postato il 24 Novembre 2012 | in "Giustizia, In evidenza, Riceviamo e pubblichiamo"

Il grado di civiltà di una società si misura dalle sue prigioni

“Riceviamo e pubblichiamo” di Vincenzo Massimo Pezzuto

Un tempo le prigioni, o meglio le carceri giudiziarie, erano luoghi dove espiare un qualcosa di ben definito, la risposta dello Stato verso chi commetteva dei reati. Il principio era prettamente retributivo, legittimo e doveroso era retribuire il male con il male. La pena era fine a se stessa, senza scopo alcuno al di fuori della realizzazione dell’idea di giustizia. Successivamente la funzione della pena si è collocata anche su un altro piano, quello della prevenzione, per cui la sanzione criminale ha la funzione di “prevenire” i delitti mediante l’efficacia intimidatoria che le è inerente.

Nella nostra “Mater Lex”, a dimostrazione che l’Italia (almeno sulla “carta”) possa essere considerato un Paese civile, afferma al 3° comma dell’art. 27 che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Sulla “carta”. Ebbene si. Sarà che il nostro ordinamento non ha ben compreso che il diritto penale è estrema ratio, ma nelle 206 carceri italiane di spazio proprio non ce n’è. Sono 21 mila i detenuti in più, rispetto ai posti letto disponibili nei penitenziari del nostro Paese: ovvero, 145 persone per 100 letti. La situazione degli istituti di pena (ad es. Poggioreale ha superato la sua capienza massima del 50%, con 2.600 detenuti), ha indotto il Capo dello Stato ad affermare che si tratti di “una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana – fino all’impulso a togliersi la vita – di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo”.

Il sovraffollamento, le pessime condizioni igienico-sanitarie, la carenza di fondi per la manutenzione ordinaria, sono tutti nodi che non sono venuti al pettine negli ultimi tempi, sono questioni di “civiltà” che ci trasciniamo sulle spalle da decenni. Quale rieducazione ai fini del reinserimento in società può esserci in queste condizioni? Dall’inizio dell’anno all’estate appena trascorsa, sono morte in carcere 89 persone, 31 delle quali per suicidio. Il fallimento della macchina “punitiva”, soprattutto di quella “rieducativa”, è sotto gli occhi di tutti. Basti pensare che secondo una statistica ben 7 detenuti su 10 ritornano a delinquere, quindi a rioccupare il proprio posto in cella. La soluzione al problema non può neanche essere costituita dal ricorso all’indulto, soprattutto perché nella nostra penisola tale strumento ha svilito l’esigenza di certezza della pena. Due soluzioni a basso costo potrebbero risolvere un problema così importante: lavoro per i detenuti e costruzione/ristrutturazione delle carceri. Quanto alla prima, è ormai acclarato che solo il 12% di coloro i quali, durante la detenzione in carcere, hanno avuto la possibilità di fare veri lavori per conto di imprese o cooperative, sono ritornati a delinquere. Tutto ciò è possibile grazie ad una legge del 2000 (Legge Muraglia) che prevede incentivi fiscali (516 euro di credito d’imposta per ogni detenuto) e contributivi (80% di riduzione) a favore delle aziende che decidono di cercare manodopera all’interno delle carceri. Dal 2000 la legge è stata rifinanziata sempre con gli stessi soldi: 4,6 mln euro all’anno, permettendo solo a 2.257 detenuti di poter entrare nel circuito lavorativo.

Un circuito che dati alla mano, sarebbe l’unico in grado di garantire una vera e propria riabilitazione ai fini di un corretto reinserimento di chi nella vita ha commesso qualche errore. Senza dimenticare che anche l’altra tipologia, seppur meno incisiva della prima, di lavoro carcerario ha subito forti tagli (spesini, scopini, scrivani, portavitto, gabellieri, manutentori…). Ogni punto percentuale di recidiva in meno significa restituire alla società circa 700 ex detenuti che non delinqueranno più, che non graveranno più sullo Stato con costi riguardanti i beni rubati, rapinati o danneggiati, le cure mediche per le ferite personali, la polizia, i magistrati, i cancellieri e tutta la macchina giudiziaria.

Ma c’è di più. Lo Stato risparmierebbe di botto 35 mln euro l’anno, considerando che le stime più contenute indicano 140 euro come costo giornaliero per ogni detenuto. E qui giungiamo alla seconda soluzione, strettamente legata alla prima. Dove reperire le risorse per l’ampliamento/costruzione delle carceri? Dalla riduzione della recidiva, grazie alla soluzione già proposta. Abbiamo a portata di mano lo strumento che ci permetterà di ottenere un contenimento dei costi, il raggiungimento dello scopo rieducativo della pena e la possibilità di riammodernare l’assetto infrastrutturale carcerario italiano. Ora tocca alla classe politica darvi atto.

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