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La dura vita di una piccola imprenditrice

postato il 11 Marzo 2011

Vivo a Casalgrande in provincia di Reggio Emilia, ho una PMI a conduzione familiare e da 5 anni ho anche dei dipendenti. Ho iniziato la mia attività con tanto sudore e sacrificio, lavorando 7 giorni su 7, e posso dire che fino a 3 anni fa si lavorava e si riusciva a stipendiarci decentemente per poter portare avanti l’attività.

Poi il mondo mi è caduto addosso, nel senso che il lavoro non manca, ma la politica e le banche ci hanno tagliato le gambe. Da un lato le tasse non fanno che aumentare, dall’altro le banche non aiutano, anzi rendono dura la vita di un piccolo imprenditore: non danno nessun aiuto creditizio, fidi eliminati, rientri in conto corrente in meno di 24 ore, e chi più ne ha più ne metta.
I dipendenti vanno pagati, hanno famiglie da mantenere; i fornitori vanno pagati, altrimenti la materia prima non ce la consegnano e noi non riusciamo a lavorare, ma noi, come piccoli imprenditori, siamo arrivati al fondo del barile!

Ho capito principalmente che il Governo vuole abbattere le PMI e mantenere le grandi aziende, ma questo stesso Governo non capisce che sono le PMI che mandano avanti l’Italia e che arricchiscono le banche. Il Signor Tremonti, il Signor Berlusconi, hanno dichiarato che le banche avevano avuto i loro crediti per sostenere le PMI.

Ebbene io dico: VERGOGNA! Tutte parole spese all’aria, tutte falsità, provate andare in banca e chiedere se realmente quello che hanno dichiarato è realtà…… solo bugie. Personalmente sono stanca di sentire solo i casi di Berlusconi e della sua cricca e spero che tutti gli italiani si sveglino. Lui è un imprenditore e tira l’acqua al suo mulino, non può governare l’italia in questo sistema, prima toglie le tasse e poi le rimette raddoppiate.
E noi Italiani? Ebbene io vedo attorno a me tanti Italiani che hanno paura di parlare, che si svegliano al mattino con la paura di iniziare la giornata, la gente è triste, sfiduciatia, le famiglie non arrivano più alla fine del mese, le famiglie vendono la casa, perché
temono il minimo imprevisto (una malattia, un guasto alla macchina). Spero vivamente e con tutto il cuore che le PMI, i dipendenti, anzi tutti gli italiani percepiscano bene quello che sto scrivendo e che inizino a combattere per le nostre idee, ma soprattutto che i nostri Governanti, governino e non stiano solo a parlare.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Cristina Meglioli

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Parmalat, il silenzio assordante del governo

postato il 4 Marzo 2011

Se non fosse per il Decreto Milleproroghe, che contiene di tutto e di più, si può affermare che il Governo si è dimenticato dell’economia.

In questi giorni, c’è l’aumento dei carburanti, ma il governo non prende alcun provvedimento, tanto paga il cittadino. In questi giorni si discute dei futuri assetti di Parmalat, azienda “gioiello” del settore alimentare italiano, e il governo glissa, dopo avere preso un provvedimento che rischia solo di peggiorare la situazione.

Ma andiamo con ordine.

Dopo che Parmalat è stata “graziata” dalla legge Marzano, è rinata con una proprietà azionaria polverizzata. Nel frattempo è stato messo a capo di Parmalat Bondi, il quale ha adottato una strategia molto prudente, che inizialmente poteva pure andar bene, ora non più. Teniamo presente che Parmalat non ha debiti, produce utili e ha 1,4 miliardi di euro di liquidità che provengono dalle cause risarcitorie che ha vinto. Per statuto, può distribuire come dividendi ai soci solo il 50% degli utili annuali.

Indubbiamente la gestione Bondi produce utili, ma con l’enorme cassa detenuta, la società, secondo gli analisti e gli azionisti, potrebbe intraprendere una strategia di crescita con acquisizioni o distribuire un dividendo più alto.

Proprio per questo motivo, tre fondi di investimento esteri (Skagen, Zenit, e Mackenzie) hanno rastrellato il 15% della società e vogliono proporre una lista alternativa all’attuale Consiglio di Amministrazione, in pratica eliminando Bondi, affinchè l’enorme liquidità di cui sopra venga distribuita con un dividendo straordinario, o serva per fare delle acquisizioni.

Il governo, volendo difendere a tutti i costi Bondi, è intervenuto: prima sondando i fondi e cercando un accordo con loro per mantenere gli attuali vertici societari, poi, visto che non ha avuto risultati, inserendo nel decreto milleproroghe una norma che blocca le modifiche dello statuto di Parmalat fino alla scadenza del concordato (che avverrà nel 2020).

I fondi di investimento non hanno desistito e hanno continuato a formare una “lista” per sostituire l’attuale dirigenza di Parmalat.

A questo punto, il governo si è defilato e le banche hanno provato a cercare dei “cavalieri bianchi”, ovvero degli acquirenti che possano difendere Bondi e la italianità di Parmalat.

E arriviamo alle notizie di questi giorni: Luca Cordero di Montezemolo con il suo fondo Charme sarebbe interessato all’acquisizione, ma solo se entrano altri fondi di investimenti, anche perché, servirebbe almeno 1 milairdo di euro per il 30% della Parmalat (fatti salvi ulteriori obblighi di Opa e quindi altri esborsi di denaro), e il fondo Charme non li ha a causa di perdite pregresse. Le necessità del fondo Charme sarebbero risolte se nella cordata entrassero altri imprenditori e soprattutto Banca Intesa, che preme per fare fondere Parmalat e Granarolo (di cui la banca detiene il 15%), ma quest’ultimo punto, se da un lato favorirebbe Banca Intesa, dall’altro mancherebbe di senso a livello industriale: le due società non sono complementari, operano negli stessi mercati, e dovrebbero, anzi, cedere pezzi dei loro business in Italia a causa dell’antitrust. Quindi una operazione finanziariamente conveniente per i big (non per i piccoli azionisti), ma dalle scarse prospettive industriali. In ogni caso al momento, anche per i tempi risicati (le liste per sostituire il cda devono pervenire entro il 18 marzo), la cordata italiana sembra molto difficile da realizzare.

Nel frattempo è scesa in campo anche una grossissima società brasiliana per acquistare Parmalat, la Lacteos do Brasil, la quale metterebbe a capo della Parmalat, il manager gerardo Bragiotti, e sostiene che manterrebbe due sedi centrali: una in Brasile e una in Italia.

C’è da chiedersi: per quanto tempo manterrebbe queste due sedi centrali? E chi avrebbe realmente il controllo?

Su tutto questo il governo tace. Ma il rischio è che chi compra Parmalat poi assorba la liquidità per i suoi scopi e non certo per il benessere di tutti gli azionisti, ottenendo in tal modo di comprare Parmalat usando gli stessi soldi dell’azienda (tecnica nota come “leveraged buy out”).

Come ho detto, il governo sembra essersi defilato, ma questo silenzio non è accettabile se consideriamo che parliamo di una azienda che fattura oltre 4 miliardi di euro l’anno e garantisce molti posti di lavoro in Italia.

Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Aggiornamento del 7 marzo 2011:

Come previsto, a causa dei tempi risicati, la cordata italiana difficilmente vedrà la luce, infatti il fondo Charme di Luca Cordero di Montezemolo ha deciso di rinunciare, anzi ha affermato in una nota “di non avere allo studio, e di non essere in alcun modo coinvolto, in alcuna ipotesi relativa alla creazione di cordate per acquisire quote di tale società”.

A questo punto restano due contendenti a fronteggiarsi (senza considerare Bondi che ha fatto sapere di non volere schierare una sua lista, ma lasciare la decisione sul suo futuro agli azionisti): i fondi stranieri Zamechi, Mackanzie, Zenit (a cui sembra che si sia aggiunto il fondo Blackrock che detiene il 6% della società), e l’ipotesi prospettata da banca Leonardo di trovare una “combinazione” con la società brasiliana Lacteos do Brasil.

Si vocifera di manovre di Mediobanca e Banca Intesa, ma sembrano voci senza alcun fondamento e soprattutto, senza un piano industriale da proporre.

Fermo restando che le aziende devono essere libere di agire e che non spetta alla politica guidare le aziende, è anche vero che scopo della politica e del Governo è anche quello di disegnare il quadro normativo in cui le aziende si muovono, e soprattutto quello di vigilare nell’interesse di tutti: deigli azionisti (anche di minoranza), dei risparmiatori, dei consumatori e dei lavoratori.

A tal proposito, si continua a registrare la latitanza del Governo.

Aggiornamento dell’11 marzo 2011

Come ormai tutti sanno, Bondi, amministratore delegato di Parmalat, rischia di essere estromesso dalla società. La sua rispsota non è quella di presentare un piano industirale valido che convinca gli azionisti, ma semmai di cercare l’appoggio del governo che lo difenda, magari con qualche nuova interpretazione della legge Marzano.

Il punto per me non è l’italianità, che nel mondo gloablizzato odierno rischia di essere un concetto obsoleto, ma se una azienda ha un percorso di sviluppo. E questo dovrebbe anche essere l’interrogativo principale di un governo serio che abbia una politica economica degna.

Putroppo si registra l’ennesimo caso in cui il governo, se interverrà, lo farà solo tramite spot elettorali senza pensare realmente a cosa sia meglio per i lavoratori e gli azionisti di una azienda.

E su quest’utimo punto credo che sia doveroso affermare che non è vero che gli interessi degli azionsiti e dei lavoratori sono divergenti, ma anzi sono coincidenti, perchè una azienda che si sviluppa, porta lavoro per i lavoratori, e porta valore per gli azionisti.

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“Prima il Veneto”… ma Zaia si è dimenticato della montagna veneta

postato il 22 Febbraio 2011

“Prima i veneti” recitavano gli i manifesti elettorali di Luca Zaia. Intanto è stato negato un assessorato ad un bellunese, la promessa di occuparsi in prima persona della provincia di Belluno e dell’intera montagna veneta non è stata mantenuta, Hanno saputo solo sbandierare il federalismo come cura di ogni male del nostro territorio, senza però dire che non toccherà i privilegi dei vicini autonomi e che l’unica certezza è l’aumento delle tasse.

Prima il Veneto… ma quando ci sono da discutere i tagli alle regioni il nostro Presidente diserta i tavoli, e capita che in due anni la nostra regione perderà circa 800 milioni di euro a beneficio di Roma Capitale o, come piace chiamarla ai leghisti “Roma Ladrona”. Eppure il nostro Presidente Zaia non manca mai quando c’è da mangiare, con i colleghi Ministri della Repubblica con immancabile fazzolettino verde, polenta e pajata.

Prima il Veneto… è questi giorni l’ennesimo schiaffo alla montagna veneta, che già soffre la concorrenza dei vicini a statuto autonomo, con la ripartizione dei fondi per i comuni montani che assegna al nostro territorio solo il 2,66% dei circa 16 milioni e mezzo di euro disponibili, insomma, solo le briciole mentre la fetta più cospicua della torta è andata a Campania e Calabria rispettivamente con 28,97% e 17,51%, territori che hanno avuto già molti contributi in passato e la cui montagna non è paragonabile a quella alpina.

Qualcuno, come il Presidente della Provincia di Belluno Bottacin si chiede come mai ci siano tutte queste proteste e ricorda che l’assegnazione avviene sulla base della cosiddetta “spesa storica”(un meccanismo arrugginito che premia gli sperperatori), oppure qualcun’altro cerca di giustificarsi dicendo che il Veneto è una delle regioni con la più alta percentuale di territorio pianeggiante, dimenticandosi, incredibilmente, di una provincia interamente montuosa.

Si tratta solamente di scuse. La Lega che governa a Belluno, Venezia e Roma dovrebbe, invece di giustificarsi, spendere le proprie energie per modificare questi meccanismi che tanto critica.

Qualcuno sicuramente leggendo queste righe penserà: “è colpa dell’UDC che non ha fatto passare il federalismo fiscale”. A questa obiezione sinceramente rispondo che l’UDC fa  il suo “mestiere” di opposizione, mentre stupisce che Pdl e Lega, che sono al governo, diano sempre la colpa agli altri per i loro errori e le loro negligenze.

Mi piacerebbe nei prossimi giorni sentire qualche leghista alzare la voce, magari a Roma o ad Arcore, in difesa del proprio territorio, invece di piangersi addosso ed addossare le colpe al sistema ereditato da chissà quale governo passato. Non ci si può scandalizzare se alcuni comuni od un’intera provincia vogliono lasciare il Veneto per andare col Trentino Alto Adige o col Friuli, se ci si ricorda di loro solo nei due mesi di campagna elettorale mentre in concomitanza con il voto di fiducia si riesce a far sbloccare 750 milioni euro e la gestione del Parco dello Stelvio.

É ora che gli amministratori locali di questi territori montani, di qualsiasi schieramento,  facciano sentire la loro voce, unendo le forze con quelli lombardi e piemontesi che certamente non se la passano meglio e chiedere un vero federalismo, per non far morire il nostro territorio.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Maurizio Isma

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Rassegna stampa, 18 febbraio 2011

postato il 18 Febbraio 2011
Vi ricordate quando, in occasione del voto di sfiducia al Governo Berlusconi, avevamo paragonato il Parlamento a Piazza Affari, con le quotazioni di governo e opposizioni in continuo saliscendi e con annessi azionisti che passavano agilmente da uno schieramento all’altro? Ecco, adesso – visto che si avvicina la data del processo a B. per i fattacci di Arcore, il grande valzer parlamentare è ricominciato e il Transatlantico viene battuto dal trio “pigliatutto” (leggete il Messaggero): Verdini, Santanché e Moffa che sono alla ricerca di tutti i disperati, tormentati e dubbiosi possibili. Futuro e Libertà, per esempio, ha perso 2 deputati e 2 senatori (e altri sembrano tentati da un ritorno a casa) e i pretoriani del Premier sembrano rinvigoriti: pare, addirittura, che si stia pensando alla creazione di due nuovi gruppi, tra Camera e Senato, di “meridionalisti” e “settentrionalisti”, di “ali Sud” e “ali Nord” (o erano Curve?); e ci sono anche grandi sorprese, come quelle di Paolo Guzzanti: ha infatti deciso di dismettere i panni di primo profeta della mignottocrazia berlusconiana e di indossare quelli di figliolo al prodigo, andando a ingrossare le fila dei Responsabili. Dicono bene Casini, che spiega come B. si batta con le idee e non con le “Sante Alleanze”, e Fini, che sul Secolo d’Italia scrive di un’altra Italia, che vive (e soffre, aggiungiamo noi) fuori dal Palazzo. Peccato che non la pensino tutti come noi.

Casini chiude a Bersani: no alla «santa alleanza» (Lorenzo Fuccaro, Corriere della Sera)

Casini seppellisce la grande alleanza (Paolo Festuccia, La Stampa)

L’altolà dì Casini: non crediamo alle sante alleanze anti-Berlusconi (Claudio Rizza, Il Messaggero)

E Casini mette i paletti: «No a sante alleanze anti-Silvio, mai l’Udc assieme al Pd» (Francesco Ghidetti, QN)

Casini: “Ha ragione lui, Silvio ha un impero” (Avvenire)

Casini affonda la Santa Alleanza: «Sarebbe un regalo per Silvio» (Libero)

Berlusconi gongola: “Ora tutti in piazza” (Amedeo La Mattina, La Stampa)

Fuori dal palazzo c’è un’altra Italia (Gianfranco Fini, FFwebmagazine.it)

Sorgi – La mancata rinuncia alla Presidenza della Camera rischia di costare carissima (Marcello Sorgi, La Stampa)

Conflitto d’attribuzione, i paletti della Consulta: «La competenza è della Cassazione» (Virginia Piccolillo, Corriere della Sera)

Di Pietro vota con la maggioranza. Scatta l’ira di Pd e centristi (La Stampa)

Baio Dossi: «Cattolici a disagio anche nella sinistra» (Ettore Colombo, Il Riformista)

Sudisti tirolesi ed ex moralisti: l’esercito della salvezza (Mario Ajello, Il Messaggero)

Economia della conoscenza – Il digitale non distrugge trasloca l’occupazione (Luca De Biase, Sole24ore)

Mario Draghi: “Basta banche troppo grandi per fallire” (Alessandro Barbera, La Stampa)

Il pugno di ferro di Gheddafi, la rivolta s’estende, venti morti (Giampaolo Cadalanu, La Repubblica)

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100% Made in Italy, il fattore umano dell’impresa, il federalismo: la parola a Confartigianato

postato il 21 Gennaio 2011

La redazione del blog pierferdinandocasini.it intervista quest’oggi il Presidente Nazionale del gruppo Alimentari Vari di Confartigianato, dott. Mauro Cornioli che ringraziamo per la disponibilità.

Il suo settore come sta vivendo la crisi internazionale di questi anni?

Nonostante la crisi finanziaria, posso affermare che il settore alimentare si sta comportando molto bene. Consideri inoltre che la piccola impresa si difende meglio perché realizza un prodotto tipico di una determinata zona, che da un lato non è facilmente omologabile o replicabile altrove, e dall’altro si presta bene anche ad essere esportato quando è un prodotto di qualità.

D’altro canto mi sembra che, nello specifico della sua azienda, il settore erboristico ha vissuto con la globalizzazione e l’import-export con i paesi orientali come ad esempio la Cina, e quindi siete “abituati” a confrontarvi con il Mondo.

Indubbiamente si. Basti pensare a Marco Polo e alla “via della seta” con la Cina su cui transitavano anche spezie e piante officinali. Si importavano prodotti 500 anni fa dalla Cina, si importava dalla Cina 100 anni fa, si continua ad importare dalla Cina anche adesso.

Oggi però vi sono stati alcuni cambiamenti: alcuni prodotti che venivano importati dalla Cina, ad esempio, ora sono importati dall’Est Europa, e certe merci importate dall’Est Europa sono di nuovo prodotte in Italia e poi esportate. Ma questo non è l’unico mutamento.

Un cambiamento molto importante, e che premia l’economia italiana, proviene dal rialzo del costo della manodopera cinese a seguito della crescita di questo paese e il risultato è una crescente difficoltà per i cinesi nei settori dove è preponderante appunto il costo della manodopera.

In molti si lamentano della scarsa capacità competitiva dell’Italia, per migliorare questa situazione, lei cosa farebbe?

E’ importante ripristinare la verità rispetto alla confusione che impera attualmente. Per fare un esempio: una etichettatura trasparente sarebbe molto importante. Ci sono le intenzioni, ma poi queste ultime non si traducono in fatti. La legge Reguzzoni – Versace sul Made in Italy che fine ha fatto? E’ una vergogna che la legge, anche se approvata, sia sparita perchè i decreti attuativi non sono stati fatti. Come vede ci sono buoni slanci, ma poi ci si ferma. E questo non è possibile

Lei cosa suggerisce a tal proposito?

Non mettiamo i dazi, ma trovo che sia una vergogna che i paesi del Nord Europa dicano che l’Italia, paese con una grande tradizione manifatturiera ed estremamente competitivo in termini di manualità, di idee e di inventiva, non possa proteggere il Made in Italy. Il consumatore deve essere informato e deve essere certo che contenuto ha quel prodotto, perché, se vuole un prodotto italiano, deve sapere come e dove è stato prodotto, come diceva le legge Reguzzoni – Versace.

Quindi mi sembra di capire che lei sostenga che la legge Reguzzoni – Versace avrebbe permesso di distinguere tra un prodotto etichettato Made In Italy, ma che di italiano ha solo il passaggio finale e che magari è prodotto altrove, ed un prodotto che è fatto interamente in Italia.

La legge Reguzzoni – Versace cosa diceva? Dava forza ad un nuovo marchio che era culturalmente forte e vincente, ovvero il marchio “100% made in Italy”, così il consumatore sapeva che il marchio “Made in Italy” poteva indicare anche un prodotto che in parte era fatto anche in Cina, mentre il marchio “100% Made In Italy” indicava un prodotto fatto interamente in Italia, tutti così sarebbero stati coscienti di quel che compravano. La piccola impresa che produce esclusivamente in Italia, sarebbe stata premiata.

A proposito di grandi imprese: in questi giorni vi è stato il “referendum” di Mirafiori. A mente fredda, lei che impressione ha avuto dell’intera vicenda?

In questo momento il sindacato deve svincolarsi dal difendere chi fa assenze ingiustificate o chi non comprende l’importanza di essere altamente produttivi. Ecco, se il sindacato continua questa difesa, allora sbaglia.

Ma sbaglia anche Marchionne, perchè non si possono buttare via 60 anni di relazioni in 5 minuti. La trattativa doveva essere gestita meglio e la vittoria è stata sofferta. Per altro nessuno ha parlato della cosa più grave che è successa, ovvero che la Fiat è uscita da Confindustria.

Scusi, potrebbe esplicitare meglio questo suo concetto su Confindustria e Fiat?

Io mi chiedo: cosa farà ora Confindustria senza la Fiat? E le altre imprese resteranno in Confindustria o anche loro se ne usciranno? Lo stile Fiat diventerà un modello per tutti ? Anche perchè bisogna vedere cosa decide di fare la Confindustria che è pur sempre uno dei maggiori sindacati datoriali, inteso come sindacato dei datori di lavoro. Bisogna vedere, infatti, se manterrà un concetto etico fondato sulle relazioni sindacali e il confrontro con lo Stato o se deciderà di raggiungere Fiat nelle sue scelte di rottura. Inoltre si apre un altro quesito molto importante: considerando che all’interno di Confindustria vi sono aziende a partecipazione statale (le ferrovie, Finmeccanica, Enel, Eni per citarne alcune), è giusto che lo Stato paghi Confindustria seppur attraverso il constributo associativo? O questo non genera un conflitto di interessi visto che, senza Fiat, cresce il peso dello Stato all’interno di Confindustria che a sua volta dovrebbe confrontarsi con il governo sui temi lavorativi? Ecco, queste sono domande importanti a cui bisognerebe dare risposta, ma che sembrano non trovare posto nel dibattito odierno.

Sostanzialmente lei afferma che vi è il rischio che in Confindustria restino solo le aziende a partecipazione statale o che quanto meno abbiano un peso preponderante; e considerando che queste stesse aziende pagano un grosso contributo associativo a Confindustria, si potrebbe prefigurare una sorta di conflitto di interessi, giusto?

Assolutamente si, anzi vi è anche una concorrenza sleale verso le altre associazioni datoriali, come Confartigianato, CNA, Confcommercio, e così via, che per essere più forti hanno dato vita a Rete Imprese per porsi come quarta gamba del tavolo nelle trattative. Però noi viviamo solo delle quote associative pagate dalle piccole imprese totalmente private, mentre Confindustria, come detto, ha anche questo contributo da parte delle aziende a partecipazione statale.

A proposito di Rete Impresa, Guerrini, il presidente dell’associazione, ha parlato del rischio che il federalismo fiscale porti nuove tasse alla piccola impresa. Lei che ne pensa?

Consideri che la fiscalità generale è rimasta elevata, e in più sono stati aggiunti in questi anni, tutta una serie di balzelli locali anche in ossequio a direttive europee, come quella per i controlli sui prodotti alimentari attuata dalle ASL ad esempio. E qui mi chiedo: il federalismo fiscale non è che porterà nuove tasse a livello comunale, provinciale, regionale? Tenga presente che il piccolo imprenditore non ha usufruito dello scudo fiscale, perchè la grandissima maggioranza delle piccole imprese pagano regolarmente le tasse. Noi vogliamo vedere, ad esempio, come si svilupperò il discorso sugli studi di settore e il redditometro, che può anche essere utile nella lotta all’evasione. In questo momento bisognerebbe tutelare davvero la piccola impresa che fa fatica a chiudere i bilanci, anzi capita che vi è gente che lavora anche in perdita pur di ammortizzare i costi fissi.

Per finire mi piacerebbe un suo giudizio sul ruolo delle banche in Italia. Verso gli istituti di credito vi è un rapporto ambivalente da parte del grande pubblico: da un lato si chiede rigore agli istituti di credito per evitare che possano esservi fallimenti come è accaduto negli USA, dall’altro si chiede maggiore elasticità verso il credito alle famiglie e alle imprese. Lei da imprenditore, sente le banche italiane come amiche o pensa che sono “fredde” verso il sistema produttivo e le sue esigenze?

Questo inseguire il modello americano, non è l’ideale, perchè il modello anglosassone ha prodotto la crisi, di contro il sistema bancario italiano, con le sue particolarità si è difeso meglio: grazie all’aver evitato di concedere credito facile garantendosi sempre della capacità di rimborso, sul credito al consumo, su investimenti rischiosi. Però il sistema bancario italiano ha perso il rapporto che aveva prima con l’imprenditore. Troppa attenzione ai bilanci e poca verso l’imprenditore, verso la famiglia, verso le persone .

Bisogna recuperare la dimensione dei valori, dove è necessario mantenere l’attenzione ai bilanci delle piccole imprese, ma poi la banca deve anche valutare il passato e le prospettive future dell’imprenditore. Un imprenditore che magari non ha il bilancio in attivo, ma che investe nella propria impresa, dove la famiglia intera partecipa all’attività imprenditoriale , è un imprenditore che meriterebbe di essere aiutato. Bisogna recuperare il rapporto umano tra l’imprenditore e la banca.

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Rassegna stampa, 28 dicembre ’10

postato il 28 Dicembre 2010

Segretario Bersani, cosa farà il suo partito nel 2011? «Chiedetelo a Casini» (Jena, La Stampa)

Bondi e Consulta, i timori del premier (Massimo Chiari, Avvenire)

Posti per i centristi Berlusconi, nuovi ostacoli al «piano allargamento» (Paola Di Caro, Corriere della Sera)

La Lega offre una pace impossibile al Pd per reclamare meglio il voto (Il Foglio)

L’attivismo leghista che preoccupa il Pdl (Lina Palmerini, Sole24Ore)

Pacchi bomba, la Grecia nel mirino (Maria Corbi, La Stampa)

Si indaga sulle rivelazioni di Belpietro (Corriere della Sera)

“Finto attentato a Fini”, è scontro (Giovanna Casadio, La Repubblica)

Legittimo impedimento. Consulta, spunta l’ipotesi del compromesso «mirato» (M. Antonietta Calabrò, Corriere della Sera)

«Sondaggio anti-Idv taroccato». Lite Flores D’Arcais-Di Pietro (Dino Martirano, Corriere della Sera)

“Stringeva accordi coi narcotrafficanti così il generale Ganzer tradì lo Stato” (Emilio Randacio, La Repubblica)

Iervolino: “La colpa non è mia, Caldoro gioca col fuoco e non usa i suoi poteri” (Dario Del Porto, La Repubblica)

Rusconi – Le amnesie dei cattolici in politica (Gian Enrico Rusconi, La Stampa)

Binetti: la legge arrivi in aula (Corriere della Sera)

Giovannini (Istat): “Non rottamiamo il Pil, ma vogliamo capire come cambia il Paese” (Lucio Cillis, La Repubblica)

Sull’orlo del fallimento 100 banche Usa: “Strozzate dai prestiti a rischio” (Angelo Aquaro, La Repubblica)

Al Sud benzina verde a 1,5 euro (Franco Sarcina, Sole24Ore)

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Tirrenia di Navigazione, gli sviluppi

postato il 23 Novembre 2010

La vicenda della Tirrenia e della sua privatizzazione si arrichisce di nuovi sviluppi e forse siamo arrivati alle battute finali. I conti della Tirrenia sono  in profondo rosso a causa della scriteriata gestione degli anni passati: abbiamo detto delle 6 navi  acquistate anni fa e mai messe in mare nonostante siano costate complessivamente 300 milioni di euro perchè o consumano troppo o addirittura hanno una navigazione difficile con mare agitato; abbiamo detto che chi acquistava Tirrenia lo faceva con la garanzia di  72,6 milioni di aiuti pubblici l’anno per otto anni per Tirrenia e 55,6 (per 12 anni) per Siremar (sempre del gruppo Tirrenia); abbiamo detto di come, al momento del bando di vendita, alla fine nessun acquirente avesse chiuso la trattativa con lo Stato.

Chiusa quindi il primo tentativo di vendita con un nulla di fatto, il governo italiano ha deciso di tentare nuovamente la vendita della Tirrenia, anche perchè obbligato dalla UE.

Di questo nuovo bando non si sa nulla, se non quello che è trapelato da qualche intervista fatta a chi vorrebbe partecipare. Ma andiamo con ordine.

Intanto per rendere il piatto più appetibile, il governo ha diviso Tirrenia Viaggi da Siremar di cui ha dichiarato lo stato di insolvenzaseppure il Governo avesse dichiarato che non ci sarebbe stato il famoso “spezzatino”,  la divisione delle società (magari facendo come con Alitalia, ovvero vendendo ai privati la parte buona, tenendo per lo Stato i debiti)riproponendo la vendita per la sola Tirrenia.

Il governo ha fatto partire la nuova procedura di vendita, affidandola alla banca d’affari Rotschild, la medesima che nel 2008 aveva valutato Alitalia.

Ovviamente in questo non c’è nulla di male, non sono molte le banche d’affari e gli advisor internazionali che possono gestire una operazione di queste dimensioni, ma suona strano che ti questa nuova vendita non si conosca nessun particolare o condizione di vendita, se non che le offerte dovranno pervenire a gennaio dopo 6 settimane durante le quali i possibili acquirenti potranno studiare i conti della Tirrenia.

Intanto l’armatore italo-svizzero Gianluigi Aponte, afferma che intende partecipare alla gara tramite la compagnia Grandi Navi Veloci, di cui ha appena acquisito il 50% con la MSC e darà vita al nuovo marchio Gnv-Snav. Aponte, assieme a ad altri due armatori italiani molto noti, Grimaldi e Onorato, darà vita ad una newco che sarà guidata dal manager Ettore Morace, e si chiamerà Compagnia Italiana e avrà lo scopo, tra le altre cose, di acquisire la Tirrenia.

Il nome della newco, richiama alla mente la CAI di Colaninno che ha rilevato la vecchia Alitalia. Sarà un caso, o forse no, che Aponte era inizialmente azionista della stessa CAI e poi è uscito dall’azionariato.

Aponte ha dichiarato che parteciperà alla gara per Tirrenia, perchè “i debiti statali se li accollerà lo Stato”.

Quindi, dalle parole di Aponte, si desume che la nuova vendita di Tirrenia potrebbe essere l’ennesimo regalo che il generosissimo governo Berlusconi sta facendo a spese degli italiani, perchè in pratica ai cittadini resterà da pagare il salatissimo conto dei debiti della Tirrenia, che ammontano a circa 3 miliardi di euro, mentre la parte profittevole verrà ceduta. Ovviamente a nostre spese.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzanti

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Rassegna stampa, 21 novembre

postato il 21 Novembre 2010
Ricchissima l’assemblea dell’Udc di ieri a Milano (qui e qui le nostre analisi): il confronto tra la Marcegaglia e Bonanni ha infatti fornito diversi spunti di riflessione per il dibattito politico. A cominciare proprio dal forte richiamo che ha fatto il Presidente di Confidustria: un appello alla “responsabilità” e al bisogno di “governabilità”, che – ha detto – l’Udc ha sempre garantito in questi anni (La Stampa scrive di una vera e propria “chiamata”). Imperdibile anche Bonanni che – come ci racconta il Corriere – ha “tuonato” sia contro Marchionne che contro la Fiom, assicurando che per il dialogo con con la Fiat ci stanno ancora “otto giorni” per capire cosa si vuol veramente fare. Altra notizia importante di ieri è stata senza dubbio l’annuncio delle dimissioni “dal Pdl, da ministro e dal Parlamento” di Mara Carfagna, che è stanca delle lotte intestine all’interno del Pdl (e Berlusconi che fa? Niente, glissa: non si sente per nulla “tribolato”). Da leggere poi su La Repubblica due articoli economici: l’editoriale di Scalfari (che parla di “insostenibile leggerezza” della manovra Tremonti) e il retroscena di Giuseppe Turani sulla Lega diventata come il PSI.

Casini: partecipiamo al governo se c’è vero cambiamento (Sole24Ore)

Casini: Al Governo, purché cambi (QN)

Bonanni: otto giorni a Marchionne (Corriere)

Se il Nord fa gli errori del Sud (Il Mattino)

Marcegaglia-Bonanni: no alle urne ma vogliamo un governo che governi (Avvenire)

Marcegaglia: “Udc nell’esecutivo. Elezioni Soluzione estrema” (Corriere)

Marcegaglia “chiama” l’Udc nel governo (La Stampa)

L’insostenibile leggerezza della manovra di Tremonti (La Repubblica)

L’idea di finiani e centristi: la fiducia ci fa gioco (Corriere)

La Lega e le banche come il vecchio Psi (La Repubblica)

La Carfagna ha deciso: “il 15 lascio il governo, il partito e il Parlamento” (Il Messaggero)

Il 67% degli elettori Udc vuole l’alleanza con Fli e Pd (Corriere)

Fli: Silvio si dimetta e l’Udc entri nel governo (Il Messaggero)

Debito pubblico, per ogni cittadino un fardello di 30 mila euro (Corriere)

Berlusconi: “O la fiducia o vinco alle urne. La signora Carfagna non mi fa tribolare” (La Repubblica)

Commenti disabilitati su Rassegna stampa, 21 novembre


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