinto nessuno») le commenta con amara ironia: «A forza di dire sciocchezze in libertà, non meravigliamoci poi degli sberleffi di Sarkozy». Casini resta convinto che senza l’uscita di scena di Silvio Berlusconi e la nascita di un governo di «responsabilità nazionale», l’Italia rischia di precipitare.

Perché è così scettico?
“Berlusconi ha bisogno di prendere tempo. È l’unica cosa che gli interessa. La lettera di impegni alla Commissione Ue rimarrà inattuata, il governo cadrà tra non molto, non appena i tempi consentiranno al premier di poter scongiurare un’alternativa e il documento consegnato a Bruxelles si trasformerà nell’ennesima promessa elettorale del Cavaliere. Il governo già non c’è più. Per evitare una crisi immediata hanno rinviato l’approvazione del decreto sviluppo e hanno alleggerito il calendario della Camera dove continuano ad andare sotto nonostante la massiccia presenza dei ministri. Siamo arrivati al punto che per evitare nuove sconfitte l’esecutivo appoggia mozioni dell’opposizione come è avvenuto su quella dell’Idv relativa ai finanziamenti del Ponte sullo stretto”. [Continua a leggere]

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Riformare. Si deve, si può.

postato il 27 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Il Libertarioil.illibertario.libertario63@gmail.com

Occorre poco per cambiare le cose. Riformare, tagliando i conti pubblici, non è sempre la soluzione migliore. Le riforme sono possibili mettendo mano su quello che già c’è. Basta volerlo. Occorre prendere atto che una vera e necessaria riforma economica e istituzionale in questo Paese non puo’ prescindere dall’eliminazione dei diritti acquisiti e dalla consapevolezza della necessità di un richiamo alla responsabilità comune.

L’Ue, come tempo addietro fece la Bce, ci richiama all’ordine. Molte le obiezioni che si fanno su questo. Ma è chiaro che l’ingresso nella moneta unica europea è stata una scelta condivisa. Una scelta che ha chiamato tutti (destra sinistra, forze politiche moderate o extra parlamentari) a prendere una posizione di campo: o fuori o dentro l’Unione europea. Noi abbiamo fatto la nostra scelta e adesso ci chiedono conto. Ci chiedono conto in primis delle mancate promesse di questo governo. Delle politiche di crescita ”sostenute” e mai portate avanti con coraggio e con forza. Ci chiedono conto delle mancate liberalizzazioni (comprese quelle degli Ordini professionali), di adeguare le pensioni d’anzianità e accompagnamento, ci chiedono di rivedere le finestre d’uscita, di riformare il mercato del lavoro e licenziamenti più facili nel settore pubblico. Ma non solo, ci chiedono continuamente di intervenire sull’evasione e la corruzione imperante. La grande sfida che quest’Italia deve e può risolvere.

Basta poco per traghettare questo Paese fuori dalla palude della recessione. Basta prendere atto dell’urgenza e fare appello (al di fuori delle scelte politiche e degli schieramenti) alla drammaticità del momento. Il mio appello è questo: interveniamo presto e subito seguendo questa direttrice:

  1. Defiscalizziamo i datori di lavoro e/o incentiviamo chi assume manodopera giovane (a tempo indeterminato). Oggi spendiamo (un po’), domani avremo nuove imprese giovani e dinamiche sul mercato.
  2. Detassiamo le nuove aziende che si affacciamo sul mercato. Insomma detassiamo chi rischia con professionalità e coraggio il proprio capitale umano ed economico.
  3. Aboliamo gli Ordini professionali. E’ questa l’unica liberalizzazione possibile. Non svendere, come il passato dimostra, quello che è Pubblico. L’Unione Europea ha stimato che grazie alle mancate liberalizzazioni e alla ”stozzatura” degl’Ordini professionali perdiamo 1,6 punti di Pil all’anno. Eliminare il minino tariffario non ha senso, non spingi la crescita. Ha senso eliminare le Caste impediscono l’accesso alle professioni e non generano concorrenza. Partirei dall’eliminazione della legge dello Stato che regola gli accessi a queste categorie. Accesso libero come ci chiede l’Ue. I cialtroni verrebbero eliminati dal mercato per incompetenza. Sul mercato rimarrebbero i più bravi e preparati, e i servizi -non essendoci minimi tariffari- sarebbero sicuramente più convenienti economicamente, più efficienti, migliori di quello che sono ora.
  4. Introduciamo una Patrimoniale sulle rendite finanziarie e/o sui capitali. In questo modo chi ha forti utili pagherà di più di chi non si puo’ permettere di rischiare il proprio capitale. Trovo antidemocratico che chi ha meno (e sempre quello) deva risponderne del proprio capitale allo Stato e chi ha più debba non rispondere al Fisco perché non c’è una norma che lo impone. O se si pensa che ci sia è un palliativo.
  5. Veniamo incontro all’Ue. Rivediamo il nostro sistema di previdenza/pensionistico. Vediamo se ci sono sperperi e ”abusi”. Eliminiamo le maxi pensioni. Rivediamo le finestre d’uscita, e se occorre incentiviamo (seriamente con bonus ad esempio) chi decide di continuare a lavorare. Eviteremo così lavoro nero e abbatteremo nuovi costi sociali.

Quello che vi presento è un pacchetto di spunti per rivedere le politiche economiche. Sono le mie proposte. Proposte e spunti non autorevoli. Semplicemente le proposte di un cittadino italiano che ha a cuore questo Paese.

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