Tutti i post della categoria: In evidenza

Se il problema carceri non è particolarmente rilevante…

postato il 19 Maggio 2011

Dopo la batosta elettorale è arrivata la batosta parlamentare. Nel primo giorno di votazioni alla Camera  l’esecutivo è andato sotto cinque volte: sui documenti presentati da Fli, dal Pd e da Idv su cui aveva espresso parere negativo e che invece sono stati approvati dall’assemblea di Montecitorio, e sulla premessa del documento di maggioranza, su cui c’era parere favorevole. La stampa ha dato la colpa di questa debacle parlamentare al gruppo dei responsabili che, intimoriti dal mancato arrivo della seconda infornata di incarichi governativi, hanno “ricordato” al governo che ci sono e che le sorti dell’esecutivo sono legate ai loro mal di pancia. Che i responsabili fossero più disponibili che responsabili si sapeva, stupisce però, in questa vicenda, il commento del ministro degli esteri Franco Frattini, che in una intervista al Corriere della Sera ha dichiarato: «non darei peso a questi voti su provvedimenti non particolarmente rilevanti». Peccato che quattro dei cinque documenti sui quali è stata battuta la maggioranza riguardino i provvedimenti necessari a rendere più umana la vita nelle carceri italiane. A questo punto si possono fare due ipotesi: o il ministro Frattini, che probabilmente ha pure votato, ignorava il contenuto dei documenti che votava oppure ritiene che il problema carceri sia qualcosa di “non particolarmente rilevante”. Nel primo caso il ministro degli esteri potrebbe fare buona compagnia alla collega Gelmini che qualche tempo fa è andata in Tv senza sapere di cosa parlava (ed aveva anche ragione!), viene però qualche preoccupazione per la sorte della nostra politica estera; se invece Frattini ritiene i provvedimenti per umanizzare le carceri “non particolarmente rilevanti” allora ci sarebbe la conferma che questo governo e questa maggioranza non hanno nessun intenzione riformatrice, in particolare nel campo della giustizia dove, come ha giustamente notato l’on. Roberto Rao, «quando non sono in ballo gli interessi del premier, la maggioranza svanisce». Al ministro Frattini, ai responsabili e al resto della maggioranza però bisognerebbe ricordare che solo nell’ultimo fine settimana sono stati tre i decessi nelle carceri italiane: un detenuto a Torino si è tolto la vita impiccandosi nella cella dove era recluso, mentre all’Isola d’Elba un altro detenuto 53enne sarebbe stato stroncato da un malore; significativa anche l’estrema ratio di un Assistente capo della Polizia penitenziaria nel carcere di Viterbo, suicidatosi con l’arma d’ordinanza. Ma forse sono cose poco rilevanti. Per loro.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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L’Italia? Un “Paese per vecchi”. Sempre meno matrimoni e meno nascite

postato il 19 Maggio 2011

L’Italia? È un ‘Paese per vecchi’, in cui ci si sposa sempre meno, si fanno sempre meno figli e si continuano a perdere posti di lavoro. È un ritratto a tinte fosche quello che emerge dal rapporto Istat “Il matrimonio in Italia“. In particolare, lo studio evidenzia come negli ultimi due anni ci sia stato un netto calo dei matrimoni, quasi 30 mila in meno.

Ci si sposa meno e più tardi e si rimane in famiglia più a lungo. Giovani bamboccioni penserete. Ma i dati parlano di una difficoltà sempre maggiore a trovare un lavoro stabile, ad affrontare le spese per andare a vivere da soli. Ed ecco che, al giorno d’oggi, chi decide di compiere il grande passo ha già in media 35 anni, almeno dieci in più rispetto all’età delle nozze dei propri genitori.

Le ragioni per le quali si fatica a crearsi una propria famiglia sono quindi strettamente legate al maggior tempo che si impiega nel raggiungere una stabilità economica, alla precarietà del lavoro accentuata dalla crisi. Ma, come sostiene il quotidiano Avvenire, dipendono anche dalla mancanza di politiche a favore della famiglia, tante volte annunciate e poi cadute nel dimenticatoio. Tanto che, come ha rivelato un recente rapporto Ocse e come più volte da noi sottolineato, l’Italia è in fondo alle classifiche degli aiuti alla famiglie nell’area dei paesi occidentali.

L’Udc ha più volte ribadito l’esigenza che per le famiglie ci sia una politica concreta, non fatta di spot ma di provvedimenti seri.

E allora la domanda da porre al governo, anche alla luce di questa nuova fotografia dell’Italia di oggi è sempre la stessa: quando politiche per la famiglia?

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Moderati per caso

postato il 12 Maggio 2011

Ciò che più sorprende del calunnioso attacco di Letizia Moratti a Giuliano Pisapia è che la candidata di Pdl e Lega a Palazzo Marino abbia fatto precedere il suo squallido colpo basso da un “predicozzo” sulla sua cultura moderata. Come si concilia l’essere moderati col dare del ladro d’auto e del terrorista al proprio avversario, oltretutto sapendo di mentire? E’ come se Gandhi dopo un appello alla non violenza avesse picchiato un inglese. La cosa è evidentemente paradossale ma, purtroppo, facilmente spiegabile con la strategia dello scontro frontale avviata dal Presidente del Consiglio che vuole trasformare le elezioni amministrative nell’ennesimo referendum sulla sua persona. Così la compassata Letizia Moratti si è resa protagonista di una performance da far impallidire Daniela Santanchè, che qualche giorno fa aveva definito “metastasi” Ilda Boccassini, e Ignazio La Russa che aveva accusato le donne di sinistra di essere brutte.

Ma a dettare la linea è chiaramente il Cavaliere, il capo dei moderati, che nei suoi comizi elettorali non ha risparmiato nessuno. Così in perfetto stile moderato Berlusconi ha definito lamagistratura cancro d’Italia, facendo sembrare Lassini un dilettante, ma non contento li ha anche accusati di riempire Napoli di rifiuti. Non potevano mancare le solite accuse a Fini e Casini che non gli hanno mai fatto fare niente, ma indubbiamente la rivelazione più grossa riguarda gli oppositori di sinistra che, a detta del Cavaliere, hanno scarsa confidenza con la pulizia personale. Fortunatamente le elezioni sono Domenica e nelle urne gli elettori potranno dire chi sono veramente i moderati, resta però ancora qualche giorno per clamorose rivelazioni da parte dei sedicenti moderati sui loro avversari brutti, sporchi e cattivi. Attendiamo fiduciosi.

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Aldo Moro, per non dimenticare

postato il 9 Maggio 2011

In un Paese in cui è sempre più difficile applicarsi seriamente alle prospettive future – definendo nuovi obiettivi da perseguire, e nuove direzioni da percorrere – la tentazione è che prevalga la nostalgia dei tempi passati, anche per coloro che quel passato non l’hanno vissuto, se non raccontato da altri. Non è così strano, infatti, che un giovane, impegnato in politica, possa guardare con nostalgia alla statura e all’intelligenza politica di Aldo Moro, di fronte al degrado valoriale e comportamentale che sta caratterizzando una larga parte dell’attuale classe dirigente politica.

Non c’è rassegnazione, semmai speranza di uscirne perché – per dirla con le parole del presidente Moro – “tempi nuovi si annunciano ed avanzano in fretta come non mai”.

In una giornata di memoria, non è puro esercizio retorico ricordare la figura di “questo uomo buono, mite, saggio ed innocente”, così come lo definì Papa Paolo VI nella sua straziante preghiera a 10 giorni dal ritrovamento del Presidente Moro.

Fare memoria di Aldo Moro è ragionare su un pensiero ancora di straordinaria attualità, con un monito pesante: cambiare davvero l’Italia richiede un’assunzione di responsabilità straordinaria, che può portare all’isolamento politico e addirittura a pagare con la propria vita.

Della sfida profetica di Moro si dovrebbe recuperare, in particolare, quell’attenzione (e capacità di lettura) nei confronti della società, contestando la “disarmonia fra società civile, ricca di molteplici espressioni ed articolazioni ed una vita politica stanca, ridotta a sintesi inadeguate e talvolta persino impotente”. Occorre, insomma, completare quella terza fase, apertasi nel 1975, che prevedeva lo sviluppo di nuove relazioni tanto tra sistema politico e società quanto tra attori; una sfida da giocare, oggi, sempre di più agganciandola al sogno politico di un’autentica Unione Europea. Una terza fase che potrà contribuire a rigenerare la politica e il Paese, non solo in termini generazionali, con nuove idee, progettualità e motivazioni.

Ma non può esserci futuro senza saper trarre memoria ed insegnamento dal passato, per questo ricordare oggi Aldo Moro è molto più che una mera commemorazione: come giovani UDC terremo sempre a mente l’insegnamento morale del Presidente Moro, nella speranza di poter con le nostre azioni, non solo rendere memoria e continuare a far vivere il grande “sogno moroteo”, ma realizzarlo.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Francesco Coviello, Ufficio Politico Nazionale Giovani UDC

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Fine vita e dignità dei bambini

postato il 7 Maggio 2011

Si è ripreso a discutere in Parlamento di testamento biologico e di regolamentazione del fine vita. La discussione non può prescindere dal dovere da parte delle istituzioni di rendere dignitoso ogni istante di vita di coloro che si ritrovano a convivere con una malattia incurabile. Recentemente, in occasione di un meeting di lavoro, ho avuto modo di sentire un intervento che riguardava un aspetto molto delicato di tale questione: la malattia incurabile pediatrica.

Se la parola “inguaribile”, riferita alla malattia di un adulto, è difficile da accettare, quando riguarda un bambino è straziante. Eppure in Italia sono oltre 11000 bambini a dover affrontare il calvario di una malattia incurabile (1/3 delle quali di natura neoplastica, le altre di natura degenerativa o dismetabolica), e sentire le difficoltà dei genitori durante quella terribile esperienza fa capire quanto le istituzioni facciano davvero poco per sostenerli. Esistono genitori che imparano procedure mediche avanzate perché non c’è nessuno che lo possa fare a domicilio; esistono genitori perennemente angosciati perché se il loro bambino ha una crisi cardiaca durante la notte non c’è un medico di riferimento ma solo il pediatra di famiglia che ti lascia il suo cellulare pur non essendo obbligato a farlo; esistono genitori che fanno sforzi immani per far si che il loro bimbo abbia una vita normale nonostante tutto. Tutto questo, anche se straordinario, è inaccettabile.

Per un bimbo malato esiste il qui e ora, non ha la percezione che fra un anno non ci sarà più. Il bambino percepisce il dolore fisico, ma forse gli fa più male il non poter andare più a scuola o non poter più giocare con altri bambini. Un bambino in queste condizioni non vuole solamente non sentire più dolore, ma vuole non sentirsi emarginato dagli altri bambini per via della sua malattia, vuole poter continuare a studiare e giocare. Accanto a questi bisogni esistono le esigenze dei genitori: sostegno psicologico, assistenza medico-infermieristica a domicilio, strutture socio-assistenziali adatte a un bambino(spesso vengono mandati in una RSA per adulti perchè non ne esistono di pediatriche, assistenza qualificata a domicilio durante l’orario di lavoro. Sono evidenti a tutti i doveri delle istituzioni, doveri che non possono più procrastinare: assistenza medica, psicologica e sociale del fine vita pediatrico, sia in ospedale che nel territorio.  In questo l’Università di Padova, con il suo Hospice pediatrico nel Dipartimento di Pediatria, sta facendo da apripista. Ma non basta.

La politica forse continuerà ad accapigliarsi sui principi e sui dogmi,  ma di sicuro c’è che uno stato civile deve rendere dignitoso ogni istante di vita, anche l’ultimo, di un individuo. E ciò vale a maggior ragione per i più piccoli.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Maria Pina Cuccaru

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Sky e il principio del terzo escluso

postato il 6 Maggio 2011

A Sky sembra aver trionfato l’aristotelismo. Dopo anni di battaglie contro il duopolio Rai-Mediaset  e per l’affermazione del terzo polo televisivo, nella televisione di Rupert Murdoch sembrano aver cambiato opinione ed essersi convertiti ad una rigida interpretazione del IV libro della Metafisica di Aristotele che sancisce il cosiddetto principio del terzo escluso. Peccato che in questo caso il terzo escluso non sia Sky ma i candidati del Terzo Polo alle amministrative. A pochi giorni dal voto, infatti,  SkyTG24 ha deciso di dare il via ai faccia a faccia televisivi tra i candidati alla poltrona di sindaco delle quattro maggiori città interessate dal voto amministrativo (Milano, Torino, Napoli e Bologna), limitando però il dibattito a quelli che la direzione di Sky ritiene i “candidati principali” e cioè i candidati di Pdl e Pd. Nulla da fare per i candidati del Terzo Polo, Alberto Musy (Torino), Raimondo Pasquino (Napoli) e Stefano Aldovrandi (Bologna) che come il candidato milanese Manfredi Palmeri dovranno accontentarsi di inseguire con una sedia vuota i loro contendenti per dare la possibilità ai cittadini di un confronto pubblico tra i candidati.

Vana la protesta di Roberto Rao (Udc) che ha visto in questa scelta di Sky una palese violazione del regolamento dell’Agcom e della par condicio. Questa vicenda ha però prodotto un documento notevole che spiega l’applicazione del principio del terzo escluso: si tratta della lettera con cui il neoaristotelico direttore di SkyTG24 Emilio Carelli ha risposto alle critiche mosse dall’onorevole Rao. In questa lettera Carelli spiega che  il criterio giornalistico seguito da Sky “è stato quello di invitare nel programma a rispondere alle proprie domande coloro che, nella valutazione autonoma della testata, hanno una maggiore probabilità di vincere la competizione elettorale. Circostanza che potrebbe rivelarsi non confermata dall’esito del risultato elettorale, ma sempre nel convincimento che una discussione così strutturata sia di maggiore utilità ed interesse per lo stesso telespettatore”.  Da queste parole si evince una singolare sostituzione dell’elettore con il telespettatore per cui è assolutamente comprensibile che l’interesse non sia più quello di conoscere le proposte per il governo della città da parte dei candidati sindaco: il telespettatore, secondo il direttore di SkyTG24, è interessato ad una “discussione” che è più simile ad un incontro di pugilato dove due pesi massimi se le danno di santa ragione. Indubbiamente un match di boxe è più esaltante di una tribuna politica, ma non è certo un servizio all’elettore-telespettatore. Sempre nella sua lettera a Rao, Carelli spiega che la scelta della sua testata è mossa dalla volontà di “consentire lo svolgimento di programmi televisivi chiari ed efficaci”. Secondo il direttore di SkyTG24 la chiarezza in televisione è data dalla riduzione del numero di candidati che possono paralare, la stessa logica del bipartitismo inseguito dal duo Veltroni-Berlusconi nel 2008 che per “semplificare” il sistema politico prevedeva la morte del pluralismo politico.

Sono però noti a tutti  i risultati di quella “semplificazione”. Ma essendo sicuri della buona fede del direttore Carelli e della sua volontà di rendere chiara ed efficace l’informazione, si potrebbe suggerire una modesta proposta: in nome della chiarezza e dell’efficacia SkyTG24 potrebbe dare la parola esclusivamente a quel candidato che, ad insindacabile giudizio della testata, sarà il vincitore delle elezioni. In questo modo la tv di Murdoch non solo potrebbe fare sfoggio di notevoli capacità divinatorie, magari si potrebbe invitare il mago Otelma, ma darebbe un contributo significativo alla chiarezza: i telespettatori non perderebbero una sillaba dei programmi di Letizia Moratti o di Piero Fassino che non sarebbero interrotti dai loro insulsi rivali. Qualcuno però segnala che la rivoluzione neoaristotelica di SkyTG24 è incompleta perché, a quanto pare, nel confronto dedicato alla città di Napoli il confronto sarà a tre. Tranquilli il terzo incomodo non sarà il candidato del Terzo polo, per cui  il principio è salvo: tertium non datur.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Ridere per non piangere. La Biancofiore tra Wojtyla e Bin Laden.

postato il 6 Maggio 2011

Voglio essere breve, diretto e coinciso. Quando ho letto della dichiarazione dell’On. Micheala Biancofiore, “biondona” (il copyright è del maestro Biagi) trentina, deputata berlusconiana (accanita come nessun altro), ho riso, riso, riso. Tanto e di gusto. Non so perché, non mi capita mai: eppure stavolta non ne ho potuto fare a meno. Io, che di solito prendo sempre tutto con la massima serietà, che mi faccio grigio grigio nel commentare qualsiasi dichiarazione politica di qualsiasi politico – specie poi se berlusconiano – stavolta ho deciso di fare uno strappo alla regola e di dare alle dichiarazioni di questa “onorevole” il giusto peso che meritavano: quello che si può dare a una barzelletta tra amici, un po’ fuori luogo, va bene, ma pur sempre innocente e ingenua.

E così ho riso. Poi, però, ho pensato al fatto che questa Biancofiore di mestiere fa il deputato e che è, tra l’altro, consigliere del nostro Ministro degli Affari Esteri e segretaria della stessa commissione Esteri della Camera; che questa non era solo una battuta o una boutade, ma una dichiarazione ufficiale all’Ansa; che mettere nello stesso periodo un santo, un terrorista e la parola miracolo è segno del degrado intellettuale e culturale in cui versiamo. E ho smesso di ridere.

E sapete che ho fatto? Mi sono rivolto proprio a Giovanni Paolo II, al nostro beato indebitamente chiamato in causa, e gli ho chiesto un vero miracolo: che se proprio non si può donare un po’ di senno a Micheala Biancofiore, almeno si veda di farla stare zitta. Specie in certi casi.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

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I giovani cristiani ripartono dal lavoro

postato il 1 Maggio 2011

In una società che ha sostituito alla centralità del lavoratore la centralità del consumatore, il lavoro corre il rischio di perdere la propria importanza in sé per assumere la funzione di mero strumento di procacciamento di reddito. Quest’anno, però, la giornata dei lavoratori sembra ri-acquistare nuova centralità alla luce della concomitante cerimonia di beatificazione di Giovanni Paolo II, il cui Magistero ha sempre reso omaggio al lavoro dell’uomo, “qualunque esso sia e ovunque si compia”, sottolineandone il “legame estremamente profondo” del problema del lavoro con quello del senso della vita umana; il lavoro, dunque, come problema di natura spirituale. Davanti alle ingiustizie che gridano vendetta – ingiustizie da ricercarsi ai giorni nostri, in primo luogo, nella frammentazione (e la precarizzazione) del lavoro nei lavori, i nuovi lavori e le innovazioni che ne mutano la natura stessa – rimane ancora valida l’indicazione della Laborem exercens, ovvero la necessità di “sempre nuovi movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro e di solidarietà cogli uomini del lavoro”. Questa esigenza di solidarietà e di partecipazione, così come la possibilità stessa di governare questi radicali cambiamenti, trovò in Giovanni Paolo II la sua formula più alta, quasi profetica, nella proposta di costituire  nel mondo “una globale coalizione a favore del lavoro dignitoso”; a favore di quel “lavoro decente” riaffermato anche da Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in Veritate.

Proprio su quest’ultimo concetto, come giovani  cristiani – ricordando la missione affidataci da Giovanni Paolo II: dare testimonianza a Cristo davanti agli altri, chiamati ad essere anzitutto “sentinelle del mattino” – vogliamo dar vita, con le altre associazioni giovanili di ispirazione cristiana, ad una piattaforma generazionale intorno a cui possa svilupparsi un dibattito e confronto pubblico sui problemi che ci premono, innanzitutto quelli del precariato e della disoccupazione giovanile.  La prima occasione utile per concretizzare questa nostra volontà di reagire “contro la degradazione dell’uomo come soggetto del lavoro” è rappresentata dalle veglie di preghiera per i giovani e il lavoro – organizzate, nelle diocesi italiane, da Acli, Cisl e Mcl – a cui parteciperemo senza simboli di partito ma con l’ambizione di poter essere parte di quella generazione di laici cristiani impegnati – auspicata da Benedetto XVI – “capaci di evangelizzare il mondo del lavoro, dell’economia e della politica”.

Francesco Coviello – Uff. Politico Nazionale UdC Giovani

Francesco Nicotri – vice Coordinatore Nazionale UdC Giovani

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Primo maggio, prima il lavoro

postato il 30 Aprile 2011

Troppe parole inutili e troppi silenzi sul primo maggio. La festa dei lavoratori, come purtroppo tante feste italiane, è stata come al solito preparata da una polemica sterile, questa volta sulle aperture degli esercizi commerciali nel giorno di festa. Polemica sterile non per l’oggetto ma per il modo di squisitamente ideologico di condurla. Bene ha fatto il Post a rilevare che: «è difficile vedere nella chiusura obbligatoria per i negozi una reale battaglia per i diritti dei lavoratori, così come è difficile ignorare l’evidenza che si tratti di una tappa delicata nella ridiscussione del funzionamento del lavoro nell’epoca contemporanea e che quindi la questione non si riduca semplicemente a un giorno di lavoro in più o in meno». C’era dunque e c’è un modo diverso per affrontare la questione e più in generale il problema lavoro. Di certo il modo non è la battaglia ideologica che appare sempre più fiacca quasi quanto l’identità della festa del primo maggio. Una volta la festa dei lavoratori celebrava con orgoglio il lavoro, la sua dignità e vitalità, oggi in tempi di disoccupazione crescente e diritti conculcati, per celebrare il primo maggio rimane solo il vacuo “Concertone”, una manifestazione ormai criticata anche a sinistra, una festa sbiadita dove confluiscono soprattutto i giovani che, come notò argutamente Ilvo Diamanti, sono “normalmente invisibile come il lavoro”. Ma è il silenzio a fare tanto male quanto le parole inutili, il silenzio di chi si occupa della cosa pubblica, il silenzio di chi dovrebbe, con uno straordinario sforzo di unità e concertazione, dare una risposta ad un Paese che ha fame di lavoro. Anche quest’anno dobbiamo penosamente rilevare una crescente disoccupazione e un impegno assolutamente scadente del governo su questo fronte. Cosa rimane del primo maggio se eliminiamo parole e silenzi? Rimane il lavoro che ripulito dalle ipocrisie e dalle scorie ideologiche deve tornare una priorità, per le forze politiche, sociali e per tutti gli italiani. Occorre tornare a pensare al lavoro, e se è il caso a ripensarlo, occorre credere veramente nel primo articolo della nostra Costituzione perché, come ha ricordato il Presidente Napolitano, l’Italia è più che mai una Repubblica fondata sul lavoro e deve tentare di “esserlo di più e non di meno”.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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L’insegnamento di Giovanni Paolo II: un programma per la politica

postato il 30 Aprile 2011

La beatificazione di Giovanni Paolo II può senza dubbio diventare una preziosa occasione per i cattolici e anche per i laici per riflettere e confrontarsi sul vasto e profondo insegnamento sociale del papa polacco. Ma prima di buttarsi a capofitto nel Magistero e negli scritti di Giovanni Paolo II è indispensabile, e soprattutto molto utile per capirlo,  guardare alla sua vicenda personale di figlio del novecento, di uomo che ha vissuto in tutto e per tutto il “secolo breve”. Il lavoro come manovale nelle cave di calcare della Solvay all’inizio degli anni quaranta, il seminario clandestino durante la guerra, le perquisizioni della Gestapo, cui sfuggì in modo miracoloso, il continuo braccio di ferro col regime comunista polacco da giovane prete e poi da vescovo, sono tutte esperienze che hanno messo Karol Wojtila a contatto con i drammi e le speranze della condizione umana, influenzando in maniera indelebile la sua fede e la sua azione pastorale. Ma più forte dell’esperienza del male in Giovanni Paolo II è l’esperienza di Cristo, come egli stesso scrive nel racconto autobiografico “Memoria e Identità”: «non è possibile separare Cristo dalla storia dell’uomo». E’ Cristo che da nuovo senso alla storia dell’uomo, e non è un caso che la chiave di volta del pensiero sociale di Giovanni Paolo II sia la necessità di un nuovo umanesimo che vede nel Dio che diventa uomo, non solo l’essenza del cristianesimo, ma il fondamento di ogni progetto autenticamente umano, il perno per un movimento di rinascita. L’umanesimo auspicato da Giovanni Paolo II contiene una visione della società centrata sulla persona umana e i suoi diritti inalienabili, sui valori della giustizia e della pace, su un corretto rapporto tra individui, società e Stato, nella logica della solidarietà e della sussidiarietà. È un umanesimo capace di infondere un’anima allo stesso progresso economico, perché esso sia volto “alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”. Tutto ciò traspare dall’insegnamento di Giovanni Paolo II e dal suo ampio magistero, e sicuramente  ci sono tanti altri aspetti da sottolineare e da approfondire. Molti sono i politici che hanno incontrato Giovanni Paolo II, e molti di questi saranno presenti a Roma per la sua beatificazione ma quanti di loro  si sono soffermati a riflettere sulla portata dell’insegnamento sociale di Papa Wojtila? La beatificazione, come si diceva all’inizio, può allora essere una preziosa opportunità per iniziare questo proficuo studio e forse si potrebbe iniziare da un testo agile e per molti aspetti poco conosciuto. Si tratta di uno degli ultimi discorsi di Giovanni Paolo II, fatto nel gennaio del 2005 e indirizzato al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, un discorso che secondo alcuni è possibile definire il “testamento sociale” di Papa Wojtila e che il pontefice non voleva rivolto solo ai diplomatici ma in particolare ai governi che questi rappresentavano. In questo testo Giovanni Paolo II indica ai governanti “le quattro sfide dell’umanità di oggi” – la vita, il pane, la pace, la libertà – ovvero le questioni prioritarie per costruire quella che soleva chiamare la “civiltà dell’amore”.

La prima sfida – esordiva Giovanni Paolo II davanti agli ambasciatori presso la Santa Sede – è la sfida della vita. La vita è il primo dono che Dio ci ha fatto, è la prima ricchezza di cui l’uomo può godere. La Chiesa annunzia il ‘Vangelo della Vita’. E lo Stato ha come suo compito primario proprio la tutela e la promozione della vita umana”. La sfida della vita si sta facendo oggi sempre più vasta e drammatica, ma la parola di Giovanni Paolo II è chiara: nulla che violi l’integrità e la dignità dell’essere umano, compreso la fase embrionale, può essere ammissibile. La ricerca scientifica va incoraggiata e promossa, ma non può considerarsi al di sopra della sfera morale. Una scienza che degrada l’uomo ad uno strumento non è degna dell’uomo. La vita, dunque, va protetta, tutelata, servita in ogni momento, in ogni angolo della terra. Essa non sopporta riduzioni. Difendere la vita significa anche difendere la famiglia: dare forza e solidità alla famiglia – ci insegna Giovanni Paolo II – significa contribuire ad una società ancora in grado di scommettere sull’umano; su relazioni profonde e responsabili; sulla vita; sulla dedizione come espressione naturale della maturità umana; sul futuro, su un’esperienza umana e sociale di qualità. La seconda sfida è quella del pane, ossia quella di far sì che ogni persona possa godere dei mezzi necessari alla sua vita, che nessuno debba più soffrire la povertà e la denutrizione, essere calpestato nel suo onore e reso vittima dell’ingiustizia. Sono ancora troppi oggi gli esseri umani cui non viene riconosciuta la dignità di persone o vengono di fatto privati dei diritti fondamentali. Davanti a questa considerevole porzione di umanità non possiamo restare muti, come non è rimasto Giovanni Paolo II, che ha dato voce alle folle degli esclusi e degli affamati – di pane e di giustizia- in ogni angolo della terra.

Con la stessa tenacia e determinazione, Giovanni Paolo II ha affrontato la terza delle grandi sfide dell’umanità del nostro tempo: la pace. Il secolo XX –ha scritto – ci lascia in eredità soprattutto un monito: le guerre sono spesso causa di altre guerre, perché alimentano odi profondi, creano situazioni di ingiustizia e calpestano la dignità e i diritti delle persone. Esse, in genere, non risolvono i problemi per i quali vengono combattute e pertanto, oltre ad essere spaventosamente dannose, risultano anche inutili. Con la guerra, è l’umanità a perdere”. Giovanni Paolo II ci ha anche insegnato che la pace è un dono che si invoca, incessantemente, con quella preghiera che crede nell’impossibile di Dio e dunque rende sempre possibile la speranza, anche nelle ore più buie.  La pace è un valore che si paga: non può essere a basso prezzo: sarebbe un surrogato. Deve scomodarci e comprometterci. Per questo il Papa ha chiesto il digiuno per la pace; per sperimentare anche il disagio di qualcosa che ci manca, in solidarietà con tanti popoli cui manca il pane; per sentire nel nostro corpo quell’esperienza del limite che ci fa gridare, per noi e per il mondo, “Signore, pietà”. La pace, quindi, domanda l’impegno a costruire conoscenza e amicizia tra i popoli, a cominciare dal nostro quotidiano, riconoscendo nello straniero che incontriamo un fratello e stimando la cultura che egli esprime.

Anche quello della libertà è un altro tema particolarmente caro a Giovanni Paolo II: è lui stesso a riconoscere come alla base delle sue encicliche sociali (Laborem exercens, Sollicitudo rei socialis, Centesimus annus). La libertà è la aspirazione massima di ogni donna e di ogni uomo, profonda, scritta nell’anima. È il valore per cui tanti, di ogni credo e di ogni bandiera, hanno rischiato la vita dimostrando così che solo nel rispetto della libertà si può essere persone. Oggi educare alla libertà significa riconoscere i condizionamenti, individuare le manipolazioni spesso subdole e mascherate di un consumismo che tende ad orientare comportamenti e stili di vita, riconoscere le false promesse di ogni riduzione dell’uomo alla sola dimensione orizzontale. La libertà è sacra, ma non è un assoluto, come oggi alcune correnti di pensiero tendono ad affermare. Ne è negata dal dovere di obbedire al bene che è Dio stesso. Egli ha voluto donare all’uomo la libertà perché potesse amare e riconoscere il suo amore. Non è possibile infatti amare se non nella libertà. Ed è nel nucleo più intimo di noi stessi, in quello spazio interiore che è la nostra coscienza, che sperimentiamo la libertà come grandezza, come rischio, talvolta anche come dramma. È nella coscienza che avviene la rielaborazione di tutto ciò che accade e che interpella la nostra libertà e la capacità di dare senso alla vita.

Queste quattro sfide sono senza dubbio un compito per la politica, che ne deve assicurare le condizioni fondamentali e difenderne il valore, sono in se stesse un imperativo etico, inscritto da Dio nel cuore di ogni uomo e tracciano un cammino di santità, ossia di conoscenza di Dio per la via dell’amore. Ricordare Giovanni Paolo II significa innanzitutto ricordare e mettere in pratica il suo insegnamento.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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