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Da Chianciano arriva l’agenda per la crescita

postato il 10 Settembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Cosa ci vuole per fare crescere l’Italia?

In una giornata nerissima per i mercati finanziari, funestata dalle dimissioni di Stark, membro tedesco del board della BCE , la domanda è attuale e assume ancora più importanza.

Stark era il membro tedesco nel board della BCE ed era sempre stato in aperto contrasto con i piani di intervento della BCE per sostenere i paesi a rischio, ovviamente le sue dimissioni pongono dei dubbi sulle politiche future della BCE e questo ci riguarda direttamente visti gli interventi dei gironi scorsi per sostenere i nostri titoli di Stato.

Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, durante il meeting di Chianciano ha riconosciuto che l’Italia è in pericolo, anzi ha detto testualmente: «O i problemi li diciamo chiaramente – ha aggiunto – o se li lasciamo fuori dal tavolo, se facciamo finta che non ci siano, facciamo un danno al Paese».
La Presidente di Confindustria ha anche richiamato l’attenzione su un cambiamento della percezione verso l’Italia da parte degli investitori esteri, e ha rilevato che “si sta allargando anche lo spread a nostro sfavore tra noi e la Spagna. Siamo considerati meno credibili della Spagna che aveva una situazione politica difficile, poi Zapatero ha detto “non ce la faccio più, non ho più la credibilità dei mercati, vado a elezioni”.

Eppure, la nostra economia, è più solida, basti pensare che la Spagna ha una disoccupazione ufficiale oltre il 20%, mentre noi siamo tra l’8 e il 9%, quindi noi dovremmo essere un investimento più appetibile rispetto la Spagna, eppure non lo siamo. Perché?
Perché il governo spagnolo ha avuto il coraggio di fare scelte difficili, guidate non dai sondaggi, ma da un alto senso etico e dello Stato: Zapatero ha preso atto dei problemi del suo paese, ha fatto approvare delle misure per il rilancio dell’economia spagnola e poi si è dimesso, con la conseguenza che la Spagna andrà ad elezioni anticipate questo autunno. Questa scelta non è stata vista come irresponsabile, ma anzi come una garanzia di solidità e affidabilità.

Noi invece abbiamo un serio problema di affidabilità, come ha rilevato la presidente di Confindustria che dice: «Abbiamo un problema di credibilità. O il governo, molto velocemente dimostra che è in grado di fare una grande operazione, in termini di quantità ma anche di equità, superando i veti, oppure penso che dovrebbe trarne le conseguenze perché non possiamo restare in questa incertezza».

La Marcegaglia ha criticato duramente la manovra perché «per il 60% è composta da nuove tasse. Passiamo a una pressione fiscale pari al 44,5%, cioè il massimo storico in Italia. È una manovra depressiva». Inoltre, ha insistito il presidente di Confindustria, «non contiene interventi strutturali: bisogna affrontare il nodo pensioni, fare le liberalizzazioni e le privatizzazioni».

Il capo degli industriali ritiene che si debba intervenire anche sui costi della politica «senza fare demagogia perché in un momento complicato come questo non bisogna accendere la miccia
dell’antipolitica». Ma per riuscire a tornare a crescere dobbiamo risolvere due problemi: le pensioni di anzianità, perché è inammissibile essere gli unici ad avere pensionati di 58 anni, e il lavoro femminile. Sono due problemi che devono essere risolti perché siamo molto distanti dall’Europa su questi due punti. “Quindi tutti facciano sacrifici a partire da chi ha di più: bisogna mettere insieme un sistema per cui abbassiamo le tasse su chi tiene in piedi il paese cioè i lavoratori e le imprese e alzarle sul resto: Iva, patrimoni, rendite, su tutto quello che è necessario”. Dobbiamo anche considerare i costi della politica ed è inaccettabile che con la fiducia sulla manovra il Governo abbia fatto sparire i tagli alle indennità parlamentari e agli enti inutili, mentre gli enti locali hanno circa 1 milione e duecentomila abitazioni di proprietà pubblica che costano il doppio di quanto rendono e che invece potrebbero essere usate per azzerare le situazioni debitorie degli enti locali e ridurre il debito dello Stato.

Da questo panorama emerge una cosa strana, cioè che, se dal panorama eliminiamo il fattore politico, osserviamo che in questi mesi abbiamo esportato tanto quanto la Germania e siamo il secondo paese manifatturiero europeo dopo i tedeschi, e siamo anche percepiti come partner affidabili. Quindi abbiamo un sistema economico vitale, che regge la concorrenza straniera, ma quando si guarda il “sistema Italia” inserendo nell’analisi anche la politica, diventiamo inaffidabili. E questo francamente non è accettabile, e quindi il Governo dovrebbe agire prendendo anche atto dei suoi fallimenti ed errori.

In questo solco si è inserito l’amministratore delegato di Banca Intesa, Corrado Passera, il quale ha affermato: “noi vogliamo salvarci da soli, e’ ora di finirla di pensare che l’Europa ci salvi, e’ una cosa mortificante. Abbiamo tutti i numeri per tenerci insieme e per ristrutturarci e per rilanciarci. Finché – ha detto ancora – saremo il Paese che deve essere salvato, con un membro Bce che getta la spugna e batte i pugni sul tavolo e se ne va, siamo un Paese che non conta più nulla”. Al contrario, ”se noi vogliamo essere parte della sala di regia dove siamo stati nel momento migliore dell’Europa, se vogliamo tornarci e non essere la Grecia 2 come stiamo diventando, noi dobbiamo metterci a posto da soli e possiamo farlo”.

Anche perché il nostro sistema bancario finora è stato tra i più solidi e affidabili dell’Europa, l’unico che finora ha superato tutti gli stress test, senza avere banche in crisi di liquidità, o che hanno avuto bisogno di aiuti statali o di ristrutturazioni. Le nostre banche sono, come tutto il nostro sistema economico, estremamente solide e oculate nei loro interventi e investimenti. E quando il tessuto bancario è solido, la gente ha un’arma in più, ovvero la fiducia che i loro risparmi sono al sicuro.

Passera ha ribadito che ”possiamo crescere, abbiamo i numeri per farlo, abbiamo le risorse”. Dunque, ha concluso il manager, ”dopo la manovra, che ha dei limiti, dobbiamo mettere in moto un piano ampio per salvarci da soli e tornare a essere protagonisti”.

Ma basta parlare di economia per capire un paese? Probabilmente no, e a tal proposito voglio chiudere ricordando le parole di Pezzotta che ha aperto il dibattito con una riflessione: bastano le privatizzazioni e le liberalizzazioni per la crescita di un paese? Basta il PIL a misurare la crescita di un paese? Evidentemente no, perché la crescita deve basarsi anche sull’etica e la formazione. Dobbiamo rilanciare la tradizione economica mediterranea rispetto all’economia di stampo anglosassone, dominata dall’ossessione del PIL. Il PIL è un metro di misura, ma non è l’unico, bisogna anche considerare la crescita morale, etica e culturale, ma ovviamente questi ultimi punti non devono essere usati per coprire leggerezze in politica economica.

Quindi, va bene usare il PIL come metro di misura, ma bisogna affiancarlo ad altre misure che tengano conto di altri aspetti “più umani” della vita sociale, senza che questi ultimi siano usati per giustificare l’irresponsabilità economica come è avvenuto in passato.

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A Chianciano si ragiona di economia e di futuro.

postato il 10 Settembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

Si è appena conclusa la tavola rotonda “L’Agenda per la Crescita”, incontro clou della giornata di oggi. Sul palco della nostra convention si sono confrontati – in una giornata nera per l’economia mondiale, con lo spread italiano arrivato a oltre quota 350 e con le dimissioni del commissario tedesco nel board BCE, Stark – ospiti d’eccezione, quali Emma Marcegaglia, Presidente di Confindustria, Raffaele Bonanni, segretario generale della CISL, Corrado Passera, Chief Executive Officer di Intesa Sanpaolo, Alberto Orioli, vicedirettore del Sole 24 Ore, e il nostro Savino Pezzotta, Presidente della Costituente di Centro. Si è ragionato di economia e di prospettive future, partendo dalle difficoltà della crisi che stiamo vivendo in questi mesi, in modo concreto e stimolante: in un periodo in cui il nostro Paese è sempre più teatro di lotte intestine, di incomprensioni, di scelte di campo eternamente divergenti (del resto, ieri Pisanu si è chiesto, sconsolato: “che razza di Paese siamo diventati? Non riusciamo più ad unirci nemmeno in questi casi!”), vedere i rappresentanti dell’Industria, delle Banche e dei Sindacati trovare un punto di interlocuzione comune e sviluppare una discussione comune, non è sicuramente un fatto da sottovalutare. E che ciò sia avvenuto proprio sul palco della nostra convention, altro non è che la riprova che i nostri appelli alle “responsabilità nazionale” e agli “sforzi comuni” non sono solo parole al vento: sono, piuttosto, il presupposto per poter cercare delle soluzioni coraggiose e strutturali ai nostri problemi. Perché, come ha ben detto Pezzotta, non si può pensare di trovare riparo in scorciatoie ed escamotage “tecnici”: la risposta deve venire dalla politica, ma da una politica che sappia – finalmente – diventare “responsabile” e, quindi, “istituzionale”.

In questi mesi, si è lungamente ragionato sui “limiti” della politica, che a detta di molti avrebbero rappresentato uno delle cause principali dell’esplosione dello strapotere dei mercati. Noi, da parte nostra, più che di “limiti” della politica, abbiamo sempre preferito parlare di “assenza di coraggio”, di incapacità di dettare la linea ai mercati, anziché farsela da loro dettare; ecco, perché i veri “limiti” della politica sono ben altri e ben più semplici (forse): sostanzialmente, ha ribadito Pezzotta, l’errore fondamentale sta nel fatto che i politici italiani hanno smarrito una visione di insieme e di futuro, dimenticando che la loro grande missione sta proprio in questo, nella capacità di saper interpretare i tempi e di guardare al momento di “crisi” non come una fase depressiva da domare, ma come un’occasione per fare quelle riforme strutturali ormai improrogabili per il nostro “sistema Paese”: “dobbiamo smetterla – ha tuonato il Presidente della Costituente – di scaricare le nostre colpe sui mercati. Il vero problema non è speculazione, ma  la cronica insufficienza del Governo!”. Sulla stessa linea d’onda anche gli altri intervenuti: la Marcegaglia, infatti, molto applaudita e gradita dalla nostra platea, ha impostato il suo discorso sulla necessità di un rilancio della crescita economica, da conseguire attraverso l’adozione di diversi provvedimenti in grado di contemperare le richieste di tutte le categorie sociali (per cui, sì anche alla patrimoniale, se questo volesse dire sgravi fiscali, liberalizzazioni e privatizzazioni): e, stuzzicata da una domanda del moderatore Orioli, non ha avuto problemi nel dire che se questo Governo dovesse continuare a percorrere, come ha fatto finora, la strada dell’indecisionismo,  un cambio di guida diventerà indispensabile e irrinunciabile (meraviglioso il passaggio: “noi, per salvare 158 mila pensionati 58enni padani, stiamo pagando un prezzo altissimo: è inaccettabile”). Ancora più esplicito e diretto è stato poi Corrado Passera, che ha battuto insistentemente su un punto fisso: l’Italia ha tutte le carte in regola per uscire dalla crisi da sola, non c’è bisogno di restare aggrappati all’ancora di salvataggio lanciataci dalla BCE e dalla UE. Per riuscirci, basta fare un ragionamento serio sulle priorità e sulle urgenze da risolvere, a partire dalla lotta all’evasione, che dovrebbe essere perseguita senza sconti e indulgenze per nessuno: è inaccettabile che, esclusi i dipendenti, siano pochissimi gli Italiani a dichiarare più di 100 mila euro l’anno. Interessante anche l’intervento di Raffaele Bonanni, che – pur sicuramente in una prospettiva diversa, ma non per questo antitetica da quella della Marcegaglia e di Passera – ha fatto leva sulla necessità di “modernizzare” l’Italia, facendo un esempio più che calzante: com’è pensabile che in Val di Susa, la Tav, un’opera che è già pronta da 4 anni in Francia e che ci chiede l’Europa, sia bloccata da un gruppo di facinorosi ed estremisti? Dov’è il decisionismo, la forza, l’autorità di chi governa? Magistrale a tal punto proprio l’intervento finale del presidente Marcegaglia che ha concluso la tavola rotonda: il compito che le forze responsabili del nostro Paese, in testa ovviamente l’Udc, deve essere quello di dare voce alla “maggioranza silenziosa” italiana che, al contrario di una “minoranza silenziosa”, si rifiuta di cedere al richiamo della demagogia e continua a sognare un Paese moderno. E, tutto sommato, normale.

 

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Rassegna stampa, 5 settembre ’11

postato il 5 Settembre 2011
Continua il nostro avvicinamento all’appuntamento annuale di Chianciano. Oggi ci “prepariamo” con un intervento che Casini rilascia al Messaggero, sulla necessità di un “grande armistizio” fra le parti, che chiuda la fase delle ostilità e apra il campo alle riforme strutturali e indispensabili al Paese. Oggi, dal Corriere, trovate due ottimi interventi in questo senso, di Mario Monti e Corrado Passera (che sarà nostro ospite proprio a Chianciano): in entrambi si trova un invito all’unità e alla collaborazione; bisogna saper mettere insieme le proposte migliori dell’una e dell’altra parte, per produrre (finalmente!) una manovra che sia seria, coraggiosa e soprattutto utile, in grado di “sfruttare” questo momento di crisi per rinnovarci, per fare le riforme che non possono più aspettare. Bisogna spingere, come consiglia Passera, su “competitività, efficienza del Sistema Paese, coesione sociale e dinamismo”, anche perché – ed è la stessa cosa che sosteneva Aznar sabato scorso – la BCE (che l’8 settembre si riunisce e deciderà del nostro futuro) potrà continuare a sostenerci solo se riusciremo ad essere credibili e a dimostrare di avere le idee chiare (cosa che, invece, ancora non si vede, come dimostra la delusione dei partecipanti al Forum di Cernobbio). Proprio su questo punto, imperdibile è l’analisi che fa Ilvo Diamanti su Repubblica, che – analizzando l’ultimo Atlante con le intenzioni di voto – descrive un Paese sempre più senza guida, sempre più incerto, sempre più desideroso di avere guide capaci di interpretare la nostra “esigenza di futuro”: ma sembrano, come al solito, parole al vento; chi dovrebbe ascoltarle e metterle in pratica è preso da troppi altri impegni. Nel frattempo, meno 3 a Chianciano. Continueremo lì la nostra analisi.

Casini alla maggioranza: “Basta liti, serve un armistizio” (Mario Ajello, Il Messaggero)

Formigoni: una costituente nel 2012. Casini aspetta che Berlusconi lasci (Andrea Garibaldi, Corriere)

La ricetta di Monti: pacchetto di misure con il sì di tutti (Federcio Fubini, Corriere)

Passera: “Subito la manovra, poi un Patto per crescere. Premiare chi investe” (Federico De Rosa, Corriere)

Dai politici è arrivato solo borotalco (Marco Alfieri, La Stampa)

Rutelli: “Orgoglioso del Terzo Polo. Profumo? Va bene” (Felice Diotallevi, l’Unità)

Profumo, elogi da Pd e centristi. Critico il Pdl (Corriere)

Crollano Berlusconi e Bossi, Tremonti paga la manovra. Il Centrosinistra a +9 per cento (Roberto Biorcio e Fabio Bordignon, La Repubblica)

Un Paese senza guida che non riesce a vedere gli interpreti del futuro (Ilvo Diamanti, La Repubblica)

Un Paese incerto? Banche, imprese, è ora di investire (Daniele Manca, CorrierEconomia)

Tra Bossi e Tremonti il problema è Milanese (Lina Palmerini, Sole24Ore)

Ichino: “Rischiano i dipendenti delle imprese pià piccole” (La Stampa)

Castro: “Finalmente una rivoluzione con un salto di sessant’anni” (La Stampa)

Un volto-simbolo del cattolicesimo democratico (Aldo Cazzullo, Corriere)

Mino Martinazzoli, l’uomo che chiuse l’avventura della Dc (Marcello Sorgi, La Stampa)

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Rassegna stampa, 26 agosto ’11

postato il 26 Agosto 2011
Si infiamma l’aria intorno al governo, logorato dagli scontri interni e dalle sfide che gli vengono lanciate dall’esterno. Se da una parte infatti il duello tra Berlusconi e Tremonti (e non solo: tenete sott’occhio Formigoni) ha ormai raggiunto l’apice – leggete Magri dalla Stampa e Da Milano sull’Espresso – dall’altra, la CGIL, dopo aver proclamato lo sciopero generale, si prepara alla lotta senza sconti, trovando un Pd però non più a proprio granitico sostegno (trovate la nostra posizione nell’intervista a Pezzotta sul Messaggero). Si rischia, a nostro avviso, di finire in un vicolo cieco, in una continua contrapposizione tra irresponsabili che non dialogano e irresponsabili che non ascoltano: con il risultato, così come spiega bene Menichini sul Post, di fare il gioco di chi ci governa, che si avvale delle divisioni degli avversari per coprire quelle della sua coalizione. Questo dovrebbe essere invece il tempo delle proposte e delle decisioni, come chiede Cisnetto sul Foglio, perché c’è bisogno di tornare a crescere in tempi rapidi (l’economista terzista presenta una ricetta liberista assai interessante, non condivisa però dal direttore dell’Unità, Sardo, che si dice contrario ad ogni genere di privatizzazioni): su questo campo si deve misurare la credibilità della politica – così come sostenevamo noi l’altro ieri: sulla capacità, cioè, di incidere sull’economia, anziché farsi dettare l’agenda dalle banche (interessante Carandini su Repubblica); ma, come duramente annota Prosperi sempre sul quotidiano romano, questo nostro Paese continua a restare senza guida, privo di una classe dirigente all’altezza di questo nome che sappia sul serio tornare ad accendere le speranze nel futuro.

Ecco quelli che il Cav. dovrebbe farsi da parte alla fine della legislatura (Il Foglio)

Pezzotta: “Camusso sbaglia così rafforza solo il governo” (Diodato Pirone, Il Messaggero)

Pd, nasce il fronte antisciopero (Andrea Garibaldi, Corriere)

Lo sciopero della CGIL è un errore (Stefano Menichini, Il Post)

Berlusconi sbotta: “Tremonti, adesso basta non puoi dire solo no” (Ugo Magri, La Stampa)

Dopo di me il diluvio (Marco Damilano, Espresso)

Formigoni, sfogo antipremier nella notte poi la frenata: mai chiesto passi indietro (Ettore Colombo, Il Messaggero)

Crescere, crescere! (Enrico Cisnetto, Il Foglio)

Il Bene comune (Claudio Sardo, l’Unità)

Un Paese senza guida (Adriano Prosperi, La Repubblica)

Luca in campo? Si, ma… il tempo stringe (e il consenso tra gli italiani aumenta) (Enrico Cisnetto, Il Mondo)

L’esilio della politica (Guido Caradini, La Repubblica)

Il Pd spera nella sponda della Lega (Carlo Bertini, La Stampa)

Finocchiaro: commisione per il riassetto dello Stato (Sole24Ore)

Duello all’ultimo affare (Paolo Baroni, La Stampa)

Caldoro: “Tagliamo anche le Regioni, 20 sono troppe” (Jacopo Granzotto, Il Giornale)

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Quali Eurobond? E per quale politica?

postato il 25 Agosto 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Mantovani.

Pare che stia cadendo il veto franco-tedesco sugli Eurobond, ed è un bene. Oltre che per ragioni contingenti di difesa dei debiti sovrani, rappresentano la naturale evoluzione dell’Euro ed un passo importante verso l’integrazione dell’Europa monetaria. Per di più, in questa fase di crisi di fiducia nei confronti del debito USA, sarebbero una novità probabilmente gradita dai mercati.
Ma quando parliamo di Eurobond, cosa intendiamo esattamente? E come intendiamo utilizzarli?
La lettera di Prodi e Quadrio Curzio al Sole 24 Ore pubblicata lo scorso 23 agosto ha il pregio di fare il punto sulle proposte in campo e di aggiungerne una quarta, sicuramente degna di considerazione. Inoltre, mentre altre proposte hanno per lo più un intento difensivo, questa tenta di coniugare propositi di stabilizzazione e di sviluppo. Tale proposta rimette quindi al centro la politica, troppo assente da questo dibattito, apparentemente destinato alle stanze dei tecnici.
La proposta dei nostri economisti si colloca a tutti gli effetti nell’alveo degli interventi di stampo keynesiano, che dovrebbero garantire lo sviluppo attraverso investimenti pubblici (in infrastrutture nel caso specifico). Cedendo le riserve auree delle banche centrali nazionali a fronte dell’impegno ad acquistare debito, gli Stati completerebbero un percorso di cessione della sovranità monetaria all’Europa, in cambio di un aiuto più efficace in caso di difficoltà a collocare il proprio debito. Ma è l’altro tipo di garanzia che mostra la vera natura della proposta: le quote delle grandi società di rilevanza nazionale (operanti per lo più nell’energia e nelle infrastrutture) diverrebbero così difficilmente cedibili, con la scusa di difenderle dalla speculazione. Pare quasi il preludio di una grande IRI europea, che potrebbe non dispiacere a molti governanti.
L’utilizzo dell’effetto leva sul Fondo così costituito (da riserve auree più partecipazioni) aumenterebbe inoltre il debito complessivo dell’Eurozona, pur riducendo quello dei singoli Stati. L’effetto è quindi un aumento dell’intermediazione pubblica nell’economia europea, a prezzo di un indebitamento ulteriormente crescente, che toglierebbe ogni speranza di una politica fiscale meno penalizzante di quelle attuali.
Il pregio della proposta è di essere politica, ma è questa la politica più adatta per rafforzare l’Eurozona?
E davvero basterebbe a stabilizzare il debito degli Stati? Per questo secondo obiettivo non sarebbe più efficace emettere Eurobond ed impiegarli per acquistare corrispondenti emissioni di debito degli Stati, riservate all’agenzia europea emittente, a tasso identico a quello degli Eurobond, fino a concorrenza del 60% del PIL di ciascun Paese, indipendentemente da situazioni di difficoltà o meno? Gli Eurobond sarebbero garantiti solidalmente da tutti i Paesi dell’Eurozona, potendo anche contare su risorse specifiche del bilancio UE e da una sorta di privilegio sulle entrate fiscali degli Stati.
In questo modo i Paesi virtuosi avrebbero zero o poco debito proprio da emettere, se escludiamo le emissioni “tecniche” riservate all’emittente europea. Gli altri avrebbero quote più o meno alte di debito da sopportare e tendenzialmente da azzerare, dovendo sopportare oneri finanziari che impediscono la riduzione delle imposte, ma in quantità molto più limitate rispetto al PIL e senza indebolire le garanzie. Potrebbero anche cedere quote di società partecipate, a questo scopo.
Quanto agli investimenti in infrastrutture, i vincoli non sono tanto di natura finanziaria quanto politica: project financing e/o project bond servirebbero molto meglio allo scopo. Il problema è riuscire a superare il localismo e gli interessi particolari (vedi i corridoi ferroviari e stradali, ma anche gli oleodotti).
Ciò che davvero preoccupa (e preoccupa molto i mercati finanziari) è il nanismo politico dei governanti europei, spaventati di perdere consenso e condizionati da troppi interessi particolari. Dicano con chiarezza come vorrebbero che fossero la UE e l’Eurozona, i tecnici per realizzare il disegno non mancheranno.

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La confusione di Tremonti e la concretezza di Casini

postato il 11 Agosto 2011

Nonostante l’assolata giornata estiva, una fitta coltre di nubi gravava sull’aula parlamentare dove si sono riunite le commissioni congiunte Affari Costituzionali e Bilancio di Camera e senato per ascoltare le comunicazioni del Ministro dell’Economia Giulio Tremonti.

Dopo aver parlato per tre quarti d’ora, il ministro ha sostanzialmente lasciato dietro di sé solo una fumosa cortina di buone intenzioni e confuse ricette sui modi e sui tempi necessari per tentare di uscire dalle pericolose secche in cui si trova incagliata l’economia del Paese.

La sensazione di una maggioranza di governo in piena confusione è stata poi confermata dagli interventi del segretario politico del PDL Angelino Alfano e dal Capogruppo della Lega Nord alla Camera Marco Reguzzoni; i loro interventi, lungi dal chiarire le intenzioni del Governo, hanno invece confermato le distanze tra diverse correnti anche all’interno della stessa formazione politica.

Ancora una volta, l’unico intervento chiaro e comprensibile è stato quello tenuto da Pier Ferdinando Casini a nome dei gruppi parlamentari dell’Unione di Centro. Nel suo discorso ha dapprima stigmatizzato la tendenza, che continua tuttora, della attuale compagine governativa a voler minimizzare e banalizzare la situazione italiana perché, se è verso che esiste una crisi che coinvolge l’intero continente europeo e molte altre economie mondiali, è anche vero che nascondere le specificità della crisi italiana non aiuta a trovare vie d’uscita percorribili.

Dopo aver ricordato come, di fatto, la BCE abbia “commissariato” la politica italiana con la sua lettera, Casini ha anche avvertito che il commissariamento deve intendersi rivolto all’intero sistema politico italiano, non alla sola maggioranza di governo. In merito alle proposte di riforme istituzionali, il leader dell’Unione di Centro ha bocciato duramente la proposta di modifica dell’art. 41 della Costituzione in materia di libertà economiche definendola puramente demagogica; diversamente ha concordato sulla possibilità di studiare modifiche all’articolo 81 della Carta al fine di introdurvi l’obbligo del pareggio di bilancio, pur con le dovute garanzie.

Passando a temi più rapidamente concretizzabili, Casini ha ricordato come il prolungarsi dell’indecisione sulle misure da prendere rischi di far arrivare il Paese al 2012 con la necessità di nuovi e pesanti tagli lineari che andrebbero ancora una volta a danneggiare le famiglie, le disabilità ed i lavoratori dipendenti più svantaggiati. Per scongiurare questo pericolo, la ricetta dell’Unione di Centro si basa quindi su almeno cinque ingredienti di base: costi della politica, riforma del fisco,liberalizzazioni, riforma delle pensioni e del mercato del lavoro.

Per il capitolo sui costi della politica la proposta verte sull’accorpamento dei piccoli Comuni e l’abolizione delle province con attribuzione delle relative funzioni ai Comuni, anche in forma consorziata; inoltre graduale dismissione delle partecipazioni nelle aziende municipalizzate.

Per quanto riguarda il sistema fiscale, Casini si è detto favorevole alla tassazione delle rendite finanziare, ad eccezione di BOT e CCT, e ad una seria riflessione sull’ICI la cui abolizione ha messo molti Comuni in una situazione di grave dissesto. Disco verde anche ad un contributo di solidarietà da parte dei redditi più alti con strumenti che tengano conto però della composizione famigliare del percettore.

Per dare nuova linfa all’economia del Paese, via libera anche ad un cospicuo pacchetto di liberalizzazioni che riguardino i servizi pubblici locali, le farmacie, le banche nonché le reti energetiche e le professioni. Sul punto il leader dell’Unione di Centro ha ricordato a Tremonti che l’input deve necessariamente partire proprio dal Governo che deve dimostrarsi libero dalle pressioni delle lobby parlamentari.

Sul tema della riforma delle pensioni, via libera all’agganciamento dell’età pensionabile con quello della durata della vita media ma anche in questo caso l’Unione di Centro si dichiara intransigente rispetto all’introduzione di una sorta di quoziente famigliare che consenta di differenziare il trattamento a favore dei nuclei famigliari che più di altri anno sofferto le scelte economiche fatte da questo governo negli ultimi tempi.

Ultimo punto è la riforma del mercato del lavoro, che deve partire da un concetto semplice: più flessibilità in uscita e maggiori garanzie al precariato giovane, con agevolazioni fiscali alle imprese che incentivino la trasformazione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato perché il tema della precarietà sta diventando una emergenza devastante per i giovani ed il loro futuro.

Vedremo nei prossimi giorni se questi suggerimenti concreti, saggi e socialmente giusti sapranno essere raccolti e valutati da chi ha il compito di governare questo nostro Paese.

Riceviamo e pubblichiamo Roberto Dal Pan

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Basta chiacchere, servono soluzioni. Il Nocash day?

postato il 11 Agosto 2011

Ieri il Governo ha parlato con le parti sociali, le quali al termine dell’incontro hanno dichiarato che il Governo non ha comunicato nulla enunciando solo generiche prese di posizione. Quasi contemporaneamente vi erano nuovi crolli in tutta Europa e a Milano le banche nel loro complessivo avevano una capitalizzazione di 50 miliardi di euro (di cui 37 erano quelle di Banca Intesa e Unicredit, seguite da Monte Paschi di Siena che vale 5 miliardi). Tutta l’Europa in questi giorni ha avuto cali vistosi, in particolare ieri, complice una voce, subito smentita, di un downgrade (ovvero di un peggioramento del giudizio di affidabilità) per l’economia francese. Tutto ciò è la testimonianza di un forte nervosismo che serpeggia tra gli investitori sia europei che americani, basti pensare che la banca Societè Generale ha perso ieri circa il 20%.

Il problema è principalmente legato alle incertezze dei politici che non hanno il coraggio di prendere decisioni forti, anche impopolari, preoccupati del consenso, delle elezioni, dei sondaggi, eppure dovrebbe essere chiaro a tutti che l’immobilità sta peggiorando la situazione. Personalmente sono convinto che la gente possa accettare sacrifici, ma solo se vi è un obbiettivo chiaro.

Ricordiamo tutti che nel 1992 Amato fece un prelievo forzoso per risollevare la crisi italiana; e quando Prodi fu eletto la prima volta, chiese ed ottenne una tassa una tantum per entrare nella UE. Sono due esempi di come, se si pongono obbiettivi chiari e si parla con sincerità alla gente, si ottiene una risposta positiva dalle persone. E’ inutile fare le battute, o dire che tutto va bene, perché non è così. Continuando a comportarsi in questo modo, il Governo è percepito in maniera negativa, anzi gli Italiani si sentono presi in giro. Non è il momento delle promesse vuote o delle prese di posizione ideologiche. Bisogna invece portare avanti proposte concrete, realistiche e spiegarle alla gente. Dire alla gente cosa si vuole ottenere, perché e come. Solo così la gente sarà disposta a nuovi sacrifici.

Bisogna combattere ferocemente l’evasione fiscale che in un anno è pari a 120 miliardi di euro (e non la si combatte di certo con i condoni e i colpi di spugna); se vi aggiungiamo lavoro nero, economia sommersa, riciclaggio arriviamo alla cifra di 560 miliardi di euro annui. Eppure non si riesce a scalfire questo “monte” di illegalità.

Ma non è l’unico problema, perché vi è anche l’inefficienza della macchina burocratica: prendiamo il caso di Equitalia Giustizia, costola dell’Agenzia delle entrate che dovrebbe gestire il patrimonio di beni confiscati ai malavitosi, multe milionarie ai truffatori, patteggiamenti, automobili sequestrate, beni immobili pignorati. Questi attivi si limitano a finanziare le intercettazioni: circa 268 milioni nel 2009, mentre tra il 2008 e il 2010 sono stati recuperati 4 miliardi di euro. Ebbene questo denaro finisce in depositi postali pressoché infruttiferi invece di essere rimesso in circolo per finanziare la disastrata amministrazione della macchina della Giustizia. Perché non si sbloccano questi 4 miliardi? A causa di cambi di governo, e difficoltà regolamentari, questo “tesoretto” non può essere usato.

Ma non è l’unico caso. Esistono oltre 450 miliardi di imposte accertate negli ultimi dieci anni che sarebbero “solamente” da esigere. Ma la raccolta prosegue con il contagocce: nel 2010 ne hanno recuperati circa 10 miliardi. E gli altri soldi? La lentezza della macchina burocratica, le leggi che cambiano e spesso sono retroattive (si vedano i vari condoni fiscali), le leggi di favore (vi ricordate quando parlammo delle somme perse con il condono fiscale perché le cifre accertate non furono mai richieste dallo Stato in quanto vi era una norma che “favoriva” l’evasore che pagava un anticipo?? Questo blog ne parlò esattamente un anno fa. E intanto questo tesoro di 450 miliardi si eleva al ritmo di circa 120 miliardi di euro annui, ma potrebbero essere molti di più, infatti secondo i dati 2010 del ministero dell’Economia, la metà dei contribuenti dichiara un reddito inferiore ai 15mila euro, due terzi non più di 20mila, l’1% più di 100mila, cioè 77mila persone in tutto. E per le piccole imprese e i professionisti c’è un altro dato: secondo Bankitalia è stato sottratto fra il 2005 e il 2008 il 30% della base imponibile dell’Iva, pari a 30 miliardi l’anno, come dire due punti di Pil ogni 12 mesi.
Il problema, dicono i magistrati, è che si sta andando indietro in tanti settori, dalla lotta all’evasione fino a quella alla criminalità economica vera e propria. Ancora una volta, le farraginosità dell’amministrazione pubblica (alimentate dal sospetto che una vera lotta al malaffare non convenga a tanti) fanno abbondantemente la loro parte. Il governo in carica, con la motivazione dei tagli al bilancio, ha cancellato con un colpo di penna prima la commissione anticontraffazione e poi addirittura l’Alto commissariato anticorruzione come entità indipendente (con 120 persone di staff). Al posto dell’Alto commissariato è stato insediato un miniorganismo con 20 dipendenti fra cui solo 3 magistrati, con la sede in tre stanzette in un sottoscala, alle dipendenze del ministero della Funzione pubblica che però sarebbe uno degli organismi da controllare.

Eppure le soluzioni ci sarebbero, ad esempio la tracciabilità dei flussi di denaro e in questa direzione va il Nocash day inventato dal manager Geronimo Emili, che dice: «Uno sconcertante 52,1% dei cittadini, ad un nostro sondaggio, ha risposto che usa il contante solo per mancanza di abitudine all’uso della moneta elettronica». L’iniziativa ha avuto la sponsorizzazione della MasterCard, ma anche l’appoggio di Abi e Confcommercio. Il vantaggio della moneta elettronica è la assoluta tracciabilità degli scambi di denaro e quindi l’emersione dei pagamenti in nero.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati.

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Reagire al lunedì nero

postato il 9 Agosto 2011

Esattamente la settimana scorsa avevamo scritto un articolo intitolato “Lunedi nero in Borsa: proviamo a ragionarci”, in cui esponevamo alcune considerazioni come, per esempio, che probabilmente S&P avrebbe provveduto ad un downgrade degli USA, e si è verificato. Avevamo anche rilevato come l’economia di tutta l’Europa (almeno delle grandi economie europee: Francia, Italia e Germania) stesse rallentando e oggi le borse francesi e tedesche hanno fatto peggio di quella italiana. Cosa si può dire oggi? Sicuramente che lunedì  è stata una giornata molto nervosa: prima si apre con un forte rialzo, poi si va negativi, di nuovo positivi e infine, sul crollo di Wall Street, si crolla definitivamente. C’è chi paventa una nuova crisi come quella del 2008 e chi riparla di nuovo della crisi del 1929. Su quest’ultimo punto vorremmo dire alcune cose: intanto specifichiamo che ogni parallelismo tra la crisi del 2008 o quella attuale e la crisi del 1929 è fuori luogo; con la crisi del 1929 il PIL arrivò a diminuire del 40% e con la disoccupazione che ebbe una impennata mai vista prima e arrivando a punte del 17% negli USA e del 24% in Germania a cui dobbiamo aggiungere alcuni milioni di semioccupati (il part time dell’epoca) . Da quanto detto si desume che siamo ancora lontani dalle vette (o forse sarebbe meglio dire dai baratri) del 1929, e questa è una cosa positiva. Però non dobbiamo sottovalutare la portata della crisi attuale che è una crisi essenzialmente di fiducia. Fiducia verso il futuro, verso le capacità di ripresa economica, verso una ripresa del processo di produzione di ricchezza. E oggi, possiamo dire che questa crisi di fiducia è ormai generalizzata e lo testimoniano le performance dei mercati europei e americani di oggi. Perché affermiamo che è una crisi di fiducia? Perché si è appena conclusa la “stagione” delle trimestrali, e le aziende americane ed europee hanno mostrato in media utili superiori alle attese, quindi non vi è il problema del 2008 quando alcune società molto grosse o chiusero (Lehman Brothers) o rischiarono di chiudere (Fanny Mae, General Motors, Opel ad esempio) o presentavano utili inferiori alle attese (le banche europee). In compenso, rispetto al 2008, le nazioni hanno oggi minori margini di manovra: gli stessi USA devono fronteggiare un debito molto elevato  e cercare di ridurlo, attuando di fatto, una manovra non espansiva per i mercati. A tutto questo si aggiungono i balletti della politica, non solo quella italiana, ma anche quella estera: il piano di salvataggio della Grecia, ha impiegato circa 16 mesi per diventare pienamente operativo a causa dei rallentamenti posti in atto dalla Germania (la Merkel non poteva inimicarsi l’elettorato) e degli stessi politici greci che hanno rimandato le privatizzazioni, salvo attuarle ora quando le società però si sono dimezzate di valore; l’accordo tra repubblicani e democratici negli USA è stato fortemente condizionato dalle scadenze elettorali. Questa è la situazione peggiore per i mercati, in quali soffrono tantissimo le incertezze e i continui rimandi. Quindi la risposta che bisogna dare alla crisi attuale è legata ad una azione chiara, semplice, incisiva e soprattutto rapida. La risposta in primo luogo deve arrivare dal governo che deve uscire dalla litania dei buoni propositi e impegnarsi concretamente per strutturare tutti i provvedimenti che oggi, non domani, devono essere presi. Per fare ciò è necessario l’apporto dell’intera classe politica che in questo momento storico è chiamata non solo a esprimere al meglio le proprie capacità ma anche a mostrare una supplementare dose di responsabilità per il bene del Paese. Politici della maggioranza e dell’opposizione potrebbero utilmente quello che da più parti viene definito lo “stile Casini” e che raccoglie quotidianamente elogi. Il leader dell’Udc ha dimostrato nel momento dell’acuirsi della crisi una straordinaria capacità di mobilitazione che non è consistita solamente nel manifestare in sede parlamentare al governo la disponibilità a mettere da parte le beghe politiche per cooperare sul tema scottante della crisi, ma nel sapere opportunamente indicare strade da percorrere e provvedimenti da prendere. Tra queste proposte ha meritato particolare attenzione la proposta di una commissione o tavolo comune per decidere iniziative utili alla crescita. Lo “stile Casini” è dunque un modo responsabile di fare politica, dove allo scontro fine a se stesso viene privilegiato un confronto che, anche se acceso, produce risultati e che è basato sostanzialmente sulla convinzione che tutti possono avere una buona idea per il salvare il Paese. Concretamente questo nuovo modo di affrontare l’agone politico non si è manifestato solamente nell’ultimo discorso alla Camera in occasione delle comunicazione del governo in merito alla crisi, ma quotidianamente con dichiarazioni e interventi sensati fatti di proposte e indicazioni e soprattutto con una presenza fisica a Roma e in particolare alla prossima riunione congiunta delle commissioni affari costituzionali e tesoro di Camera e Senato. Parole responsabili, proposte concrete e presenza assidua sono ciò che gli italiani, e anche i mercati, si aspettano in questo momento, è auspicabile pertanto che lo “stile Casini” prenda immediatamente piede nel Palazzo.

Riceviamo e pubblichiamo Mario Pezzati e Adriano Frinchi

 

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Tecnologia e società, il dialogo necessario per superare la crisi

postato il 4 Agosto 2011

L’andamento dell’economia a livello mondiale impone una attenta riflessione che non può più essere solo locale, ma globale. A mio avviso il progresso tecnologico ha portato al punto di rottura il sistema sociale su cui ci siamo sempre basati: il nostro sistema è centrato sull’assunto di “lavorare di più, per produrre di più e guadagnare di più”. Aumentando la produttività, aumenta la ricchezza, i consumatori aumentano e si assumono altri lavoratori. Questo trade off era particolarmente vero in una società preindustriale. Con l’avvento della industrializzazione negli ultimi secoli, si è assistito ad un prosieguo, a mio avviso fittizio, dell’assunto di cui sopra. Perché dico fittizio? Inizialmente l’industrializzazione ha portato un aumento nella produzione di merci con una progressione di poco superiore a quella del passato. Anche se di poco superiore, questa progressione aumentò enormemente la disponibilità delle merci e abbassò il loro prezzo. Al contempo il progresso tecnologico creò nuovi beni, servizi e soprattutto nuovi bisogni: l’industria dell’intrattenimento, ad esempio, è “recente”, ha circa 100 anni; come pure altri settori industriali (auto, frigoriferi, televisione, computer) e altri servizi (servizi finanziari, l’industria del marketing, della pubblicità, del turismo di massa, e così via). Chiaramente la tecnologia ci ha portato immensi benefici: la qualità della vita è enormemente migliorata, e questo è innegabile.Ma questo ci ha resi ciechi di fronte ai pericoli intrinseci, e ci “impedisce” di impostare una analisi seria della situazione attuale. La crisi mondiale ci impone di analizzare la situazione attuale, soprattutto perché, nonostante gli indici di produttività segnino un aumento costante, non altrettanto si può dire con la disoccupazione, vecchia e nuova: nell’ottobre del 2010, gli studi del FMI evidenziarono come non solo non si era ancora assorbita la disoccupazione creata con la crisi del 2008, ma che bisognava “creare” almeno 40 milioni di posti di lavoro annui (su questo punto si veda il rapporto dell’autunno scorso del FMI, su cui mi soffermerò un altro girono), per reggere le pressioni di chi si affacciava al mondo del lavoro nei paesi occidentali, in quelli arabi e senza contare le pressioni demografiche cinesi.Come si spiega l’aumento di produttività, con un indice di disoccupazione che non mostra sensibili miglioramenti? Spesso il problema si pone e viene discusso a livello nazionale, ed è una cosa logica se consideriamo che i politici devono rendere conto al loro elettorato: un politico italiano deve “tutelare” chi lo ha eletto, e quindi gli elettori italiani, la stessa cosa per i politici tedeschi (ricordiamo come la Merkel ritardò molto gli aiuti alla Grecia, proprio perché aveva prima bisogno del consenso popolare della Germania), francesi, statunitensi, cinesi e così via. Ma questo non risolve il problema, perché non lo individua correttamente. Il problema, come ho accennato prima, risiede nel fatto che ormai la tecnologia, permette una produzione sempre più automatizzata, con tassi di efficienza e produttività sempre più alti e sempre meno bisogno di manodopera umana. Per fare degli esempi: nell’industria dell’auto gli impianti sono quasi totalmente automatizzati e una fabbrica con 7000 operai può oggi produrre lo stesso quantitativo di macchine che prima producevano 20.000 operai. Altro esempio è nell’industria dei microchip: oggi si può produrre lo stesso quantitativo di microchip del 2000, impiegando solo un quarto della forza lavoro che serviva nel 2000: in pratica oggi con 25 operai si produce quanto 10 anni fa producevano 100 lavoratori. E questo processo è in atto da anni, solo che non ce ne rendevamo conto, perché con il progresso tecnologico si creavano nuovi settori produttivi (ad esempio il marketing) e nuovi bisogni (ad esempio fino a 20 anni fa, chi aveva bisogno di un cellulare?) su cui si spostava la forza lavoro in eccesso degli altri settori. Oggi purtroppo non si riesce più a creare nuovi servizi, o nuovi prodotti, si tende a migliorare ciò che c’è, e anzi si procede ad una automazione sempre maggiore. In Francia le aziende hanno bloccato le assunzioni, come anche in Italia, e la Germania tiene grazie alle esportazioni, ma anche nel paese della Merkel si notano i primi rallentamenti. Pensare che una nazione possa lavorare ed esportare a tempo indeterminato, è utopico: la tecnologia e il sapere sono facilmente esportabili e replicabili. Il Brasile, la Cina, l’India ne sono un esempio. E quando i lavoratori cinesi e indiani passeranno dall’agricoltura all’industria, cosa avverrà?

Un altro esempio sono gli uffici pubblici o privati: un tempo i documenti dovevano essere archiviati, e vi erano enormi archivi cartacei e persone che si occupavano del loro controllo e dell’archivio, ma oggi con i computer, questo stesso lavoro può essere svolto da una persona.

Le banche, ad esempio, stanno investendo molto sui servizi via internet e sui bancomat “evoluti” dove si può non solo prelevare, ma anche pagare utenze e depositare soldi.
Ma se queste operazioni si possono fare da casa o tramite bancomat, viene meno la funzione di chi lavora allo sportello e con il tempo molte filiali potrebbero chiudere.Giusto per citare una notizia di questi giorni la banca britannica Barclays  ha annunciato che potrebbe tagliare circa 3mila posti di lavoro nel 2011 nell’ambito del piano per ridurre i costi. Il numero uno del gruppo, Bob Diamond, ha detto nel corso di una conference call, che nel primo semestre c’e’ stata una riduzione di 1.400 posti. Il gruppo ha chiuso i primi sei mesi dell’esercizio con un utile netto in calo del 38% a 1,50 miliardi di euro a fronte di un risultato di 2,43 miliardi registrato nello stesso periodo dell’anno precedente. Ma allora quale è la soluzione? Rifiutare la tecnologia? Assolutamente no. Come ho detto la tecnologia ha migliorato la nostra qualità di vita.

Semmai la risposta può essere nel cambiare la nostra struttura sociale, e per fare ciò bisogna che questo problema si ponga a livello internazionale portando avanti nuove regole comuni a tutti.

Il progresso tecnologico, avrebbe dovuto portarci a lavorare meno: con un minore numero di ore di lavoro si può produrre lo stesso quantitativo di prodotti di qualche anno fa.

Oggi, ognuno di noi, tende a lavorare più degli altri, ma la tecnologia ci permetterebbe di lavorare di meno e lavorare tutti: meglio che lavori una persona 8-12 ore e un’altra sia disoccupata, o che tutte e due lavorino magari 4-6 ore a testa?

L’incidenza del “costo umano” con il progresso tecnologico si va riducendo, inoltre il maggiore costo di un maggiore numero di impiigati, verrebbe riassorbito perché se lavorano molte persone, queste stesse persone, avendo uno stipendio, potranno acquistare beni e servizi (mentre è lapalissiano che chi non lavora, non avendo una fonte di reddito, non può spendere).

Questa soluzione potrebbe anche non bastare o non essere gradita.

Allora si potrebbe anche ipotizzare una distinzione tra “beni necessari” e “beni non necessari”: per quelli necessari potrebbe provvedere lo Stato, per quelli non necessari si provvederebbe individualmente con il proprio lavoro. Ad esempio, si può pensare una abitazione standard per tutti, e poi se io lavoro e guadagno posso comprarmi una casa più bella. Il progresso tecnologico ha permesso l’abbattimento dei costi di molti beni di prima necessità.

E’ ovvio che sto solo abbozzando delle ipotetiche soluzioni, ma quel che mi preme è di porre il problema, perché solo ponendolo si può iniziare a trovare una soluzione.

Il vero problema non è la crisi contingente, ma che il nostro modello sociale di sviluppo sta mostrando la corda, ora che il progresso tecnologico ha permesso un aumento esponenziale della nostra produttività.

Se questo problema non verrà dibattuto nelle sedi apposite, dubito che avremo delle soluzioni strutturali ed efficaci ai problemi della disoccupazione mondiale

Riceviamo e pubblichiamo di Mario Pezzati

 

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Rassegna stampa, 28 luglio 2011

postato il 28 Luglio 2011
Ieri, dopo tanta attesa e tante prove, il Premier Silvio Berlusconi ha dato finalmente via al rimpasto di governo, che almeno in questa fase, si è “limitato” alla nomina di due nuovi ministri: Francesco Nitto Palma va alla Giustizia, al posto del dimissionario Angelino Alfano, mentre sulla poltrona di Ministro delle Politiche Comunitarie – vacante da più di 6 mesi – arriva l’ex finiana Anna Maria Bernini. I giornali oggi dedicano molto spazio specie alla prima nomina: tra gli articoli da noi selezionati, potete trovare: due ritratti del neoministro – uno dal Giornale e uno dal blog Nonleggerlo, giusto per la par condicio; la reazione dei magistrati e gli auguri del vicepresidente del Csm, Michele Vietti; le mosse (da La Stampa) che hanno portato a questa designazione. Designazione, dietro la quale si cominciano a disvelare le prime mosse della segreteria Alfano: una strategia che Marcello Sorgi, su La Stampa, non esita a definire “in vecchia salsa democristiana”, evidenziandone i numerosi limiti, mentre Errico Novi si concentra sul “padrone del deserto”, riferendosi a un Silvio Berlusconi sempre più attorniato dalle macerie e che ora – leggete Ugo Magri sempre sul quotidiano torinese – pensa, per rilanciare la sua attività di governo, di tornare direttamente a Forza Italia: se questa è la novità… Infine, sempre nella nostra rassegna stampa, troverete: la bufera in cui è finito il Ministro Tremonti (leggete il commento di Romano sul Corriere); una spiegazione di Alessandro Campi, sul Foglio, dell’intervista rilasciata da Fini a Repubblica su un Governo Maroni-Pd-Terzo Polo; un’analisi dei guai del Pd, con due editoriali a firma di Geremicca e Battisti e l’immancabile e preciso retroscena di Labate sul Riformista.

Nitto Palma e Bernini. Nominati i nuovi ministri (Paolo Festuccia, La Stampa)

Un uomo chiamato “cavillo” che cita anche Blade Runner (Paolo Bracalini, Il Giornale)

Immunità, assenze, gatti parlanti e problemi rettali: lo ricordiamo così (Nonleggerlo.blogspot)

Le toghe volevano un politico: “Ma almeno sa di cosa parla” (Giovanni Bianconi, Corriere)

Gli auguri di Vietti: collaboriamo (Avvenire)

Alfano e i rischi di una strategia tutta Dc (Marcello Sorgi, La Stampa)

La costituente dei moderati (secondo i suoi protagonisti) (Annamaria Gravino, Secolo)

“Moderati, uniamoci come in Europa” (Davide Re, Avvenire)

Il padrone del deserto (Errico Novi, Liberal)

Il Cavaliere medita: ora torno a Forza Italia (Ugo Magri, La Stampa)

Affitto in nero, Tremonti nella bufera (Alberto D’Argenio, La Repubblica)

Romano – Quel che Tremonti non ha detto (Sergio Romano, Corriere della Sera)

E’ battaglia al Senato sul «processo lungo» (Gianni Santamaria, Avvenire)

Ecco a cosa pensava Fini quando ha fatto l’endorsement di Maroni (Alessandro Campi, Il Foglio)

Umberto Magno, il papa-re con l’impero in rivolta (Carlo Puca, Panorama)

Romano & C., l’allegro pool degli impresentabili (Chiara Paolin, Il Fatto)

Resta il nodo dei ministeri al Nord (Marzio Breda, Corriere)

Nel lessico indignato del leader la scarsa diversità del Pd (Pierluigi Battista, Corriere)

La sfida finale di Pier Luigi (Tommaso Labate, Il Riformista)

La riflessione che il Pd deve fare (Federico Geremicca, La Stampa)

Fotovoltaico, la scommessa persa (Antonio Fraschilla e Dario Prestigiacomo, La Repubblica Palermo)

Dura lex sed unisex (Rocco Buttiglione, Liberal)

Mercati e risparmio. Le banche pagano i timori sul debito (Fabio Pavesi, Sole24Ore)

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