postato il 18 Ottobre 2019 | in "Politica, Rassegna stampa"

Il bello della politica: “Il potere? È il telefono che squilla”

Dieci legislature, trentasei anni passati in parlamento. Ha visto nascere e morire governi, creato e sciolto partiti. Pier Ferdinando Casini si racconta. Democristianamente

L’intervista di Concetto Vecchio pubblicata sul Venerdì di Repubblica

È sabato mattina e il senatore Pier Ferdinando Casini è appena tornato da una corsa nel parco. Ha 63 anni ed è in politica praticamente da sempre. Dieci legislature, trentasei anni senza interruzioni. Ultima collocazione: indipendente nel Gruppo delle Autonomie eletto con il centrosinistra. Come ha fatto a resistere a tutte le rivoluzioni? Quando entrò per la prima volta alla Camera, giugno 1983, c’era ancora Sandro Pertini al Quirinale, i Righeira cantavano Vamos a la Playa e Luigi Di Maio non era nato. È il decano dei parlamentari eletti.

Che ricordo ha del suo arrivo in Parlamento?
“C’erano ancora dei monumenti. Avevo una grande ammirazione per Saragat. Lo vidi il giorno che si votava per il presidente della Repubblica, nel 1985. Fui tentato di avvicinarlo, di stringergli la mano. Mi mancò però il coraggio, c’era una riverenza verso i grandi che ti faceva velo”.

Quanti anni aveva quando fu eletto per la prima volta?
“Ventisette. Tre anni prima ero diventato consigliere comunale a Bologna, c’era Zangheri sindaco. La mia vocazione politica nasce da ragazzino. Alle politiche del 1983 presi 34 mila preferenze e mi ritrovai a Montecitorio. Strinsi un legame personale, fuori dalla cerchia Dc, con il missino Giorgio Almirante e il comunista Alessandro Natta. Erano figli di un passato colmo di storia. Ascoltarli era per me come stare a scuola”.

Che famiglia era la sua?
“Mio padre, Tommaso, professore di latino e greco, era un notabile del partito che aveva conosciuto De Gasperi”. (Casini si alza e indica con il dito una foto che mostra il padre con il leader Dc in piazza Maggiore a Bologna, nel 1953).

È vero che lei prese uno schiaffo da quelli di sinistra davanti al liceo Galvani?
“Non io, mia sorella Maria Teresa. L’avevo incaricata di distribuire un volantino del movimento giovanile della Dc”.

Ed è vero che lei deve tutto al capo doroteo Toni Bisaglia?
“No, è stato un maestro, ma poi in Parlamento ci sono entrato e rimasto da solo”.

Che idea si è fatto della sua morte?
“Che fu un incidente. Era della stessa opinione anche Tonino Maccanico, con cui qualche volta si stava tutti insieme a Capri”.

Bisaglia diceva: “Ho due discepoli, uno, Casini, è bello, l’altro, Follini, è intelligente”.
“Non so se l’abbia mai detto, ma la mia fortuna è stata sempre quella di non avere complessi o invidie”.

Come si fa a venir eletti per dieci legislature?
“La politica è maestra di vita. Sopravvivi se hai le necessarie qualità”.

E qual è la qualità principale di un politico?
“Il carattere. Conta più della conoscenza e delle doti morali. Bisogna essere duri quando è necessario e flessibili quando il vento è contrario; e poi possedere la capacità di aggregare. Far capire alle persone che sono importanti per te”.

Perché non ha mai fatto il ministro?
“Mi sento uomo delle istituzioni. Nel ’94 Berlusconi mi voleva al governo a tutti i costi, ma io avevo appena fondato il Ccd e così indicai Mastella, D’Onofrio e Fumagalli Carulli. Volevo dimostrare che m’interessava di più far crescere il partito che la mia posizione personale”.

Cos’è per lei il potere?
“È il telefono che squilla. Ma è anche un’illusione ottica. Tutto finisce in cenere, lo dico da cattolico pieno di peccati”.

Che ricordo ha di Aldo Moro?
“Con lui parlava soprattutto Marco Follini, ma ricordo la mia emozione quando a un incontro sulla scuola volle citarmi. Allora erano segnali enormi. In tv mostrano spesso le immagini di Moro che vota per la presidenza della Repubblica, ci faccia caso: davanti a ogni commesso faceva un leggero inchino, per rispetto”.

Giulio Andreotti?
“Non sono mai stato un suo fan sfegatato. Ma quando nel 2005, a Ginevra, ero in lizza per diventare presidente di tutti i parlamenti, lui venne apposta per sostenermi. C’erano mille delegati, e lui strinse 900 mani. Conosceva tutti”.

Amintore Fanfani?
“Un giorno presentai in direzione il regolamento del Gip, il Gruppo d’impegno politico. Approvarlo era una formalità, Fanfani invece si oppose. Ci guardammo stupiti. Mi chiamò nel suo ufficio e con la matita rossa e blu m’impose delle correzioni. Erano dei giganti fin nei dettagli”.

Lei è stato soprattutto un allievo di Arnaldo Forlani.
“Uomo di grande intelligenza e dignità, che ha subìto amarezze immeritate”.

Giuseppe Conte è un democristiano?
“Oggi tutti lo sono un po’ e nessuno lo è. Conte ha buonsenso, ma di certo la Dc non avrebbe mantenuto lo stesso premier per due governi opposti come quello gialloverde e giallorosso”.

Perché Conte è ancora premier e Salvini è finito all’opposizione?
“Perché Conte ha capito che la vera partita si giocava sul terreno europeo. Lì ha costruito la sua tela. Salvini invece si è isolato. Orbán è meno sprovveduto, rimane nel Ppe e fa gli accordi con Angela Merkel”.

Cosa avrebbe dovuto fare?
“Salvini ha presentato una mozione di sfiducia ignorando che nessuno voleva andare al voto. Avrebbe potuto avviare una trattativa con i Cinquestelle, per un nuovo governo, e poi, alla fine, preso atto che quella non era la sua volontà, probabilmente si sarebbe andati al voto”.

Questo governo durerà?
“Penso di sì, ma con molti scossoni”.

Renzi gli farà vedere i sorci verdi?
“Lo stimo, è un cavallo di razza, seppur con una quantità non trascurabile di difetti. Ha capito che esiste uno spazio politico tra i giallorossi e Salvini, un dieci per cento con cui si decidono le sorti in Parlamento”.

Lei si iscriverà al suo partito?
“No, i tempi delle avventure partitiche per me sono finiti”.

Edmondo Berselli diceva di lei, in bolognese: “L’è brev ma lento”.
“Non mi pare proprio”.

L’appellativo di Pierfurby la offende?
“Lo coniò Cossiga. Ma direi che furbo non lo sono mai stato”.

Per i grillini lei era il simbolo della casta. Al Senato se li ritrova accanto.
“Sono come la specie umana. Ce ne sono di bravissimi, come il ministro Stefano Patuanelli, e altri che stanno imparando. Tempo fa feci un viaggio istituzionale all’estero e sull’aereo la parlamentare grillina mi salutò appena. Sul volo di rientro mi venne a chiedere scusa: “Ho imparato un sacco di cose in questi giorni con te””.

Che rapporto ha con Bologna?
“È la mia vita. Un politico deve mantenere un rapporto col proprio territorio. Quando divenni presidente della Camera mi affidai alla Madonna di San Luca. Mio figlio Francesco, 11 anni, che si chiama Casini-Caltagirone, è romano ma tifa Bologna. “Il mio sangue è rossoblu” dice ai suoi compagni, quando gli chiedono perché non è romanista o laziale. E io gongolo, perché è la mia più grande soddisfazione…”.

Quanti figli ha?
“Quattro. Tre figlie di 29, 28 e 15 anni, e il maschio. Sono bravissimi”.

Si è separato due volte. Da cattolico le pesa?
“Sono confortato dalla parabola del figliol prodigo: quando è tornato a casa il padre non gli ha chiesto cosa ha fatto, ma lo ha solo e semplicemente abbracciato”.

Non usa i social?
“Mi diverte Instagram, lo uso per mettere immagini prevalentemente scherzose. La violenza dei social mi spaventa”.

Ha dei rimpianti?
“Per me la politica è stata tutto, ho inflitto ai miei familiari anche atti di egoismo. Oggi mi diverto a insegnare all’università, a studiare la geopolitica, e a pensare un mio domani senza la politica. Ma non so se sotto sotto non sto mentendo anche a me stesso”.

Cosa vuol dire “è stata tutto”?
“Ero angosciato sul destino della mia comunità politica e mio. Per anni sono stato terrorizzato di finire sul binario morto”.

Come immagina la vita dopo la politica?
“Andrò in pensione, posso andarci anch’io come tutti gli altri, no?”.

Commenti

  1. mi piace ricordare il compianto GUAZZALOCA QUANDO PARLAVA DI LEI… BENISSIMO NATURALMENTE. POI IL FATTO CHE ANCHE AUNA PERSONA IMPORTANTE COME LEI A VOLTE PIACCIA MANGIARE IL PANE CON L’OLIO MI FA MOLTA SIMPATIA…BUONA VITA




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