postato il 9 Maggio 2011 | in "Interventi, Spunti di riflessione"

Il Grande Vuoto

La lezione dello statista Dc rispetto alla politica fatua e oligarchica di oggi

di Pier Ferdinando Casini

Il trascorrere del tempo non ha fatto venire meno il senso di vuoto indotto dalla mancanza di Aldo Moro. Al contrario, proprio in questi ultimi anni, la sensazione palpabile che si avverte tra gli italiani quando si ricorda lo statista barbaramente assassinato dalle Brigate Rosse, è che questo vuoto si sia acuito. Un fenomeno che, forse, può essere spiegato anche con lo smarrimento profondo e generalizzato che si avverte di fronte ad una politica fatua e distante dal Paese, che ha raggiunto ormai livelli di personalizzazione esasperata e senza precedenti nella storia dell’Italia repubblicana, proprio mentre nessuna delle personalità in campo sembra poter reggere il confronto con uomini della statura politica e morale di Moro.
Viviamo giorni, settimane e mesi, d’altro canto, in cui la memoria collettiva pare avere finalmente un soprassalto di vitalità e d’orgoglio, in un Paese che troppo a lungo negli ultimi anni è sembrato in un certo senso averla collocata in sonno; mentre oggi, almeno questa è la speranza, forse comincia a comprendere che senza memoria le Nazioni si riducono a veicoli che procedono a fari spenti nella notte. Così si inquadra nella sua corretta dimensione il successo delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. In tal modo si giustifica l’attenzione e la partecipazione riscossa dalla Giornata della memoria dedicata questa mattina dal Presidente della Repubblica ad altri servitori dello Stato che hanno pagato con la vita la loro fedeltà alle istituzioni, i magi- strati, uccisi dal terrorismo eversivo e dalla criminalità organizzata.

Viviamo, d’altronde, giorni in cui le intuizioni di Aldo Moro, ancora così vivide sul piano della politica interna da costringere ognuno di noi, ciclicamente, a confrontarsi con il suo pensiero, appaiono illuminanti anche sul piano dell’analisi degli scenari internazionali, cui pure dedicava massima attenzione nell’ambito della sua attività di governo e di partito. C’è una frase pronunciata in un discorso nel 1967, quando ancora la democrazia era assai distante dall’affermarsi non solo nell’Europa del blocco comunista, ma pure nei Paesi ai confini meridionali del Vecchio Continente, dal Portogallo, alla Spagna, alla Grecia, che anche per questo suona ancora più carica di significato politico per quel tempo, oltre che di evidente attualità nel mondo contemporaneo. Affermava Moro nel suo discorso: «…se io mi domando come sarà il mondo di domani, credo di poter dire che esso sarà pacifico se sarà democratico…».
L’estensione e l’applicazione dei principi democratici in un numero sempre crescente di Paesi nel mondo, unite alla speranza della costruzione di una pace solida e duratura tra i popoli, sia pure tra mille contraddizioni, costituiscono oggi forse l’obiettivo primario dell’umanità e una precondizione essenziale per lo sviluppo economico e sociale di aree sempre più vaste del pianeta. Appare lecito, dunque, affermare, sia pure con la dovuta cautela tenuto conto dei mutamenti occorsi nel mondo negli ultimi quarant’anni, che Moro, tra i primi, aveva compreso la crescente interdipendenza tra le diverse nazioni e i diversi tenitori, così come dai suoi discorsi e dai suoi scritti traspare a più riprese il presentimento che il blocco comunista avesse ormai percorso gran parte del proprio orizzonte temporale e che presto o tardi gli Stati avrebbero dovuto cimentarsi nella costruzione di un nuovo ordine mondiale. Ma, se molteplici sono gli spunti di riflessione sulla politica estera che hanno resistito al succedersi delle stagioni per giungere fino ai nostri giorni, indubbiamente ancora più numerosi sono i punti di contatto tra gli scritti e i discorsi di Moro negli ultimi anni della sua attività politica e il nostro tempo sul piano della politica nazionale. Il dibattito di oggi ne offre una rappresentazione plastica.

Il volume di Miguel Gotor che viene presentato qui per la prima volta scava con metodo scientifico sotto ogni riga del memoriale di Moro giungendo a dimostrare che vi sono state almeno due mani censorie che hanno lavorato in tempi differenti sul copioso materiale scritto dallo statista nei 55 giorni di prigionia e giunto a noi in fotocopie ritrovate in tempi, e stagioni politiche, differenti. Si tratta di conclusioni inquietanti che aprono nuovi interrogativi sul memoriale, sulla prigionia di Moro e sugli eventi salienti della storia Repubblicana prima e dopo la sua uccisione. Alcuni passaggi sono stati modificati, altri ci sono stati sottratti e la ricerca, dunque, lungi dall’essere terminata, può semmai aver individuato un solido punto di partenza per merito del certosino e illuminato lavoro di Gotor.
Ma che con il pensiero di Moro siamo obbligati a continuare a confrontarci, non solo sul piano storiografico, ma anche sul piano politico, è dimostrato dagli interventi delle persone sedute intorno a questo tavolo. Personalità che hanno conosciuto e frequentato Moro direttamente e che sono testimoni diretti della non scalfita validità di una porzione rilevante delle sue riflessioni politiche. Nonostante la moderazione che lo induceva a non sbilanciarsi mai oltre quanto imposto dalle circostanze e a dosare tempi e modi delle sue prese di posizione, non v’è dubbio che Moro perseguisse un disegno lucido e consapevole. Un progetto che mirava a sviluppare e completare la democrazia nel nostro Paese, ponendola al passo con le trasformazioni, innanzitutto di natura sociale ed economica e, poi, di natura politica, che egli coglieva ormai prossime alla maturazione nelle aree più avanzate, come in quelle più direttamente influenti sull’Italia, del mondo. Fu tra i primi a comprendere che tra politica e società si stava scavando un solco pericoloso e che in assenza di una ritrovata sintonia la politica avrebbe via via smarrito gli strumenti per leggere i mutamenti in atto nella società italiana, e quindi anche la sua capacità di guida, finendo col subire quanto avveniva e, forse, col venirne travolta. Alcune sue parole pronunciate nel 1976 danno conto di questa preoccupazione e a distanza di 35 anni mantengono inalterata la loro potenza espressiva. Affermava Moro: «È diminuito il potere dello Stato. È giusto dunque temere per lo Stato democratico, dubitare che esso non riesca ad essere uno strumento aperto, flessibile, ma istituzionalmente capace di dare alla libertà tutto il suo spazio. L’equilibrio tra le crescenti libertà della società moderna ed il potere necessario all’ordine collettivo è fra i più grandi, se non il più grande problema della nostra epoca». A preoccupare non erano solo i fili del cambiamento che si dipanavano dai movimenti nati spontaneamente nelle società occidentali dopo il 1968, le tensioni internazionali crescenti tra i due blocchi contrapposti, il progressivo esaurimento della spinta propulsiva che aveva caratterizzato l’economia mondiale nella prima fase post bellica e, di conseguenza, anche il boom economico italiano, ma pure l’affastellarsi di gravi episodi di violenza interna di matrice terroristica di destra e di sinistra che cominciavano a prefigurare una certa “strategia della tensione”.

E’ in tale contesto che Moro inizia a sollecitare un cambiamento nella politica italiana, a cominciare dal suo partito, la De, cui non nasconde la necessità di «essere alternativa a se stessa» pena la perdita di contatto e presa sulla società e dunque la sua delegittimazione che, inevitabilmente, avrebbe significato anche delegittimazione del governo del Paese. Concetti che dopo le elezioni del 1975 si fanno ancora più stringenti, quando Moro per la prima volta parla apertamente di “terza fase”. Una terza fase che avrebbe dovuto riguardare ancora in primis il suo partito, ma che dopo il risultato elettorale del 1976, che Moro non esitò a giudicare come contrassegnato dalla presenza di due vincitori, si sarebbe dovuta estendere all’intero sistema politico, compreso dunque il Pci, che al pari della Democrazia Cristiana egli vedeva, al di là dei risultati nelle urne, sempre meno protagonista e sempre più distante rispetto ai mutamenti in corso nella società.
E’ in atto nella vita italiana, diceva «un moto indipendente dal modo di essere delle forze politiche, alle quali tutte, comprese quelle di sinistra, esso pone dei problemi non facili da risolvere. Questo è un moto che logora e spazza via molte cose e tra esse la “diversità” del partito comunista». La lucida lungimiranza di quei concetti, a distanza di 35 anni dalla loro enucleazione, appare ancora stupefacente. Ma ciò che lascia ancor più amareggiati, oltre che stupefatti, è che 35 anni dopo, quei problemi, al di là delle torsioni e dei mutamenti avvenuti nel corso della storia dopo la morte di Moro, rimangono sul tappeto e interpellano con identica forza persuasiva l’intero sistema politico di oggi.

Sappiamo tutti com’è andata. Il quadro politico che Moro tentò invano di modificare e che, forse, se la violenza omicida delle Brigate Rosse non si fosse accanita contro di lui, avrebbe condotto alla transizione, ha iniziato ad infrangersi con la sua morte ed è venuto definitivamente meno quindici anni dopo. Ma dalle ceneri di quel sistema non è nata una terza fase per la nostra Repubblica.
E’ nata, semmai, una fase ibrida e informe, di cui chiunque avverte la provvisorietà, nella consapevolezza che qualcosa di diverso ci attende dietro l’uscio, anche se a quell’uscio guardiamo ormai da venti anni. Quel che è certo, in ogni caso, è che ciò che ci attende è ben lungi dall’essere definito. Al contrario, dovrà essere costruito. E quindi non possiamo permetterci di attendere pigramente con le mani in mano. La sua uccisione, insomma, ha davvero aperto in tutti noi un vuoto incolmabile. Moro, contrariamente al modo in cui è stato a lungo descritto dai suoi detrattori, era un lucido conservatore. Il “compromesso storico”, il dialogo con il Pci di Berlinguer erano ben altro e assai più che un accordo di potere.
Erano semmai il tentativo più avanzato del superamento di una contrapposizione che dopo 30 anni cominciava a logorare entrambi i partiti di massa. Un passaggio fondamentale per giungere ad una compiuta democrazia dell’alternanza nel nostro Paese.

Dietro questa lettura è possibile scorgere con chiarezza anche la ragione per cui le Brigate Rosse lo colpirono. Il vero nemico, agli occhi dei terroristi, ancor prima che la Democrazia Cristiana, era il Partito Comunista Italiano. Il loro richiamo, diretto e senza mediazioni, al marxismo-leninismo conduceva inevitabilmente alla rottura con la sinistra parlamentare, percepita come traditrice e nemica delle masse proletarie. Uccidere Moro, che perseguiva apertamente un progetto di rinnovamento del sistema politico italiano, la fine della “conventio ad excludendum” di forze vive e presenti nel tessuto sociale del Paese, e dunque il rinnovamento anche del Pci che a quelle forze ambiva a dare voce politica, significava colpire al cuore quel disegno. In parte, la loro analisi si rivelò esatta: privato di Moro, il sistema politico si sarebbe avvitato su se stesso fino ad autocondannarsi.
Quella stagione si è chiusa definitivamente. Ma mentre nuovi pericoli incalzano e minacciano gli Stati moderni e, in particolare, l’Italia – il populismo, l’individualismo, il relativismo etico, l’egoismo localistico, gli opposti estremismi – la lezione di Moro rimane una traccia preziosa per avviare una nuova fase di sviluppo e di crescita. Anche per onorare al meglio la sua memoria, siamo chiamati a fare ogni sforzo per seguirla.



Twitter


Connect

Facebook Fans

Hai già cliccato su “Mi piace”?

Instagram