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È il momento di passare da Agenda Digitale a Strategia Digitale

postato il 3 Febbraio 2013

di Giuseppe Portonera

In una campagna elettorale importante come quella che sta trascorrendo, si è sottovalutato un tema importante: meglio, fondamentale. Si tratta dell’innovazione tecnologica necessaria al nostro Paese per tirarlo fuori dalle secche in cui la crisi economica e sociale lo ha precipitato. L’Udc, durante tutta questa legislatura, si è impegnato a fondo a difesa della libertà della Rete e a sostegno di “Agenda Digitale”, vero volano per il rilancio della nostra economia: basti ricordare, su tutto, il lavoro del nostro deputato Roberto Rao, che ha firmato un progetto di legge insieme a Gentiloni (PD) e Palmieri (PDL) proprio su questi temi. Il DDL prodotto è stato poi recepito – non in tutto e non in meglio purtroppo – dal DL Sviluppo presentato dal Governo e dal Ministro Passera (e convertito in legge in extremis, a causa della fine anticipata della legislatura). Ciò nonostante, dopo il lavoro svolto dal governo Monti, abbiamo la fortuna di non partire da zero: ora è il momento di dimostrare come una politica nuova per il Paese non possa prescindere da una grande idea di innovazione, non solo tecnologica ma anche e soprattutto sociale e civile.

Come ha sottolineato proprio Rao, oggi, commentando il documento presentato da Confindustria Digitale, è sempre più evidente la necessità di passare da “Agenda Digitale” a “Strategia Digitale”, fissando le tappe di una road map da spuntare da qui al 2020, per garantire al nostro Paese più inclusione sociale, competitività e produttività. Perché l’Italia sia finalmente 2.0, il che vuol dire: spread digitale al minimo, con banda larga e ultralarga per tutti, e punti hotspot wifi diffusi su tutto il territorio; servizi rapidi e efficienti per il cittadino-utente e per burocrazia informatizzata per le aziende; open data per la PA e la politica, perché la trasparenza è il miglior antidoto alla corruzione; nuovi posti di lavoro, moderni e flessibili. In questo una vera Strategia Digitale risulta fondamentale: la filosofia #open, fatta di contenuti chiari e trasparenti, deve pervadere e conquistare le nostre istituzioni.

Basta leggi oscure, incomprensibili, di bassissima qualità tecnica: dobbiamo produrre atti normativi facilmente “condivisibili”, nel senso stretto del termine (che quindi siano comprensibili a tutti, non solo agli esperti del settore) e pure nel senso social (perché possano girare su FB o Twitter, devono necessariamente essere chiare).

Nel nostro programma abbiamo già previsto: di rendere obbligatorio l’uso del non digitale nella PA solo nei casi in cui è provato che sia più conveniente dell’utilizzare il digitale; di impegnare ogni anno tutti i ministeri a produrre un piano di innovazione tecnologica; di spingere sull’introduzione del FOIA, che obbliga la pubblica amministrazione a rendere pubblici i propri atti e rende possibile a tutti i cittadini di chiedere conto delle scelte e dei risultati del lavoro amministrativo. Inoltre, l’obbligo di trasparenza riduce di molto la possibilità di evadere e corrompere: negli Stati Uniti il costo totale annuale per l’applicazione della legge è di circa $416 milioni annui, cioè di meno di $1,4 per ogni cittadino. A noi italiani la corruzione pubblico-privata costa 1.000 euro a testa all’anno (più di 60 miliardi nel complesso). Anche una piccola diminuzione della corruzione ripagherebbe ampiamente i costi di applicazione della legge!

Un’Italia 2.0 è un’Italia con un’economia di mercato più moderna, rapida e efficiente, che abbatta le distanze fisiche e sociali. E un’economia di mercato che funziona meglio porta ad costruire comunità intelligenti e più produttive, che mettano in rete (e in Rete) le loro potenzialità. E vere smart comunities danno l’opportunità di avere maggiore inclusione sociale e più possibilità di crescita e di affermare i veri talenti nostrani.

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Perché non si legifera sul conflitto d’interessi?

postato il 26 Settembre 2012

di Giuseppe Portonera

La polemica sul cosiddetto conflitto d’interessi è stata, per lungo tempo, uno dei fronti caldi della cronaca politica italiana: era una sorta di spartiacque, tra chi chiedeva una legge subito e tra chi invece lo riteneva uno strumento “punitivo” nei confronti di uno dei principali protagonisti della scena politica, Silvio Berlusconi. Basti ricordare il caso, emblematico, della Commissione Bicamerale per le Riforme, presieduta da Massimo D’Alema, che – naufragata per diversi motivi – fu presto accusata di essere nata col peccato originale di escludere dal suo campo d’azione proprio una legge sul conflitto d’interessi. Era il 1998, siamo arrivati al 2012 e di una legge che regolamenti (come dovrebbe essere regola in un Paese civile, in cui l’interesse privato è ben tenuto separato da quello collettivo) il conflitto d’interessi non c’è traccia. Perché? Abbiamo avuto governi sia di centrodestra che di centrosinistra, come è possibile che in nessuno dei due casi si sia arrivata a una soluzione, completa o pur anche di mera mediazione?

I governi presieduti da Silvio Berlusconi scontavano ovviamente la presenza del principale imputato in causa: proprietario del più grande polo televisivo privato nazionale e di un’importantissima squadra calcistica, a lungo uomo più ricco d’Italia. Ma davvero questo può essere un ostacolo, un freno per un per un uomo di Stato? Se pensiamo, per fare l’esempio più celebre, a uno dei più illustri predecessori di Berlusconi, Camillo Benso di Cavour, la risposta ovvia è no: il Conte, divenuto Presidente del Consiglio dei Ministri, vendette tutte le sue partecipazioni economiche in aziende e imprese varie, proprio perché non voleva che la sua azione governativa fosse in alcun modo influenzata da interessi o timori personali. Ma si sa, o tempora o mores! E i governi presieduti da Romano Prodi, allora? Loro non presentavano, almeno in modo così evidente, conflitti di interesse: eppure anche in questi casi non si è riusciti ad arrivare alla tanto agognata meta. Sembra una legge non scritta della nostra politica: più una riforma è importante, più è probabile che non sarà varata mai (o quasi) da nessuno.

Perché, tutto questo? Probabilmente, perché il conflitto d’interessi serviva più ai vari soggetti in campo per delimitare il loro spazio, il loro campo. Roberto Rao, intervenendo a tal proposito su L’Espresso, ha giustamente ricordato che è tutta una questione di incapacità a legiferare con lungimiranza: «ampi settori della politica invece di pensare all’interesse generale hanno preferito non risolvere mai il problema, per utilizzarlo come arma di ricatto minacciando a favore o contro il Cavaliere. Per questo il tema deve essere affrontato oggi che non si vive in una situazione di emergenza e si può intervenire senza pensare di colpire o salvare qualcuno. L’Italia è piena di conflitti di interesse che devono essere risolti una volta per tutte». L’appello è ovviamente, in prima istanza, al Parlamento, perché nel clima di strana maggioranza, possa riuscire a trovare almeno una soluzione di mediazione (come potrebbe essere il blind trust). Ma è esteso anche all’esecutivo, che con l’impegno diretto del Premier Monti e del Ministro Severino, ha dimostrato più volte di aver intenzione di riformare la giustizia partendo dai punti urgenti e non più rinviabili. E così, se all’anticorruzione, alle intercettazioni, alla responsabilità civile dei magistrati e alla situazione (vergognosa) delle carceri italiani, ci aggiungessimo pure la legge sul conflitto d’interessi, male non sarebbe.

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Sviluppo digitale. Il futuro è a banda larghissima!

postato il 19 Febbraio 2012

di Giuseppe Portonera. (L’immagine: Topolino n. 2917 – copertina di Paolo Mottura)

Mentre stavo per scrivere questo pezzo, la mia attenzione è stata catturata dalla copertina di un numero di Topolino di qualche mese fa, che titolava: “Archimede e lo Zione in Italia. Il futuro è a banda… larghissima!”. Sfogliandolo sono arrivato fino alla storia di copertina, che merita di essere raccontata – seppure in sintesi: Rockerduck, il grande antagonista di Paperone, ha deciso di investire nel progetto della “banda ultralarga” in Italia; visto che il tutto stenta a decollare, però, pensa bene di chiedere aiuto all’inventore per eccellenza del mondo parallelo di Paperopoli, Archimede. Il quale scoprirà – a sorpresa – che il fallimento del progetto è dovuto a un deliberato sabotaggio da parte dello stesso Rockerduck, che dopo aver inizialmente creduto nel progetto del Wi Max (beato lui), ne ha avuto infine paura. E ai Bassotti, suoi complici, spiega anche il perché: “un colossale e istantaneo flusso di informazioni favorirebbe la nascita di nuove, giovani aziende e la diffusione dei loro prodotti! Per esempio, qualunque fabbricante indipendente di nanetti di gesso potrebbe rivaleggiare con me! Vi rendete conto?!”.

Ora, so che un approccio del genere potrà sembrarvi puerile o insensato, ma a me è sembrato che queste poche battute di un fumetto riescano a spiegare meglio di tanti altri e lunghi discorsi perché non possiamo più permetterci di tergiversare sugli investimenti in materia di banda larga e digital divide. Ne ho scritto più volte, proprio su questo sito, l’ultima volta in occasione della bocciatura dell’emendamento Fava: non possiamo più restare sulla difensiva, servono subito interventi ben definiti e mirati al superamento del digital divide tutto italiano. In questa direzione, finalmente, si sono mossi i primi passi. A partire dal disegno di legge che porta le firme congiunte del nostro Roberto Rao e del deputato Pd Paolo Gentiloni, intitolato “Misure urgenti per lo sviluppo della domanda di servizi digitali”. Già dal titolo si può ben capire quale sia il principio ispiratore di questo testo: in Italia più ancora che l’assenza di adeguati servizi digitali, stupisce la mancanza di una loro adeguata “domanda”; sono in pochi, in troppo pochi quegli imprenditori, quei commercianti, quei liberi professionisti che pensano (ancora prima di volere) di usufruire di infrastrutture digitali per il loro lavoro. Troppi gli ostacoli – culturali e strutturali – in questo senso. Il primo passo da compiere, allora, è rimuoverli, per creare poi la consapevolezza delle immense potenzialità offerte da Internet e incrementare quindi la “domanda di servizi digitali”. Il documento, che è articolato in dodici punti e che sarà presentato a breve alla commissione Trasporti e comunicazioni, si incardina in quattro punti chiave: una legge quadro ciclica che metta ordine allo sviluppo degli incentivi digitali ogni dodici mesi, in stretta connessione con le tappe dell’Agenda digitale europea; una tabella di marcia a tappe forzate per la fornitura dei servizi digitali al cittadino con un piano di swich off della Pubblica Amministrazione analogica già nel corso del 2013; un’aliquota privilegiata e unica del 10% per favorire il commercio elettronico, per un commercio che deve vederci fra gli attori principali e che invece al momento ci vede in fondo alle classifiche; un contributo una tantum pari a 50 euro per le famiglie meno abbienti che vorranno accedere a una connessione a Internet, come primo incentivo all’alfabetizzazione digitale. Questo perché investire in banda larga, oggi, significa scegliere una delle soluzioni più efficaci per uscire dalla situazione di crisi economica internazionale in atto: il commissario all’Agenda digitale Neelie Kroes, vice presidente della Commissione europea, ci ha ricordato, qualche settimana fa, che i paesi europei leader per produttività sono gli stessi che più hanno investito nel settore delle tecnologie digitali. Una crescita del 10% della penetrazione della banda larga, infatti, porterebbe a un aumento del Pil fra lo 0,9 e l’1,5% e consentirebbe di generare attività per oltre un trilione di euro e creare milioni di nuovi posti di lavoro a favore di nuove, giovani e moderne (anche piccole e medie) aziende competitive sul mercato italiano e europeo.

Ecco perché non possiamo più stare a giocare al gatto e al topo con quanti credono di vivere ancora in un bel passato in cui i mezzi di comunicazione più veloci erano il telefono di casa o la tv. Queste “sacche di resistenza allo sviluppo digitale, che hanno paura del nuovo… andrebbero tutti #defollowati!” – per riprendere uno degli ultimi tweet del nostro Rao. L’approvazione di questo disegno di legge, che speriamo possa essere ancora migliorato durante il suo iter alle Camere, può anche avere effetti benefici sul nostro (stantio e ingessato) mercato del lavoro e far sì che nel nostro Paese possano nascere quanti più e numerosi “fabbricanti indipendenti di nanetti di gesso” in grado di rivaleggiare e vincere anche contro i soliti, grandi e inamovibili produttori.

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L’Africa ha un volto nuovo: quello delle donne. Un esempio per l’Italia

postato il 18 Febbraio 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Marta Romano

Si è svolto mercoledì, nella “Sala della Lupa” della Camera, il convegno “L’Africa ha un volto nuovo: quello delle donne. Un esempio per l’Italia”, organizzato dal presidente della Commissione giustizia Giulia Bongiorno e da Roberto Rao.
Il convegno, che aveva per tema le donne, l’importanza che assumono nella società odierna e il loro ruolo in Italia e nel mondo intero, ha offerto degli interessanti spunti di riflessione.
Naturalmente, come solitamente accade in convegni di questo tipo, si é partiti dall’amara constatazione di quanto debole sia, ancora oggi,in Italia, il binomio donne-politica. E’ proprio per questo che dovremmo assumere come esempio quello della Liberia, primo Paese africano ad avere come Presidente una donna, da cui arrivano grandi segnali di una vera e propria rivoluzione sociale, che porta alla ribalta il genere femminile, che assume sempre maggiore importanza, occupa posizioni di sempre maggiore rilievo. Questo, probabilmente, come ha rilevato Carmen Lasorella, che ha intervistato la leader liberiana , premio nobel per la pace, perché il Governo africano ha puntato tutte le sue forze sull’istruzione e sulla cultura, come mezzi per rendere la Liberia uno stato realmente democratico. D’altronde, la democrazia è realizzata in pieno quando ogni uomo e ogni donna hanno uguali possibilità di raggiungere uno stesso traguardo, ed è forse ciò che oggi, in Italia, manca, e per cui i partiti politici hanno il dovere di lottare.
La politica deve avere il coraggio di aprirsi alle donne riavvicinare questi due mondi così distanti tra di loro, ed annullare ogni tipo di discriminazione di genere.
Ed è vero quanto ha detto la Bongiorno: non si può esultare per il fatto che nel Governo Monti ci siano tre donne ad occupare ministeri importanti, dimenticando che questa non è che l’ennesima sconfitta della politica. Purtroppo, soltanto in un governo “tecnico” si é pronti a dare incarichi così significativi alle donne, al contrario di quanto accade in un ordinario governo “politico”.
La speranza, emersa dalle parole di tutti quanti sono intervenuti al convegno, è quello che davvero qualcosa possa cambiare, sperando che incontri come questi possano essere uno stimolo, per spronare i partiti ad osare di più, a candidare più donne, se meritevoli.
La questione è prettamente politica e, come ha sottolineato il direttore del Tg La7, Enrico Mentana, una prima soluzione può essere quella di lavorare davvero per cambiare questa legge elettorale, per scegliere con coscienza e libertà, e magari portare in Parlamento tante donne, senza ricorrere neanche alle cosiddette “quote rosa”.
L’importante per un partito, come credo, è basare sempre la propria politica sul principio di meritocrazia: perché l’importante non è essere uomo o donna, ma essere bravi.

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Tg1, è ora del Monti style

postato il 31 Gennaio 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

Berlusconi non è più a Palazzo Chigi, Minzolini ha lasciato il Tg1 per una storia di carte di credito ma al Tg della rete ammiraglia Rai poco sembra essere cambiato o almeno qualcuno vorrebbe non cambiare niente. L’idea de dg della Rai Lorenza Lei di confermare alla guida del Tg1 Alberto Maccari più che una soluzione di transizione sembra una di quelle mosse per salvare lo status quo politico e quindi non dispiacersi troppo l’asse Pdl-Lega che fino a poco tempo fa  faceva il bello e il cattivo tempo a Viale Mazzini. Non è in discussione la professionalità di Alberto Maccari ( anche se la telefonata con il finto Bossi David Parenzo è degna di un film di Alberto Sordi) ma l’immagine del Tg1 che viene da una stagione non troppo esaltante, per usare un eufemismo. Il Tg1 deve tornare ai vecchi fasti e per far questo è necessaria una direzione autorevole e di qualità che si caratterizzi per uno stile e uno spirito equivalente a quello del governo Monti. Come ha giustamente detto Roberto Rao alla Rai la resistenza degli ultimi giapponesi non serve; la guerra per il Tg1 è finita, è giunta l’ora del Monti style.

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Rassegna stampa, 29 gennaio ’12

postato il 29 Gennaio 2012
Dopo il decreto Salva-Italia, la riforma delle pensioni e le misure su liberalizzazioni e semplificazioni, il Governo Monti affronta un altro impegnativo giro di riforme, a partire dal rinnovamento del mercato del lavoro. Due letture, centrali, su questo argomento le tiriamo fuori dalla Repubblica di oggi: la prima è del vicedirettore del quotidiano, Massimo Giannini, che spiega nel dettaglio il piano di riforma elaborato dal Ministro Elsa Fornerno; la seconda è a firma, invece, di Eugenio Scalfari che, citando una sua vecchia intervista allo storico segretario della CGIL Luciano Lama, mette al muro i sindacati che continuano a dichiararsi indisponibili al piano di riforma del Governo. Del resto, Fourquet sul Sole elogia il cammino riformista intrapreso dal Governo e indica quali sono i prossimi passi da compiere: il primo, come rilancia anche Guiso sullo stesso giornale, è quello di ridurre il carico fiscale e procedere a un grande piano di standing review (meno spese per meno tasse). Spazio poi al tema della giustizia e alla possibilità dell’abolizione del valore legale del titolo di studio (noi ne avevamo scritto qui, per chi volesse conoscere la nostra opinione). Infine, da leggere il bel (e triste, purtroppo) pezzo di Pierluigi Battista – lo trovate su La Lettura del Corriere – sulla fine dell’illusione liberale nel nostro Paese: tutti liberali, vent’anni fa (forse), pochi e sparuti, i liberali di oggi.

Lavoro, ecco il piano Fornero (Massimo Giannini, La Repubblica)

Una lettera per la Camusso che viene da lontano (Eugenio Scalfari, La Repubblica)

Un poker di riforme per una svolta duratura (Fabrizio Fourquet, Sole24Ore)

Meno spese per meno tasse (Luigi Guiso, Sole24Ore)

Rai nella bufera la Lei proroga Maccari al Tg1. (Annalisa Cuzzocrea, la Repubblica)

«Libano Paese chiave, l’Italia ha il dovere di restarci». (Maurizio Caprara, Corriere della Sera)

II libro nascosto e il complesso svelato. (Aldo Cazzullo, Corriere della Sera)

Il peso (perduto) della laurea. (Andrea Garibaldi, Corriere della Sera)

Giavazzi: “Non diamo più agli atenei lo stesso peso” (Corriere)

E Scola scaricò Formigoni “Non partecipo alle marachelle”. (Andrea Tornielli, La Stampa)

Sulla giustizia l’Europa resta un miraggio. (Donatella Stasio, il Sole 24 Ore)

L’urgenza dell’agenda digitale e la fragilità (informatica) dei Comuni. (Edoardo Segantini, Corriere della Sera)

Le colpe delle banche che non fanno credito. (Dario Di Vico, Corriere della Sera)

Equità e convivenza (Enzo Bianchi, La Stampa)

La cittadinanza non basta (Giovanna Zincone, La Stampa)

La fine dell’illusione liberale (Pierluigi Battista, La Lettura del Corriere)

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Nessun bavaglio al web, #noSopa

postato il 24 Gennaio 2012

di Giovanni Villino

Mettere il bavaglio alla rete per tutelare il diritto d’autore o per difendere da truffe e aggressioni gli utenti di Internet significa voler guardare, ancora una volta, al dito e non alla luna. Una soluzione miope e, come ha sottolineato Roberto Rao, capogruppo dell’Udc in Commissione Giustizia, “tipica di una mentalità da regime totalitario”. Oggi si torna a discutere del cosiddetto “Sopa italiano”, un emendamento presentato dal deputato della Lega, Gianni Fava. Si tratta di una norma che consente la rimozione immediata di contenuti online su qualsiasi piattaforma sulla base della richiesta di «qualunque soggetto interessato». Immediata la levata di scudi in rete. Timori e malumori sono stati intercettati da diverse forze politiche che hanno presentato emendamenti soppressivi. Tra i promotori di un controemendamento l’Udc che ha presentato il documento oggi nel corso di una conferenza stampa alla Camera. “Metteremo letteralmente nel cestino una norma che rappresenta di fatto una Sopa italiana – afferma Roberto Rao – Grazie ad alcune sentinelle della Rete, che si sono accorte meglio e prima di noi, del rischio che stava correndo il web, abbiamo affrontato la questione. Con questo, tuttavia, non mettiamo da parte i problemi legati al diritto d’autore, alle truffe o alle aggressioni in rete. Sono temi che vanno affrontanti in un provvedimento ad hoc e su cui tutti iparlamentari sono chiamati, senza paura e senza pregiudizi, a confrontarsi”.


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La Borsa della Benzina non vuol dire sviluppo

postato il 21 Ottobre 2011

Mentre il  decreto sviluppo continua ad alimentare le polemiche politiche, tra chi, come gli imprenditori, chiede che la riforma sia varata in fretta, chi si oppone a una legge a costo zero e chi,  premier in testa, fa  notare che le risorse per stimolare la ripresa non ci sono, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha posto il veto su tutte le proposte del collega dello Sviluppo economico, Paolo Romani, bloccando di fatto la riforma. Tuttavia, sono iniziate a circolare nuove indiscrezioni sulla bozza di legge allo studio dell’esecutivo.

Tra le proposte spiccano la creazione di una “Borsa carburanti” e la liberalizzazione delle pompe di benzina.

Sulla borsa carburanti qualche perplessità viene da Mauro Libè, che nel suo blog scrive:

Sembra assurdo ma il decreto sviluppo é pieno di provvedimenti a costo zero ma anche a benefici ridottissimi. l’idea sull’istituzione di una Borsa sulla benzina, invece, rischia di costare e dare risultati pari a zero. Come bene spiega Mario Pezzati i margini di manovra sono vicini allo “zero”. Gli organi di guida e di controllo dei mercati sono utili se possono portare reali benefici ai consumatori. Questa idea del Governo porterà probabilmente benefici solamente ai vertici che dovranno guidarla.

Mario Pezzati, ripreso da Libè, ha infatti ampiamente spiegato che la prossima Borsa carburanti rischia di essere “l’ennesimo ente inutile creato per gettare fumo negli occhi degli italiani per dare l’impressione che il governo voglia combattere il caro benzina”.

Sempre Pezzati ci ricorda che “il prezzo del petrolio incide per meno di 1/3 (ovvero solo per il 30%) sul prezzo della benzina, il resto è dovuto alle accise (imposte varie) che impone il governo italiano e all’iva (al 20%) e al prezzo dei prodotti petroliferi finiti (raffinati)”.

Tornando alle perplessità di Mauro Libè, Roberto Rao, su twitter, rincara la dose:

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PRO BLOG: sì a una giusta riforma delle intercettazioni, no al bavaglio

postato il 5 Ottobre 2011

Il Terzo Polo ha tenuto una conferenza stampa congiunta sul DDL Intercettazioni. Presenti, l’On. Roberto Rao per l’Udc (qui trovate il suo intervento), l’On. Giulia Bongiorno per il Fli, e l’On. Pino Pisicchio per l’Api. I parlamentari, a nome di tutta la coalizione, hanno assicurato la propria disponibilità a cercare un dialogo con la maggioranza sulla regolamentazione della pubblicazione delle intercettazioni, ma hanno ribadito che sull’ipotesi di regolamentarne l’utilizzo come mezzo di indagine, non ci sono margini di discussione. Lo hanno ribadito sia Rao che la Bongiorno, che da relatrice del testo si è detta pronta a ritirare il proprio nome: «o si rispetta l’accordo o farò un passo indietro». Il Governo deve dimostrare, per una buona volta, di essere disposto al confronto parlamentare: noi, da parte nostra, abbiamo rinunciato alla pregiudiziale di costituzionalità precedentemente avanzata e ci asterremo su quelle presentate da Pd e Idv; ma il Pdl deve rinunciare all’idea di apporre la fiducia sul provvedimento, deve accettare la modifica di quella mostruosità giuridica del Comma 29 (meglio noto come ammazza blog) e garantire il ritorno al giudice unico per l’autorizzazione e la proroga degli ascolti (e non un collegio di tre magistrati, come vorrebbe la legge in esame). Del resto, come ha sostenuto Rao, noi del Terzo Polo «siamo assolutamente contrari a qualsiasi tentativo di restringere ulteriormente il diritto all’informazione, anche vietando la ricostruzione dei contenuti delle ordinanze di misure cautelari, sarebbe fuorviante e allontanerebbe la possibilità di confronto e d’intesa sul provvedimento». La soluzione sarebbe quindi riprendere la mediazione proposta a suo tempo proprio dalla relatrice Giulia Bongiorno, che rappresenta il punto di compromesso più avanzato tra le varie istanze in campo. Per dire sì a una giusta riforma, ma un no convinto a ogni tipo di bavaglio.

Noi il primo passo l’abbiamo fatto. Vedremo se dalle parti del Governo vincerà ancora una volta la voglia di voler fare le cose da soli (e pure male).

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Sky e il principio del terzo escluso

postato il 6 Maggio 2011

A Sky sembra aver trionfato l’aristotelismo. Dopo anni di battaglie contro il duopolio Rai-Mediaset  e per l’affermazione del terzo polo televisivo, nella televisione di Rupert Murdoch sembrano aver cambiato opinione ed essersi convertiti ad una rigida interpretazione del IV libro della Metafisica di Aristotele che sancisce il cosiddetto principio del terzo escluso. Peccato che in questo caso il terzo escluso non sia Sky ma i candidati del Terzo Polo alle amministrative. A pochi giorni dal voto, infatti,  SkyTG24 ha deciso di dare il via ai faccia a faccia televisivi tra i candidati alla poltrona di sindaco delle quattro maggiori città interessate dal voto amministrativo (Milano, Torino, Napoli e Bologna), limitando però il dibattito a quelli che la direzione di Sky ritiene i “candidati principali” e cioè i candidati di Pdl e Pd. Nulla da fare per i candidati del Terzo Polo, Alberto Musy (Torino), Raimondo Pasquino (Napoli) e Stefano Aldovrandi (Bologna) che come il candidato milanese Manfredi Palmeri dovranno accontentarsi di inseguire con una sedia vuota i loro contendenti per dare la possibilità ai cittadini di un confronto pubblico tra i candidati.

Vana la protesta di Roberto Rao (Udc) che ha visto in questa scelta di Sky una palese violazione del regolamento dell’Agcom e della par condicio. Questa vicenda ha però prodotto un documento notevole che spiega l’applicazione del principio del terzo escluso: si tratta della lettera con cui il neoaristotelico direttore di SkyTG24 Emilio Carelli ha risposto alle critiche mosse dall’onorevole Rao. In questa lettera Carelli spiega che  il criterio giornalistico seguito da Sky “è stato quello di invitare nel programma a rispondere alle proprie domande coloro che, nella valutazione autonoma della testata, hanno una maggiore probabilità di vincere la competizione elettorale. Circostanza che potrebbe rivelarsi non confermata dall’esito del risultato elettorale, ma sempre nel convincimento che una discussione così strutturata sia di maggiore utilità ed interesse per lo stesso telespettatore”.  Da queste parole si evince una singolare sostituzione dell’elettore con il telespettatore per cui è assolutamente comprensibile che l’interesse non sia più quello di conoscere le proposte per il governo della città da parte dei candidati sindaco: il telespettatore, secondo il direttore di SkyTG24, è interessato ad una “discussione” che è più simile ad un incontro di pugilato dove due pesi massimi se le danno di santa ragione. Indubbiamente un match di boxe è più esaltante di una tribuna politica, ma non è certo un servizio all’elettore-telespettatore. Sempre nella sua lettera a Rao, Carelli spiega che la scelta della sua testata è mossa dalla volontà di “consentire lo svolgimento di programmi televisivi chiari ed efficaci”. Secondo il direttore di SkyTG24 la chiarezza in televisione è data dalla riduzione del numero di candidati che possono paralare, la stessa logica del bipartitismo inseguito dal duo Veltroni-Berlusconi nel 2008 che per “semplificare” il sistema politico prevedeva la morte del pluralismo politico.

Sono però noti a tutti  i risultati di quella “semplificazione”. Ma essendo sicuri della buona fede del direttore Carelli e della sua volontà di rendere chiara ed efficace l’informazione, si potrebbe suggerire una modesta proposta: in nome della chiarezza e dell’efficacia SkyTG24 potrebbe dare la parola esclusivamente a quel candidato che, ad insindacabile giudizio della testata, sarà il vincitore delle elezioni. In questo modo la tv di Murdoch non solo potrebbe fare sfoggio di notevoli capacità divinatorie, magari si potrebbe invitare il mago Otelma, ma darebbe un contributo significativo alla chiarezza: i telespettatori non perderebbero una sillaba dei programmi di Letizia Moratti o di Piero Fassino che non sarebbero interrotti dai loro insulsi rivali. Qualcuno però segnala che la rivoluzione neoaristotelica di SkyTG24 è incompleta perché, a quanto pare, nel confronto dedicato alla città di Napoli il confronto sarà a tre. Tranquilli il terzo incomodo non sarà il candidato del Terzo polo, per cui  il principio è salvo: tertium non datur.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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