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Referendum, i due quesiti sull’acqua

postato il 8 Giugno 2011

A pochi giorni dal voto sui referendum provo ad esporre e riassumere i due quesiti sull’acqua, le posizioni e gli effetti dell’eventuale vittoria dei Sì e del raggiungimento del quorum.

PRIMO QUESITO:

Il primo quesito proposto dai promotori dei referendum incide sull’art. 23 bis del decreto Ronchi, che riguarda tutte le liberalizzazioni dei servizi pubblici locali (acqua, ma anche rifiuti e trasporti).

Provando ad entrare un po’ nel merito, e lasciando quindi da parte la retorica dell’acqua che passerebbe ai privati (Il decreto Ronchi riafferma invece che l’acqua, e ovviamente le infrastrutture, rimangono di totale proprietà pubblica), il decreto Ronchi si occupa di liberalizzare la gestione dei servizi pubblici, cercando di favorire una gestione sempre più industriale di servizi e beni comuni così importanti. Lo fa perché lo dice il buonsenso, la normativa europea e un percorso politico degli ultimi vent’anni, portato avanti anche e principalmente dal centro-sinistra (guarda un po’ anche dall’ex ministro Di Pietro).

Il decreto Ronchi spinge per le liberalizzazioni ma non dà, come invece falsificano i promotori, la gestione ai privati. Piuttosto la novità vera sta nella procedura ad evidenza pubblica, che i Comuni devono mettere in atto per scegliere il gestore. Le possibilità di affidamento del servizio, che il decreto Ronchi prevede sono le seguenti:

– assegnare la gestione del servizio pubblico locale tramite gara ad evidenza pubblica, a cui possono partecipare società private, società miste, società totalmente pubbliche (cioè le attuali municipalizzate);

– dare la gestione del servizio senza fare la gara ad evidenza pubblica ad una società pubblica o mista, sempre che questa faccia entrare il privato almeno al 40% delle quote e questo privato sia scelto tramite gara ad evidenza pubblica;

– esiste infine una terza ipotesi, in cui le società potranno mantenere l’ipotesi “in house”, ma in deroga, qualora si dimostrasse la specificità di un territorio che non preveda le condizioni per mettere in atto le liberalizzazioni.

Considerazioni: Insomma alla fine le soluzioni liberalizzatrici sono “parecchio all’italiana” che, per un liberale come me, portano a dire che il decreto Ronchi sia stato anche troppo morbido, non a caso la proposta del ministro On. Linda Lanzillotta del governo Prodi, affossata per le divisioni interne e la crisi prematura del governo, era ancora maggiormente liberalizzatrice.

Le municipalizzate totalmente pubbliche, se efficienti, insomma non si capisce cosa dovrebbero temere da gare trasparenti: credo sia molto probabile che queste siano le favorite a vincere la gara, essendo da anni gestori del servizio. Se non la vincono è evidente che sono talmente inefficienti, che è giusto che altri, privati, misti o totalmente pubblici, gestiscano il servizio al loro posto.

SECONDO QUESITO:

Il secondo quesito, quello della determinazione della tariffa, è ancora più paradossale, assurdo e demagogico: prevede infatti, tra i vari aspetti che portano alla determinazione della tariffa, l’abrogazione dell’adeguata remunerazione del capitale investito. Sarebbe quindi come chiedere che a gestire la risorsa idrica sia un’associazione di volontariato no profit. E qui non c’è un problema di pubblico e privato (non a caso qualche Sindaco furbacchione su questo quesito ha dichiarato il proprio No). La remunerazione sul capitale investito è fissata al 7%. Non so se è troppo, ho scoperto solo che questa soglia fu scelta proprio qualche anno fa dal ministro Di Pietro.

PRINCIPI CHE STANNO DIETRO A CHI E’ A FAVORE DEL REFERENDUM:

Il principio culturale che sta dietro al movimento del sì, movimento che va riconosciuto è riuscito a mettere in atto un forte coinvolgimento popolare dal basso, è che l’acqua (e gli altri servizi pubblici locali, di cui non parlano) debba essere gestita direttamente dal Comune, senza tra l’altro una logica industriale ed economica (visto il secondo quesito).

PRINCIPI CHE STANNO DIETRO A CHI E’ CONTRARIO AL REFERENDUM

I contrari ai referendum invece pensano che tornare ad una gestione diretta, oltre che sbagliata da un punto di vista culturale, sia insostenibile da un punto di vista economico. Nei servizi pubblici locali (acqua, trasporti, rifiuti) si parla di 120 miliardi di euro di investimenti da fare nei prossimi anni e questi dovrebbero essere trovati nelle casse comunali. Avremmo quindi un sistema al collasso, zero investimenti o un netto aumento della fiscalità generale.

COSA SUCCEDE SE VINCE IL SI:

se vince il si ai due referendum sull’acqua, si aprirebbe probabilmente un vuoto  normativo; a coprirlo sarà la  normativa europea, che per la concorrenza e la trasparenza impone che gli affidamenti dei servizi pubblici locali non siano dati “direttamente” al gestore pubblico o privato che sia. Sicuramente il privato non può essere, per legge, escluso dalla gestione dei servizi pubblici. Naturalmente, l’ho già detto, nessuno, privato o pubblico che sia, farà gli investimenti necessari.

RIFLESSIONI CONCLUSIVE:

Io credo che comunque, privati o pubblici, sia importante provare (e questo il decreto Ronchi in parte lo fa) ad incidere sul problema centrale che oggi esiste intorno alle finte liberalizzazioni: dividere cioè il controllore (cioè chi pianifica, sceglie i piani industriali, affida il servizio e controlla) dal controllato (cioè chi gestisce il servizio). Oggi nel sistema misto, ad esempio quello toscano, è molto difficile, in quanto le municipalizzate si sono trasformate in pseudo Spa, con la politica che ancora è pienamente dentro la gestione.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Carlo Lazzeroni

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La maggioranza ha bocciato la moratoria su Equitalia proposta dall’UDC

postato il 7 Giugno 2011

Il video è relativo alla dichiarazione di voto dell’on. Mauro Libè sulla mozione UDC.

La battaglia dell’Udc per un fisco più giusto è arrivata nell’aula della Camera dove la mozione firmata dai deputati centristi è stata discussa e votata. Primo firmatario della mozione è stato l’on. Mauro Libè che questa mattina ha avuto l’onere della dichiarazione di voto nell’Aula di Montecitorio. Libè nel suo intervento ha illustrato la proposta dell’Udc che prevedeva una moratoria di almeno un anno per gli importi riscossi da Equitalia per le imprese e famiglie con obiettive difficoltà economiche, la possibilità di ridurre gli interessi delle sanzioni annesse e di prevedere un aumento del numero massimo di rate concesse nelle rateizzazioni da Equitalia, l’opportunità di promuovere l’istituzione di un fondo di garanzia che intervenisse a sostegno delle imprese che sono in situazione di obiettiva difficoltà per le pendenze nei confronti degli enti di riscossione di Stato e che si trovassero costrette a licenziare i dipendenti e a fallire, e, infine, impegnava il governo ad adottare iniziative normative volte a utilizzare sui territori regionali i profitti, rappresentati da sanzioni ed interessi.

L’intento della proposta dell’Udc era quello di distinguere tra evasori e onesti in difficoltà attraverso una moratoria che consentisse a chi ha sempre pagato di superare questo particolare momento di crisi. La Camera ha però respinto la proposta di moratoria sulla riscossione dei tributi da parte di Equitalia, ha pesato per questo il veto del Governo che, pur avendo espresso parere favorevole sul testo, ha dichiarato la propria contrarietà al capoverso in cui si proponeva la moratoria. Rammarico tra i deputati dell’Udc impegnati su questo fronte che vedono maggioranza e governo più interessati a fantomatici trasferimenti di ministeri al nord che non, come ha dichiarato l’on. Libè,  ad una proposta che mira a tutelare “chi per anni ha concorso a creare onestamente la ricchezza nazionale e si trova momentaneamente in crisi e che paradossalmente si trova ad essere trattato come un delinquente qualsiasi”.

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Santoro via dalla Rai, tra lui e Lei paghiamo noi

postato il 7 Giugno 2011

Per anni la Rai è stata il campo di battaglia di una guerra senza esclusione di colpi tra le varie dirigenze e Michele Santoro. I dirigenti Rai che si sono succeduti nel tempo hanno sempre cercato di esaudire il desiderio di Silvio Berlusconi di mettere a tacere la fastidiosissima compagnia di Michele Santoro, che, a detta del Premier, a colpi di inchieste e di trasmissioni “costruite” sottraeva voti preziosi al centrodestra; dall’altra, Michele Santoro che con l’ausilio di Travaglio, Ruotolo, Vauro e il resto della sua redazione ha condotto la sua personalissima guerra al Premier dagli schermi del servizio pubblico, in una sorta di piccolo Vietnam televisivo dove spesso è riuscito ad impantanare le soverchianti forze governative.

Accade poi che “i governativi” e la resistenza santoriana firmano uno strano armistizio che pone fine alla guerra e dichiara un inaspettato liberi tutti.  La risoluzione consensuale, questo il nome tecnico dell’inaspettato armistizio, arriva all’improvviso, senza passare per il consiglio d’amministrazione, quasi gestita segretamente tra lui, Michele Santoro, e Lei, nel senso del direttore generale Lorenza Lei. Ma tra lui e Lei chi ci rimette siamo noi, perché a pagare questa strana operazione saranno senza dubbio i cittadini poiché a conti fatti il divorzio da Michele Santoro sarà un vero salasso per la Rai: sei milioni di ricavi in pubblicità, il 20% di share e 600mila euro di compensi al conduttore, più la liquidazione da due, senza contare l’inevitabile tracollo di Raidue che non avrà «X Factor», forse nemmeno «L’isola dei famosi» e ora perde la cassaforte degli ascolti «Annozero» (le due più recenti puntate hanno registrato share record del 22-23% che hanno alzato tutta la media di rete). Legittime a questo punto sono le domande poste da Carlo Verna, segretario nazionale dell’UsigRai: “sono stati dati dei soldi per cancellare ‘transattivamente’ una trasmissione di successo? Che partita ha giocato il nuovo direttore generale? Che gioco ha fatto Michele Santoro?”. “Non saremo fra coloro che brinderanno per l’uscita di Santoro dalla Rai”, rincara l’on. Roberto Rao, ma “per rispetto degli italiani che ancora pagano il canone, la Rai deve rendere pubblici tutti i particolari dell’accordo transattivo, per permettere a quanti finanziano l’azienda di sapere chi ha guadagnato e chi ha perso in questa operazione”. E mentre Michele Santoro sembra sempre più vicino ad un approdo a La7, in Rai si cominciano a mettere in discussione anche i contratti di Milena Gabanelli, Giovanni Floris e Serena Dandini. L’unica certezza in questa Rai delle svendite resta il famoso cavallo morente in bronzo patinato che sorge davanti alla direzione generale di Viale Mazzini, e che sembra sempre di più una metafora concreta della situazione della Televisione di Stato.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Perché, numeri alla mano, queste elezioni non sono andate affatto male

postato il 7 Giugno 2011

Meno male che D’Alimonte c’è. Consentiteci di dirlo, di ripeterlo, di cantarlo! Troppo spesso in politica si parla per sentito dire, per pressappochismo, per approssimazione. E si fa presto, quindi, a decretare vincitori e sconfitti, a dimostrare i propri successi e i fallimenti altrui, a distorcere la realtà ai fini della propria propaganda. C’è poi chi, invece, preferisce – alle discussione a caldo – i ragionamenti a freddo, con dati e numeri reali alla mano, senza cadere nel gioco della demagogia e del populismo. Sono uno di questi: sprecare fiato non mi è mai piaciuto e ho sempre avuto in sospetto i fanfaroni e i chiacchieroni, di cui – ahinoi – il mondo politico offre un vasto assortimento. Pensateci su un attimo: vi sarà capitato, in questi giorni, di accendere la Tv e di ascoltare l’infinito parterre di trasmissioni politiche, di tg, di approfondimenti vari, dire, più o meno, tutti le stesse cose, tutti – troppo spesso – con la stessa superficialità. Così, giusto per fare un esempio, avrete sentito che il Terzo Polo, l’alleanza tra Udc, Fli e Api, si è rilevata un sostanziale fallimento elettorale, perché è rimasto dietro gli altri due poli nei quattro grandi comuni chiamati al voto e perché, nei migliori dei casi, non ha superato il 10 per cento. E, magari, a forza di sentirlo, ve ne sarete convinti anche voi e – per carità! – sarete anche caduti nel giochetto “mannaggia, ho sprecato il mio voto”, che fa gola a tanti, da entrambe le parti, in questi tempi.

Poi, però, capita di trovarsi tra le mani l’Osservatorio di Roberto D’Alimonte e di accorgersi – numeri alla mano – che quello che si sente da giorni non è poi così vero; che sì, il Terzo Polo non ha perso, come volevano farci credere, che anzi ha addirittura “raddoppiato” i consensi in un anno, dal 2010 al 2011. Scrive infatti il politologo del Sole 24 Ore: “in sintesi oggi il centrosinistra è diventato lo schieramento maggioritario al Nord e al Centro. Il centrodestra resta tale solo al Sud. Anche qui ha perso ma molto meno che nelle altre zone. Mentre al Nord e al Centro il calo è stato di circa dieci punti al Sud si è fermato a meno di cinque. Anzi in questa area il centrosinistra ha perso di più, quasi sei punti. I vincitori sono stati da una parte la frammentazione e dall’altra i partiti del terzo polo. Il terzo polo come coalizione non si è presentato dappertutto ma i partiti che gravitano nell’area di centro erano ben presenti nel Meridione. La somma dei loro voti arriva al 15,8 per cento. È un dato poco notato. Ed è un dato che aumenta addirittura nei comuni più piccoli. Infatti nei 51 comuni non capoluogo del Sud i partiti del terzo polo hanno ottenuto il 19,8% contro il 12% nei dieci comuni capoluogo”. Il primo dato, evidente, è che nelle amministrative del 2010, il Terzo Polo prese complessivamente l’8 per cento: dato che, nel 2011, è balzato al 14,4%, +6,4%. Mica caramelle. Anche perché, continuando ad analizzare le analisi di D’Alimonte, possiamo provare a fare qualche altra analisi, a cominciare dall’importante del fattore “dimensione dei comuni” – siamo più forti nei piccoli comuni, più deboli nei grossi: e se questo può sembrarvi un limite, ricordatevi che l’Italia è un paese di piccole comunità. Nei comuni sotto i 15.000 abitanti (che non sono compresi nell’analisi di D’Alimonte, però) vive il 43% della popolazione italiana e in questi comuni i due poli sono sempre andati molto meno bene che nelle grandi città, mentre i partiti del Terzo Polo, per primo l’Udc, hanno sempre potuto contare su un forte radicamento (anche il Fli, in questa tornata, ha registrato lì le sue migliori performance). Come sottolinea lo stesso D’Alimonte, alle prossime politiche la partita si giocherà necessariamente anche qui, su un terreno che è sempre stato poco favorevole ai grandi e più propenso ai piccoli.

Non è un caso che proprio Pdl e Pd abbiano riacceso, in questi giorni, la “caccia” al Terzo Polo. Sono consapevoli, infatti, che per vincere le elezioni non basta prendere il 50+1% a Milano, Roma o Napoli; ma bisogna sapere convincere anche gli elettori dei piccoli e medi centri, cuori di una borghesia, di una piccola industria, di un grosso artigianato operoso e di un ceto lavorativo (ma non chiamatelo proletario, per favore) di grande forza. Mi stupisce che uno come Massimo D’Alema, di solito fine e attento osservatore della politica italiana, si sia lasciato andare a dichiarazioni dal sapore “pseudo berlusconiano”, accusando il Terzo Polo di “furbizie, pigrizie e terzo-forzismi (sic!)”. Avremo pure commesso i nostri errori, per carità, ma la nostra forza sono pur sempre i nostri elettori che, come ha ammesso lo stesso D’Alema, sono “un passo avanti”. Sono le stesse che per anni abbiamo sentito da Silvio Berlusconi che ha ossessivamente cercato di spiegare che “un conto è Casini, un conto gli elettori dell’Udc che non possono che stare col centrodestra”. Ragionamento macchinoso e infruttuoso, perché puntualmente smentito ad ogni tornata elettorale. E da ogni ragionamento “a freddo” che si basi su analisi numeriche serie e competenti.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

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2 giugno, l’unica forza di cui disponiamo: la nostra infrangibile unione

postato il 2 Giugno 2011

In tempi di personaggi politici mediocri o assolutamente ridicoli può essere utile ricordare in occasione della festa della Repubblica il Capo provvisorio dello Stato e primo presidente della Repubblica Enrico De Nicola. Napoletano, brillante avvocato e giurista diede lustro alle istituzioni del Regno e della Repubblica ma fu soprattutto un galantuomo che, pur avendo ricoperto tutte le massime cariche dello Stato, non rinunciò mai ad onestà, umiltà ed austerità nei costumi.

Memorabile rimase il cappotto rivoltato di De Nicola, che non fu solo protagonista di tante uscite ufficiali ma anche il segno di una classe politica che era chiamata a fare sacrifici come ogni altro cittadino italiano per ricostruire l’Italia uscita devastata dal secondo conflitto mondiale. Pochi forse sanno che il nostro primo Capo di Stato era monarchico e che probabilmente il 2 giugno, come tanti meridionali, votò perché rimanesse il Re; eppure questa circostanza non gli impedì di accettare l’incarico che di capo dello Stato provvisorio per cui era stato designato con l’accordo di tutte le forze politiche. De Nicola sapeva che il bene del Paese veniva prima del bene del Re e delle proprie convinzioni personali. Enrico De Nicola forse lo ricordano in ben pochi, forse è un nome familiare per quanti hanno una certa dimestichezza con le domande di certi test e concorsi pubblici, allora questa festa della Repubblica può essere un buon motivo per riaprire l’album di famiglia dello Stato repubblicano, non solo  per vedere la foto sbiadita di  uno dei suoi padri, ma anche per avere l’opportunità di rileggere un passo del discorso di insediamento del Presidente De Nicola (15 luglio 1946): «dobbiamo avere la coscienza dell’unica forza di cui disponiamo: della nostra infrangibile unione. Con essa potremo superare le gigantesche difficoltà che s’ergono dinanzi a noi; senza di essa precipiteremo nell’abisso per non risollevarci mai più». Parole, quelle di De Nicola, pronunciate per un Paese prostrato dalla tragedia della guerra, ma che restano sempre valide, specie in tempi difficili,  e che vale la pena ricordare nel centocinquantesimo anno dell’unità d’Italia.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Lo schiaffo di Novara alla Lega

postato il 2 Giugno 2011

Una sconfitta pesante in casa di Roberto Cota: il centrosinistra prevale nel ballottaggio di Novara sul candidato della Lega Nord, sostenuto anche dal PDL, l’assessore uscente Mauro Franzinelli, fedelissimo del presidente della Regione.

Novara, capoluogo di provincia di oltre centomila abitanti, è un po’ il feudo di Roberto Cota. Dalla città di San Gaudenzio il governatore del Piemonte ha costruito la sua carriera che l’ha portato alla poltrona più alta, strappata di misura al centrosinistra, che candidava la Bresso, solamente un anno fa. Sembra passato un secolo: allora la Lega dilagava nelle province piemontesi, da Cuneo a Verbania, passando naturalmente per la culla politica di Cota. Si parlava di avanzata leghista in un Piemonte mai andato veramente a braccetto con forze estreme, terra di moderati, democristiana, tutt’al più socialista. L’avanzata che molti  definivano inarrestabile trovava un argine solo a Torino.

Per capire l’inaspettata vittoria dell’outsider Andrea Ballarè (PD, SEL, Rifondazione) sul favorito Franzinelli bisogna allora fare un passo indietro, alle elezioni dello scorso anno. Cota strappa la poltrona di piazza Castello all’uscente Bresso, sconfitta per una manciata di voti, e con lui viene eletto in consiglio regionale il sindaco in carica di Novara, il leghista Massimo Giordano, divenuto poi assessore allo sviluppo economico. Un incarico di prestigio, che non può certamente svolgere mantenendo anche la poltrona di sindaco. Giordano allora si dimette e la città passa nelle mani del vicesindaco Silvana Moscatelli che lo sostituisce nelle funzioni di primo cittadino. Arriviamo al 2011, Novara è chiamata a scegliere il suo sindaco. Al primo turno nessuno raggiunge la fatidica soglia del 50%: brutta sorpresa per gli ambienti di Cota, che contavano di festeggiare il loro uomo al primo passaggio, forti di un dominio indiscusso e ininterrotto dal 2001. Al ballottaggio arriva la batosta finale e inappellabile: Ballarè diventa sindaco. Come capacitarsi di una sconfitta così netta, quando cinque anni fa Giordano aveva trionfato con il 61 per cento dei voti al primo turno?

Qualche spiegazione logica c’è. Innanzitutto dobbiamo considerare le elezioni amministrative nel loro insieme. Novara, come tante altre città passate in questa tornata elettorale al centrosinistra, ha subito gli influssi di quella realtà che più di ogni altra quest’anno ci ha sorpreso, Milano, con il caso Pisapia, che dato dai più come perdente fin dall’inizio ha sbaragliato l’uscente Moratti al ballottaggio, dopo averla staccata di sette lunghezze al primo turno. Novara è anche geograficamente vicina al capoluogo lombardo, è facile capire  l’influenza che  l’esito delle amministrative meneghine ha esercitato. L’onda lunga non ha risparmiato Novara, Trieste, Cagliari, e altre realtà importanti conquistate dal centrosinistra. Tutto merito di una campagna di entusiasmo, con uno schieramento compatto che ha saputo mantenere il vantaggio e incunearsi nelle falle degli avversari.

A scavare un po’ più a fondo, si trova un’altra ragione, forse più sottile, forse meno decisiva nell’aver spostato voti, ma comunque degna di considerazione. Massimo Giordano, appena chiamato da Cota (suo padrino politico) nella giunta regionale, ha mollato la poltrona di sindaco, lasciandola alla reggente. Inutile dire quanto poco la popolazione abbia apprezzato questo gesto, per di più se commesso da un esponente della Lega, che della buona amministrazione e del rispetto del potere locale ha fatto i propri cavalli di battaglia. Se Giordano, Sindaco scelto subito dai novaresi con una netta affermazione al primo turno, che alla prima nomina più importante e, si presume, redditizia, lascia il posto per cui è stato chiamato dagli elettori, chi può assicurarci, hanno ragionato i cittadini, che anche Franzinelli, stesso colore politico, comune appartenenza al “giro” di Cota, non farà lo stesso, se gli capiterà un’opportunità simile? La Lega, da sempre alfiere del buongoverno, ha marciato un po’ troppo sui suoi successi, approfittando della buona fede della gente.

Novara ha dimostrato al clan leghista che ha governato la città per quattordici anni (una sola parentesi tra il 1997 e il 2001, con un sindaco dell’allora PDS) che la rendita politica non basta. Servono modelli convincenti di buona amministrazione, non fedelissimi o yes-man a cui si dà la poltrona di primo cittadino, “tanto la città è leghista”.

Uno schiaffo civico che mette in discussione l’invincibilità leghista al Nord. La volata anti-Lega può partire dal suo cuore antico, la Novara di Roberto Cota.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Stefano Barbero

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Ascoltare e interpretare il vento che cambia

postato il 31 Maggio 2011

Le elezioni amministrative che ci siamo appena lasciate alle spalle ricordano per diversi motivi le elezioni amministrative del 1993. Le ricordano sicuramente per l’eco mediatico ma anche perché probabilmente segneranno un passaggio storico fondamentale. Il 1993 fu l’anno della prima elezione diretta dei sindaci, ma segnò anche la fine della Dc e del Psi che furono spazzati via dalle amministrazioni comunali dalla Lega e dall’alleanza delle sinistre: il leghista Formentini espugnava la Milano socialista e riformista, Leoluca Orlando si imponeva con percentuali bulgare a Palermo, mentre a Roma e Napoli le sinistre vincevano sui candidati di un Msi con percentuali a due cifre. Eppure nonostante il trionfo in gran parte del Paese della “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto le elezioni politiche del 1994 finirono in maniera ben diversa. E tutti sappiamo il perché. Le elezioni amministrative del 2011 come quelle ormai lontane del 1993 hanno dei vincitori chiari, ma bisogna anche saper leggere il messaggio che esce dalle urne e solamente chi sarà capace di interpretare questo messaggio potrà sperare di vincere le prossime elezioni politiche.

Giuliano Pisapia e Luigi De Magistris cinque anni fa probabilmente sarebbero finiti nel tritacarne berlusconiano, oggi invece hanno annientato gli alfieri del centrodestra perché sono riusciti ad incarnare quel cambiamento coraggioso e rigoroso che da più parti viene chiesto alla classe politica. Non hanno vinto dunque l’immaginifico Vendola o il tribuno Di Pietro, ma hanno vinto il compassato avvocato garantista che ha fatto campagna elettorale sui problemi di Milano e il magistrato Masaniello che ha promesso, ad una città stanca e demoralizzata, di liberarla dai suoi cattivi amministratori degni del celebre film “Signori e signori, buona notte”.

Berlusconi invece ha perso perché ormai non incarna nessun cambiamento. Quando Giuliano Ferrara dalle pagine del suo quotidiano tenta di resuscitare il Berlusconi del 1994 non ha tutti i torti: quello fu il Berlusconi che interpretò al meglio la voglia di cambiamento degli italiani, che alcuni improvvidi commentatori nel 1993 avevano chiamato “voglia di sinistra”. Ma Berlusconi ormai non interpreta più nessun cambiamento anzi, e probabilmente questo è un dramma per l’uomo Berlusconi, incarna tutte quelle cose che da imprenditore aveva sempre aborrito: retorica, stagnazione, lacci e laccioli. Il voto amministrativo ha condannato senza appello questo centrodestra da cinepanettone ed è difficile pensare che Berlusconi riesca a tirare fuori dal cilindro qualcosa che cambi radicalmente la situazione. Resta a questo punto da capire se Berlusconi vorrà vedere scorrere per intero i titoli di coda di questo triste film o se vorrà, con buonsenso e signorilità, alzarsi prima dal tavolo da gioco prima di perdere tutto. In ballo non c’è solo la sorte del Cavaliere ma anche quella dei moderati italiani che ormai non si riconoscono più nella sua figura e nella sua politica.

Il Nuovo Polo che, seppur con difficoltà, si è cimentato da poco con le urne non può restare a guardare: non può restare a guardare l’inabissamento dei moderati imbarcati nel Titanic berlusconiano e non può restare a guardare i professionisti del nuovismo e del cambiamento, ma occorre che si faccia promotore di una iniziativa politica autonoma, coraggiosa e giovane. Nei prossimi mesi per i moderati italiani si potranno aprire praterie da percorrere in lungo e in largo ma lo potrà fare solamente chi avrà il coraggio delle scelte, chi saprà rinunciare alle alchimie politiche e agli appiattimenti di convenienza, chi avrà il coraggio di rinunciare ai ras delle preferenze per proporre donne e uomini giovani, preparati e con tanta voglia di fare. Questa non è solo la scommessa dei moderati italiani, ma la scommessa di quanti credono che non basta dire che “cambia il vento” ma che occorre anche capire quello che il vento dice perché, come diceva Jim Morrison, “la solitudine è ascoltare il vento e non poterlo raccontare a nessuno”.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi


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eG8, quando si parte già male.

postato il 29 Maggio 2011

Pochi giorni fa aprendo il forum “eG8” di Deauville ,che puntava a far incontrare i “Grandi” della rete con i “Grandi” della terra, Sarkozy ha aperto la conferenza con queste parole :

“Non voglio cercare di controllare la Rete, ma piuttosto aprire un dialogo proficuo tra governi e gli attori di Internet”.

Se però si è ideatori del sistema censorio più famoso del mondo,l’ HADOPI, che dopo tre violazioni (uso di programmi p2p per il download illegale), disconnette automaticamente dalla rete il cittadino francese, ed ancora, se si è il presidente di una nazione dove il copyright è talmente severo che soffoca la creatività e crea casi internazionali, viene il dubbio che i propositi del presidente francese siano solo uno specchietto per le allodole, e che invece nascondano quella che lui stesso definisce opera di “civilizzazione della Rete”, che poi non è altro che un controllo del web, che conferirebbe ai governi una autorità su contenuti, informazioni e dati, mai vista prima.

Il vertice, criticabile per certi versi, positivo per altri, ha messo in luce dei dati importanti su internet e il suo indotto , si parla di 8mila miliardi di euro di commercio online, cioè il 3,4% del Pil in 13 Paesi (quelli del G8 più Brasile, Cina, India, Corea del Sud, Svezia), il 10% della loro crescita negli ultimi cinque anni.
L’Italia tra tutti i paesi industralizzati è quello in cui Internet ha contribuito di meno alla crescita economica: solo il 12% del Pil tra il 2004 e il 2009, rispetto al 33% della Svezia, il 24% della Germania o il 23% del Regno Unito. Altro dato di rilievo è che per ogni posto convenzionale perso, internet ne produce 2,5.
Questi dati in contrapposizione all’ostilità dilagante di alcune governi mondali , su internet e la Net neutrality ,rendono chiara la lontananza tra questi due mondi che in realtà si sovrappongono.
Alla conferenza erano presenti molti nomi noti come Jimmy Wales di Wikipedia e Eric Schmidt di Google, Zuckerberg (interessantissima una sua intervista sul rapporto fra fb e potere), Rupert Murdoch, il CEO di eBay John Donahoe e Neelie Kroes per l’agende digitale europea e tra i pochi italiani Franco Bernabè AD di Telecom Italia.
Nell’infografica cosa hanno detto:

Tanti ancora i protagonisti assenti, come hanno fatto notare sul web gli utenti e molta la distanza tra i presenti , sia per barriere culturali, ideologiche e per divergenze di interessi .
Proprio per queste divergenze di interessi tra i players di internet e i governi, l’eG8 è risultato fallimentare, senza dare vere risposte o conclusioni di rilevo,un tentativo nato all’insegna di una conquista dello spazio virtuale che con molta probabilità verrà presto riposta nel dimenticatoio da internauti e cittadini comuni.
Pare chiaro che la formula proposta non sia quindi quella giusta per un confronto proficuo sul futuro della rete, le distanze tra gli attori principali, ma sopratutto tra i governi, i loro cittadini e internet sono il freno a mano che non permette ad internet di essere il traino della rivoluzione auspicata, e che la sicurezza della rete e della protezione dei diritti vada pari passo con la libertà e la neutralità della rete stessa.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Michele Nocetti

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Equitalia, un lettore ci scrive

postato il 28 Maggio 2011

Pubblichiamo una mail in redazione sulla mozione UDC per una moratoria sulle cartelle di Equitalia.

L’iniziativa è lodevole e interessante anche perchè per la prima volta interviene in un settore che è quello del terziario attualmente in grave crisi. Non è un mistero che il commercio al dettaglio e l’artigianato non riescano a contrastare l’attacco concentrico della concorrenza rappresentata dalla grande distribuzione, dalla Cina e dai paesi dell’est, oltre che da quelli asiatici, e dalle spese erariali e previdenziali che in Italia incidono più degli altri Paesi. Non bisogna, inoltre, generalizzare la qualifica di imprenditore e distinguere tra il piccolo e il grande, tra settore e settore, e intervenire.
Credo che sia necessario un piano di interventi che ripensi totalmente la figura del piccolo imprenditore, ancora legato nella fantasia popolare ma anche nei provvedimenti legislativi (vedasi studi di settore), all’immagine di “ricco ed evasore” creatasi negli anni di prosperità economica. Difatti, per le aziende che chiudono, anche se unifamiliari, che non riescono ad onorare gli impegni, c’è tutta una legislazione punitiva che li porta a perdere la propria azienda e subire il disonore personale del fallimento con conseguente impossibilità di intraprendere qualsiasi altra attività lavorativa. E tutto questo, in un settore in cui non è proprio contemplato alcun ammortizzatore sociale, il che significa condannare a morte il piccolo imprenditore e la propria famiglia privandoli di qualsiasi mezzo di sostentamento. Non solo. In tutto questo, si rischia paradossalmente anche di essere perseguiti per non aver pagato i contributi Inps; come se qualcuno potrebbe aver piacere a non crearsi una posizione pensionistica, per questo lo Stato lo costringe a pagare con mora e sovrattasse e spese di esecuzione qualcosa che in definitiva riguarda sé stessi.
Per tali motivi auguro buona fortuna alla Vostra azione parlamentare che ha avuto il merito di squarciare il velo che da decenni ammanta tutto il settore.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Francesco

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La “relazione complicata” tra internet e la politica

postato il 27 Maggio 2011

Questa aspra campagna elettorale verrà sicuramente ricordata non solo per gli innumerevoli, e spesso incredibili, spunti di cronaca ma perché segna il definitivo ingresso di internet nelle competizioni elettorali. Internet è diventata sempre più mezzo di comunicazione e propaganda elettorale, ma anche, a dir la verità ancora troppo poco, parte dei programmi elettorali dei candidati. Bisognerebbe parlare però, per usare un linguaggio caro agli utenti di Facebook, di una “relazione complicata” tra politica e internet:  non sembra, infatti, che candidati, e politici in generale, abbiano compreso le potenzialità del nuovo mezzo di comunicazione. Anzi, questi  troppo spesso si rapportano alla rete come schemi comunicativi desueti che potevano andare bene per una campagna elettorale degli anni ’50.  Paradigmatica in questo senso è stata la campagna elettorale di Letizia Moratti, che proprio in rete ha commesso delle gaffes clamorose che indubbiamente hanno influito, e probabilmente influiranno, sul suo risultato elettorale. La “moschea di Sucate”le calunnie diffuse su Pisapia e il meccanismo truffa per gonfiare la pagina Facebook della Moratti, sono i risultati di una ignoranza abissale del mondo della rete e di un goffo tentativo di saldare nuovi mezzi e vecchi messaggi, Achille Lauro e Twitter. L’errore di certi “strateghi” della comunicazione politica sta proprio nel riportare in rete messaggi vecchi e demagogici o, peggio, ispirandosi al principio della propaganda di Goebbels, credere che una bugia ripetuta migliaia di volte diventi una verità: se nella vita di tutti i giorni, nei mercati rionali o sull’autobus, queste tecniche possono ancora aiutare a pescare qualche voto, in rete possono invece rivelarsi un boomerang letale e scatenare l’ironia e i lazzi nei blog e nei social network.

Per evitare clamorose brutte figure sarebbe utile allora capire che messaggi tradizionali e meccanismi demagogici mal si addicono alla rete, soprattutto perché gli utenti, e quindi i destinatari dei messaggi, non sono assimilabili, con qualche eccezione su Facebook, a elettori sicuri o bambini di cinque anni. Questa poca dimestichezza con la rete dei candidati si rispecchia anche nei programmi elettorali: si trovano, senza distinzione di colore politico, solo pochi e vaghi riferimenti ad internet e più in generale al digitale, ricorrente è il tema del wi-fi libero e lo sfruttamento della rete internet per snellire le elefantiache burocrazie comunali, ma nessuno sembra avere chiara una strategia innovatrice, una vera e propria agenda che segni le tappe della rivoluzione digitale nei comuni. Perché questo scarso interesse? Perché non coinvolgere esperti del settore ed evitare di parlare in maniera inadeguata di cose che non si conoscono? Per rispondere a queste domande è sufficiente guardare l’età media dei candidati a sindaco, e accorgersi che in molti casi sono i protagonisti di tante campagne elettorali del passato. Uomini vecchi con idee vecchie. Ma questo è un altro problema.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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