Libia: sapevamo del blitz, il Paese va stabilizzato
L’intervista di Sabrina Pignedoli, pubblicata su Il Resto del Carlino
Gli USA hanno cominciato raid aerei in Libia. Pier Ferdinando Casini, lei attualmente è presidente delle Commissione esteri del Senato. Come valuta questo attacco?
«Credo sia un ottimo intervento. Prima di tutto è stato il governo libico di Sarraj a richiederlo e questo legittima sempre di più la sua autorità. Inoltre è importante la completa liberazione di Sirte, di fatto è già avvenuta. Questo avrà come risultato stabilizzare maggiormente la Libia».
In cosa consiste l’intervento?
«A Sirte i misuratini hanno già avuto 350 morti e 1.800 feriti. Non possono permettersi altre perdite. Per questo è stato chiesto l’intervento Usa. Sirte è già per la maggior parte sotto il controllo del nuovo governo libico, ma manca una piccola enclave, dove si sono asserragliati pochi resistenti attorno a un palazzo dei congressi. I civili, invece, hanno già lasciato la città».
Era inevitabile un attacco militare?
«Prima o poi bisognava fare i conti con la stabilizzazione della Libia. Solo le anime belle potevano pensare che fosse a costo zero».
L’Italia è stata avvertita di questo raid?
«Certamente».
Perché Sarraj non ha chiesto il nostro intervento? Il governo Renzi aveva detto di voler essere in prima linea in Libia.
«Probabilmente Sarraj sa quanto sarebbe stato lungo per l’Italia approvare un raid aereo come quello che, invece, è stato autorizzato senza troppe lungaggini dal presidente americano dopo aver sentito il parere del segretario della Difesa. Il nostro ruolo è stato fondamentale in questi mesi, abbiamo aiutato la formazione di un governo in Libia, lo abbiamo reso protagonista. E anche oggi, con questa richiesta ha mostrato una sua autosufficienza».
Questi attacchi cambieranno gli equilibri internazionali, soprattutto per quel che riguarda il terrorismo?
«L’Isis è una minaccia chiara e più si allenta la presa territoriale del Califfato in alcune aree, come Siria, Iraq e Libia, più rimangono schegge impazzite che vengono esportate per attacchi. A queste poi si uniscono i lupi solitari che, di fatto, colpiscono dopo un indottrinamento su internet. La minaccia del terrorismo, al di là di questi raid, è permanente, duratura e inevitabile».
Le azioni militari, quindi, non risolvono il problema dei foreign fighter?
«Nei giorni scorsi parlavo con il premier tunisino. Mi spiegava che loro hanno circa 6mila foreign fighter che stanno rientrando dai campi di addestramento del Califfato. Mi ha detto: ‘Non possiamo metterli tutti in galera’. Anche perché tra quelle migliaia di persone ce ne sono molte che rientrano maledicendo il giorno in cui sono partiti. Altri si fingono ‘pentiti’, ma invece tramano attacchi. Vengono monitorati. Ma il problema per queste persone, anche quelle deluse dallo Stato islamico, è il contesto sociale in cui rientrano».
In che senso?
«Per paura di attacchi terroristici la gente non va più in vacanza nei paesi del Nordafrica. C’è un livello di disoccupazione crescente. L’Europa non può solo pensare a bloccare i rifugiati, deve anche aiutare le attività economiche locali, altrimenti è una battaglia che non si vince».
Non crede che l’attacco militare possa essere in contraddizione con questa visione?
«L’aiuto militare è la prima fase. In Libia è necessario per la stabilizzazione. Dopo sarà necessaria una seconda fase di aiuto sociale. Occorrono politiche di vicinato coi paesi del Mediterraneo, non solo accordi con la Turchia di Erdogan per bloccare i migranti. Non c’è solo il contenimento: l’obiettivo è aiutarli a casa loro».