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Miopia strategica tagliare i fondi alla banda larga

postato il 14 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Roberto Dal Pan

Ennesimo voltafaccia, ennesimo dietrofront o forse ennesima conferma che, in materia economica, il ministro Tremonti non ha alcuna intenzione di condividere fette del suo potere decisionale con chicchessia: dalla bozza del testo della legge di stabilità che dovrebbe venire approvata dal Consiglio dei Ministri nelle prossime ore sono spariti gli 800 milioni di euro derivanti dall’asta delle frequenze 4G ed originariamente destinati allo sviluppo della banda larga come da assicurazioni del ministro Romani, tale somma verrebbe invece destinata al Tesoro per il fondo ammortamento titoli.

Una prima considerazione da fare riguarda l’evidente miopia strategica di un taglio del genere: è noto infatti che gli investimenti fatti nei settori delle telecomunicazioni sono tra quelli che generano il maggior risultato in termini di ritorno di interessi sia sul fronte economico che occupazionale e di tale caratteristica è ben conscio anche lo stesso ministro Romani che anzi in più riprese ha citato fonti OSCE per fissare al valore di 1,45 il rapporto investimenti/ricavi nel settore delle TLC. Come noto, la situazione delle infrastrutture della rete Internet in Italia è tra le peggiori in Europa tanto che da più parti si definisce la situazione del nostro Paese come un “medioevo digitale”; ciò è in aperta contraddizione con la necessità – chiara a molti ma evidentemente non al Governo – di porre in essere in brevissimo tempo idonee strategie per rimettere in moto l’economia italiana. Il settore dell’ICT, a detta di molti esperti, può costituire il volano da cui attingere quell’energia necessaria a far ripartire anche altri settori economici e favorire profondi cambiamenti nello stesso tessuto produttivo.

Una seconda considerazione che sorge spontanea dalla vicenda dei fondi destinati alla banda larga è invece di tipo più squisitamente politico e la pone bene in evidenza l’on. Roberto RAO dell’UDC quando si chiede “Qual’è dunque il ruolo del Ministro dello Sviluppo Economico?”. La domanda, che è evidentemente provocatoria, ha però in sé una questione di grande importanza e serve a farci riflettere sui compiti del superministro dell’Economia e delle Finanze che dalla riforma del 2001 accorpa le funzioni che fin dalla nascita della Repubblica erano divise tra i Ministeri delle Finanze e del Tesoro (e del Bilancio e della Programmazione Economica).

Già nel 1947 l’allora Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, pur favorevole all’idea dell’accorpamento, dovette decidere di lasciare separate le attribuzioni del Ministero delle Finanze (con compiti di vigilanza sulle entrate dello Stato) e del Ministero del Tesoro (con compiti di gestione delle spese dello Stato e di programmazione economica) dopo l’esperienza del gabinetto De Gasperi III in quanto evidentemente ritenne non opportuna una tale somma di poteri nelle meni di un’unica persona. Oggi questa scalcagnata Seconda Repubblica si trova alle prese con un Ministero dell’Economia e delle Finanze sulla carta onnipotente ma che dal lato delle Entrate non trova di meglio che incidere con la leva fiscale sulle solite categorie (lavoratori dipendenti, partite IVA, pensionati) senza andare minimamente ad attaccare la grande evasione/elusione fiscale ed i grandi patrimoni mentre dal lato della programmazione economica si limita a navigare a vista e senza un chiaro programma sul lungo periodo, come dimostrano tutti i più recenti provvedimenti legislativi.

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Una mattinata d’ordinaria inutilità

postato il 13 Ottobre 2011

Quella di oggi alla Camera dei Deputati è stata una giornata d’ordinaria inutilità, come le tante altre che ormai si susseguono stancamente e ininterrottamente da quando Berlusconi è a Palazzo Chigi. In un’aula abbandonata dalle opposizioni e presidiata da una maggioranza ridotta a claque mal pagata, Berlusconi si è presentato ancora una volta come alfa e omega della politica italiana e come un disco rotto ha recitato la consueta litania (i cronisti la sanno a memoria) delle riforme da fare. Un momento di rara tristezza reso ancora peggiore dalla coreografia grottesca: Bossi afflitto da una crisi di sonno, i deputati di centrodestra che fotografano i banchi vuoti della sinistra, e peones di ogni risma che animano, se così si può dire, un dibattito lunare privo di alcun senso.  La mattinata di vuoto pneumatico si esaurisce da sola, le regole parlamentari impongono però altre 24 ore di vuoto prima di votare la fiducia. Il tempo e lo spazio sembrano svaniti nell’aula parlamentare, ma l’orologio in cima al Palazzo di Montecitorio sembra con le sue lancette additare i parlamentari che abbandonano la Camera dopo la mattinata di ordinaria inutilità: “pereunt et imputantur”, le ore passano e vi vengono addebitate.

Adriano Frinchi

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Il compito dei cattolici in politica: ricercare e chiedere la sapienza

postato il 13 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Rocco Gumina

In queste ultime settimane alcuni interventi, in diverse circostanze, di Benedetto XVI, del Cardinale Angelo Bagnasco, di Mons. Mariano Crociata hanno permesso alla comunità ecclesiale italiana, all’intera società, una riflessione sui valori fondanti dell’agire politico per il servizio degli uomini, della città. Il Sommo Pontefice nel suo discorso al Bundestag (Parlamento tedesco) ha richiamato la figura del giovane re Salomone, il quale dinanzi alla possibilità di chiedere a Dio qualsiasi cosa, desidera ricevere, possedere la sapienza per poter rendere giustizia al popolo d’Israele e sapere distinguere il bene dal male. Nella nostra storia, con la nostra condizione socio-politica occorre chiedersi con fermezza quale valore possa avere questo racconto biblico: cosa significa per un politico a qualsiasi livello operi? Cosa significa questo per un cittadino? E per un credente che senso ha la scelta di Salomone? Certamente nell’Italia, nell’Europa di questo nostro tempo non ci sono più imperatori o governanti che possono ostacolare o addirittura vietare la professione della fede o più laicamente lo sviluppo integrale dell’uomo e delle comunità umane, magari minacciando la condanna a morte o la detenzione, come accadeva nei primi secoli ai cristiani. Ma forse è presente nei palazzi del potere e in diversi strati della società quella tendenza, consapevole o meno consapevole, a non colpire direttamente, ma a uccidere con i soldi, con la gestione del denaro, con la capacità di trovare in qualsiasi situazione il compromesso, il ricatto morale, il gioco al ribasso. Chiedere e ricercare la sapienza, per un politico e per un cittadino credente o non, vuol dire promuovere la giustizia, ricercare il bene comune, agire con responsabilità nei confronti degli altri e delle cose di cui si è guida o rappresentante, sostenere l’educazione integrale delle future generazioni, dare impulso alla legalità. Solo così, per dirla con La Pira, possiamo ricomprendere e vivere l’impegno politico, nei partiti o da cittadini, come un sforzo a radunare prudenza, fortezza, giustizia e carità: solo e radicalmente così possiamo ritenere che la politica non sia una cosa brutta o non seria. La politica è una cosa serissima poiché si occupa dell’uomo in vista dell’uomo. Capiamo bene, dunque, che la capacità di sapere discernere tra il bene e il male e la possibilità di promuovere la giustizia per la propria gente sono realtà molto gravi e urgenti in tutti i tempi, specialmente in questa ora.

Ecco perché il Cardinale Angelo Bagnasco afferma, all’apertura dell’ultimo consiglio permanente della CEI, che c’è bisogno di purificare l’aria, di dare la scossa, di imprimere il cambiamento in un contesto che appare come uno stagno dove l’acqua è immobile e puzza. Ovviamente il “solo” riscontrare lo stato delle cose non sostiene la svolta, ma aiuta a capire che c’è un’Italia che vuole tornare a faticare, a chiedere la sapienza, a credere al futuro della nostra splendida penisola, mettendo da parte lo scontro e un linguaggio e dei modi da società incivile, per reggere nel futuro e nel presente riscoprendo l’austerità, la sensibilità per la verità, la moderazione, l’equilibrio, la forza e dei partiti (che vanno riformati e dunque rinnovati dall’interno) e dei movimenti civici (i quali non possono e non devono supplire al ruolo dei partiti nella nostra società), delle associazioni laiche e cattoliche.

I cattolici impegnati sia nella politica che nella società sono, quindi, interpellati per continuare a servire la nostra Italia con sapienza e con la capacità di distinguere il bene dal male, potendo sostenere un’idea di centro intesa non come luogo politico equidistante da destra e sinistra, ma come area in grado di avere una rinnovata visione per lo sviluppo del nostro Paese basandosi sulla Dottrina sociale della Chiesa, in grado di ritrovarsi insieme non solamente per le “battaglie” di natura etica, ma anche per molto altro, in grado di non essere autoreferenziale, ma capace di attrarre altre e diverse forze politiche e sociali. Cattolici che devono cominciare o tornare ad essere portatori di quella verità politica che continua ad esistere anche se un voto a maggioranza neghi l’evidenza, poiché la verità, anche se sconfitta per qualche voto, continua a svolgere la sua funzione. E bene ha fatto mons,. Mariano Crociata, nella conferenza finale del consiglio permanente della CEI, a ribadire che i vescovi italiani non hanno alcuna intenzione di sfiduciare questo governo per promuoverne altri, ma hanno invece la più radicale convinzione di sorreggere un cammino di rinnovamento morale nella società e quindi anche nella politica in Italia.

La crisi economica, accentuatasi maggiormente nei mesi estivi, ci ha mostrato ancora una volta che i problemi si possono risolvere con una buona politica, e che oggi nel nostro Paese abbiamo disperatamente bisogno di vera politica che guardi con attenzione ai giovani e alle famiglie, che eviti le improvvisazioni e i tentativi, solo giornalistici, di spallata o di cambiamento. Abbiamo bisogno di uomini e di donne, di cittadini italiani, di credenti e non, i quali osino chiedere e ricercare la sapienza per ben servire la comunità con giustizia.

 

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Quando si vende l’anima e ci si rinchiude nel “cerchio magico”

postato il 13 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Stefano Barbero

Di questi tempi la Lega non se la passa di certo bene: tra mal di pancia nella base e instabilità governativa il movimento padano mostra i muscoli con meno disinvoltura. L’imbarazzo c’è ed è tanto: il Carroccio ha mantenuto poche delle promesse fatte al suo “popolo” negli anni scorsi, l’abbraccio con il Cavaliere sta diventando mortale, tanta parte della Lega non vuole essere trascinata da Berlusconi con il suo governo pericolante.

La cartina di tornasole della salute dei partiti spesso è rappresentata, si sa, dai rapporti di forza locali, dalle dinamiche delle sedi periferiche. E quanto più le crepe si vedono nei feudi elettorali, tanto più la crisi è profonda ed evidente. Accade in via Bellerio, dove la lotta intestina per la successione (al capo – formalmente – indiscusso) continua a spaccare il partito. Il congresso provinciale di Varese, culla del movimento, terra del suo padre-padrone, ha confermato una situazione che i cervelli leghisti hanno cercato in tutti i modi di ridimensionare o derubricare a “dialettica interna” (di questi tempi è particolarmente di moda, nel lessico partitico). A Varese gli sfidanti del candidato di stretta osservanza bossiana si sono ritirati, in nome dell’”unità”. Un partito è forte se si mostra tale, devono aver pensato. Così ha vinto a tavolino il candidato unitario, tale Maurilio Canton del giro di Bossi: la Lega dorme sonni tranquilli e i giornalisti affamati rimangono a bocca asciutta. Ma a riaccendere i riflettori sulle agitate acque del Carroccio ci hanno pensato loro, gli stessi elettori, gli stessi iscritti, la “base”, che non hanno digerito l’imposizione di un segretario provinciale non gradito. Ormai la fazione maggioritaria è quella che fa capo al ministro dell’Interno Maroni, sempre più interprete di una Lega che vuole voltare pagina e se possibile smarcarsi da un premier che trascina ideali e voto popolare nel pozzo degli scandali e dell’immobilismo parlamentare. Così quel popolo verde che non sta zitto ha piazzato un bello striscione impossibile da non vedere fuori dalla segreteria della Lega Nord di Varese, con l’evocativo messaggio “Canton segretario di nessuno”. Più chiaro di così.

Intervenuta per l’ennesima volta la censura del “cerchio magico”, la foto aveva ormai fatto il giro del web. La Lega da struttura monolitica, militare, compatta si ritrova a fare l’imitazione di quel PD che a ogni elezione mette in discussione il vincitore. Ultimamente al Carroccio capita così, Bossi (e la Lega ufficiale) perdente – Valcamonica, Brescia i casi più eclatanti – e l’erede, le faccia istituzionale, più rassicurante prosegue la sua ascesa, forte del sostegno della maggioranza degli energici elettori leghisti, che a poco a poco si allontanano dal senatùr, ostaggio, si dice, della ristretta cerchia che lo circonda.

Non entriamo nel merito delle diatribe di un partito che ha, come tutti i partiti, una sua vita, fatta di alti e bassi. Vogliamo solo svolgere questa piccola considerazione: i leghisti che hanno creduto in quella Lega che illo tempore sventolava il vessillo della libertà e dell’indipendenza non si trovano a disagio nel vedere che il movimento cui appartengono è quello che mette la sordina a tutte le voci dissenzienti, che scomunica Flavio Tosi per le sue uscite moderate, che zittisce i sindaci che legittimamente protestano per i tagli? Forse è arrivato il momento di fare chiarezza e trarre le conclusioni: scegliere tra Bossi e Maroni, e soprattutto decidere sul proprio futuro. Berlusconi non è eterno.

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Seguite il vostro cuore e il vostro intuito: l’insegnamento dei premi Nobel

postato il 11 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Jakob Panzeri

Ellen Johnson Sirleaf (nella foto) ha 72 anni ed è la prima donna presidente dell’Africa. Eletta nel 2005 in Liberia dopo un impegnativo confronto con l’ex calciatore del Milan George Weah e l’ex signore della guerra Prince Johnson – famoso per un video in cui beve birra mentre sotto i suoi occhi i suoi accoliti tagliano le orecchie al presidente dittatore Samuel Doe – è stata insignita del premio Nobel per la Pace 2011. La sua attività si concentrò da subito sulla riabilitazione materiale ed economica di un paese dilaniato da anni di guerra civile e sui diritti delle donne, che erano stati al centro della sua agenda politica fin da quando, giovanissima, si era separata dal marito che era stata costretta a sposare a 17 anni. Con lei sono state insignite dell’onorificenza anche la compatriota Leymah Gbowee, una militante pacifista che costrinse il vecchio regime militare liberiano a un tavolo di trattativa di pace con un’idea antica che già ritroviamo nella “Lisistrata” di Aristofane: lo sciopero del sesso. A completare la terna delle donne premiate è Tawakkol Karman, l’attivista yemenita leader della protesta contro il regime di Abdullah Saleh, 32 anni come gli anni del presidente al potere. Questo Premio Nobel è davvero un riconoscimento a un continente che negli anni più recenti continua a ribellarsi alle catene che ne imprigionano il cuore in una lunga rivoluzione in cui le donne svolgono un ruolo da vere protagoniste: è il caso della Primavera Araba, dove l’egiziana Esdraa Abdel Fattah ha avuto un ruolo fondamentale su facebook e twitter nella gestione del movimento 6 aprile corso in piazza Tahir a chiedere le dimissione del governo Mubarak nella terra dei faraoni dove un’altra donna, l’attivista Bothaina Kamel, aspira a governare il suo paese, la primadopo Cleopatra . E’ il caso dell’Arabia Saudita dove le donne – che per legge non possono muoversi senza l’autorizzazione del marito o del parente maschio più prossimo e non hanno diritto di prendere la patente – si sono messe alla guida per le strade di Riad. E’ il caso di Wangaari Mathai, la prima donna centrafricana a laurearsi, la biologa fondatrice del Green Belt Moviment per lo sviluppo sostenibile e la difesa ambientale, di cui ricordiamo la recente scomparsa.

Lunedì, con il riconoscimento in campo economico, si chiuderà la settimana dei Nobel. Per me, anche se in diverse occasioni più o meno recenti mi è capitato di restare perplesso e interdetto per alcune scelte degli accademici, la settimana dei Nobel corrisponde a una scarica di adrenalina pura in cui volgere gli occhi a quanto di grande e bello può scoprire e costruire l’ingegno umano.

Mi commuovo con Tomas Transtromer,lo psicologo che continua a scrivere e a suonare il pianoforte nonostante la mano destra immobilizzata dall’ictus. Un simbolo dell’ermetismo svedese e del suo silenzio nordico, mistico e versatile e un grande amico del nostro Mario Luzi.

Volo trascinato dalla fantasia nei campi della mente grazie al chimico israeliano Daniel Shechtman e a suoi quasi-cristalli, mosaici affascinanti riprodotti a livello degli atomi che non si ripetono mai periodicamente , reticoli geometrici che la mente umana e i limiti della matematica definiva impossibili ma che ora sono stati rintracciati non solo in laboratorio ma anche in natura. Spalanco le mie ali del pensiero ancora più in alto grazie ai fisici Perlmutter, Riess e Schimidt e i loro studi cosmologici sull’entropia e l’espansione dell’universo.

Penso a un futuro migliore grazie ai dottori Beutler, Hoffman e Steinman e ai loro studi sull’interazione tra sistema nervoso e immunologico che aprono allo sviluppo di una nuova generazione di vaccini basati non più sugli anticorpi ma sulle cellule stesse.

Questi uomini e queste donne, ognuno impegnandosi nel suo campo, hanno in comune una cosa: lo stupore e la contemplazione della realtà, la capacità di volgere la mente e il cuore in un universo dalle mille forze e dalle mille bellezze per migliorare ed educare l’uomo e quindi aiutarlo ad entrare nella sua umanità spesso dimenticata. Uomini che hanno dedicato anni della loro vita spesso con grandi sacrifici personali alla ricerca e al loro ingegno e che hanno lasciato un segno nell’umanità. Uomini come Steve Jobs.

Il vostro tempo è limitato, quindi non sprecatelo vivendo la vita di qualcun altro. Non lasciatevi intrappolare dai dogmi – che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altri. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui lasci affogare la vostra voce interiore. E, cosa più importante, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore ed il vostro intuito. Loro sanno già quello che voi volete veramente diventare. Tutto il resto è secondario. Siate affamati. Siate folli.  (Steve Jobs).

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Passa dalle famiglie il futuro dell’Italia

postato il 11 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Roberto Dal Pan

“La condizione di povertà economica delle famiglie con figli si è aggravata” ed ancora “Secondo stime effettuate dalla Banca d’Italia, tra il 2007 ed il 2010 il reddito equivalente sarebbe diminuito in media dell’1,5 per cento. Il calo sarebbe stato più forte, oltre il 3 per cento, tra i nuclei con capofamiglia di età compresa tra i 40 ed i 64 anni”. Non lasciano spazio a dubbi interpretativi le frasi pronunciate dal Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi durante un convegno tenuto lo scorso fine settimana all’Abbazia di Spineto a Sarteano (SI) ed organizzato dall’intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. Nel corso del suo intervento, il prossimo presidente della Banca Centrale Europea ha richiamato ancora una volta l’attenzione sul gravissimo problema dell’assenza di misure strutturali che favoriscano l’uscita del Paese dalla situazione di stagnazione economica, sottolineando nuovamente come la speranza di crescita economica sia direttamente collegata alla risoluzione dei problemi dei giovani e delle famiglie con figli.

Quasi nelle stesse ore in cui si svolgeva il convegno all’Abbazia di Spineto, il Consiglio Direttivo del Forum delle Associazioni Familiari, con parole molto simili, lanciava l’allarme sulla condizione delle famiglie italiane stigmatizzando l’assoluta insufficienza degli strumenti finora messi in campo dal Governo attraverso la manovra finanziaria e sollecitava lo stesso Governo a porvi rimedio attraverso una riforma del fisco e del sistema tariffario da inserire nelle misure a sostegno della crescita che dovrebbero venire presentate nei prossimi giorni. Il Forum ribadiva la necessità di introdurre nel sistema impositivo i correttivi specificamente previsti nel progetto “Fattore Famiglia” al fine ricondurre lo stesso a maggiori criteri di equità e giustizia sociale, completando la proposta con la riforma dell’ISEE per puntare ad una migliore rimodulazione anche della tassazione locale.

Il “Fattore Famiglia” è la proposta introdotta verso la fine del 2010 dal Forum delle Associazioni Familiari ed è volta al miglioramento di alcune criticità del quoziente famigliare, specialmente nella parte in cui, analizzando quanto accade in Francia, parrebbe avvantaggiare i redditi più alti. Si tratta in effetti di un sistema abbastanza semplice ed intuitivo che parte dalla determinazione di una zona “no tax” entro la quale non vi è alcuna imposizione fiscale; il livello sotto al quale non vi è tassazione viene calcolato avendo riguardo alla soglia di povertà relativa calcolata annualmente dall’ISTAT ed utilizzando come base di partenza il costo di mantenimento della persona singola da moltiplicare per il “Fattore Famiglia” estratto da una scala di equivalenza ottenuta applicando sostanzialmente il cosiddetto “quoziente Parma”. Il “Fattore Famiglia” può essere ulteriormente precisato mediante aliquote opportunamente aumentate in presenza di specifici fattori di bisogno quali, ad esempio, la presenza di persone con disabilità oppure non autosufficienti, etc.

Dal dossier dedicato alla proposta e pubblicato sul numero 50/2010 di “Famiglia Cristiana” apprendiamo che – secondo i dati ISTAT – l’11,3 per cento delle famiglie italiane, pari a 21.832.811 nuclei, si trova al di sotto della soglia di povertà relativa e quasi la metà sono famiglie con figli; con l’aumentare del numero di figli la situazione si aggrava tanto che se il 9 per cento delle famiglie con un figlio si trova sotto la soglia di povertà relativa, tale dato sale al 16 per cento con la presenza di due figli, al 25 per cento con tre ed al 30 per cento con quatto o più. Ipotizzando una “no tax area” di base a 7.000 euro (quasi pari cioè alla soglia di povertà relativa secondo gli ultimi dati ISTAT per una famiglia monocomponente e cioè 599,80 € mensili) ed una scala di Fattore Famiglia con coefficienti pari a 1.60 per due componenti, 2.20 per tre, 2.80 per quattro, 3.60 per cinque, 4,40 per sei, 5.20 per sette e 6.00 per otto, si ottengono i diversi importi della soglia sotto la quale non vi è tassazione diretta.

Un interessante convegno sul tema, tenutosi nell’aprile del 2011 a Roma ed organizzato in collaborazione tra il Forum Famiglie e l’Associazione Nazionale Tributaristi LAPET con la collaborazione dell’Università Unitelma Sapienza, ci consente di fare qualche calcolo sull’ammontare economico della manovra così intesa: basandoci sempre sui dati ISTAT disponibili l’applicazione del Fattore Famiglia così ipotizzato costerebbe allo Stato in totale poco meno di 17 miliardi di euro per mancati introiti; in base al tasso di propensione al risparmio per le fasce di reddito analizzate ed ai relativi capitoli di spesa, di tale importo circa 1,6 miliardi andrebbero a confluire nel risparmio privato mentre circa 15,3 miliardi di euro verrebbero utilizzati per l’aumento dei consumi delle famiglie interessate, generando quindi nuovi introiti per lo Stato dalla tassazione indiretta.

Un aspetto correlato alla rimodulazione dell’imposizione fiscale a carico della famiglie con figli e non meno importante dell’aumento della disponibilità finanziaria all’interno del nucleo famigliare è quello evidenziato proprio dal Governatore di Bankitalia nel suo intervento citato più sopra: “il legame tra i redditi dei genitori e quello dei figli in Italia è molto stretto, quasi a livello di quelli dei paesi anglosassoni” e molto diverso da quello rilevato nei paesi del centro e nord Europa; ciò significa che, aggiunge Mario Draghi, il successo professionale di un giovane sembra dipendere più dalle condizioni della famiglia d’origine che dalle capacità personali ed in ragione di ciò possono essere utili strumenti che, sono ancora parole di Draghi, “assicurino condizioni di partenza meno diseguali ai giovani che si affacciano alla vita adulta”.

Dalle considerazioni che precedono, dovrebbe essere evidente la convenienza anche economica per lo Stato nel favorire, con appropriati strumenti legislativi, le famiglie con più figli o quanto meno mitigare le situazioni economiche che ora penalizzano i giovani che tentano di crearsi una propria famiglia. A queste considerazioni economiche se ne aggiungono altre che, per chi come noi ritiene di guardare alla vita pubblica tenendo presenti anche gli insegnamenti cristiani, hanno un valore almeno equiparabile se non – a volte – superiore.

Mercoledì 5 ottobre u.s., in occasione della presentazione del rapporto “Il Cambiamento demografico. Rapporto-proposta sul futuro dell’Italia.”, il Cardinale Angelo Bagnasco nel corso del suo intervento ha affermato che “la nostra cultura fa talvolta vedere i figli come un peso, un costo, una rinuncia, ma i figli sono prima di tutto una risorsa” per poi continuare dicendo che “la ragione del calo delle nascite non può essere soltanto di tipo economico. Si tratta piuttosto di una povertà culturale e morale, che ha di molto preceduto lo stato di innegabile crisi che caratterizza la congiuntura presente” e concludendo con l’ammonizione “se non si riusciranno a far scaturire, nel breve periodo, le condizioni psicologiche e culturali per siglare un patto intergenerazionale l’Italia non potrà invertire il proprio declino: potrà forse aumentare la ricchezza di alcuni, comunque di pochi, ma si prosciugherà il destino di un popolo”.

“Un politico pensa alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni” recita un noto aforisma; mai come in questo caso si può dire che l’attenzione ai problemi delle famiglie e, per estensione, del nostro Paese è lo strumento che ci consentirà di stabilire quanti tra i politici attuali potranno fregiarsi dell’appellativo di “statista”.

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Nuovi calcoli per le pensioni del futuro

postato il 10 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Secondo nuovi calcoli elaborati dall’INPS le pensioni del futuro saranno leggermente più alte di quanto ipotizzato alcuni mesi fa, quando si scatenò una polemica sulle pensioni del futuro (e tutti paventavano pensioni al 30%). Stando ai nuovi calcoli, un lavoratore dipendente andrà in pensione con il 70% dell’ultimo stipendio, mentre un lavoratore autonomo andrà in pensione con il 57% dell’ultimo reddito; tale differenza è da ricercare, motiva l’INPS, nel differente grado di contribuzione: mentre il dipendente versa il 33% dello stipendio lordo, la percentuale del lavoratore autonomo è del 20%.

Ma come si sono svolti questi calcoli? Si è partito dall’assunto che chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995 potrà andare in pensione solo con 65 anni e 3 mesi (nel 2046), qualora avesse i 35 anni di contributi necessari per la pensione anticipata (ovviamente non si calcolano le differenze tra uomini e donne). In alternativa, dovrà attendere fino a 69 anni e 3 mesi, ovvero l’età di pensionamento di vecchiaia richiesta nel 2046, per effetto di tre misure: finestra mobile (la pensione decorre con ritardo di 12-18 mesi rispetto alla maturazione dei requisiti); aumento a 65 anni dell’età di vecchiaia per le donne; adeguamento automatico ogni tre anni dell’età pensionabile alla speranza di vita. In ogni caso anche le pensioni di vecchiaia avranno alla fine almeno 35 anni di contributi alle spalle.

Ma torniamo ai calcoli. Stefano Patriarca, responsabile dell’area pensioni dell’ufficio studi dell’Inps, afferma che se una persona inizia a lavorare oggi, e decide di andare in pensione con 35 anni di contributi nel 2046, avrà il 70% dell’ultimo stipendio (percentuale che, come detto, scende al 54% per un lavoratore autonomo).

Se ipotizziamo invece un lavoratore precario a vita, la pensione sarebbe pari al 57% dell’ultimo stipendio. Certo sono cifre più alte rispetto ai calcoli di qualche mese fa, quando si parlava di pensioni pari al 30% dell’ultimo stipendio, almeno per i precari.
Ovviamente tutti questi calcoli sono al netto delle tasse, e se consideriamo che nelle pensioni non si pagano contributi e si pagano meno tasse rispetto alla retribuzione lavorativa, ecco che il pensionato migliora la propria situazione, rispetto a quanto ipotizzato alcuni mesi fa, soprattutto se andiamo a considerare anche il TFR. Questo miglioramento riguarda anche l’ipotesi di un lavoratore discontinuo, che riesce ad avere “almeno 10 anni di lavoro in nero, 6 da parasubordinato e 22 da lavoro dipendente, si arriverebbe a un assegno pari al 59% dell’ultima retribuzione”.

Patriarca, tra l’altro, ci da ragione su tutta la linea relativamente al considerare il vecchio sistema pensionistico non più sostenibile, affermando che “bisogna dire una volte per tutte che il vecchio mix anzianità-sistema retributivo, che ancora si applica alla stragrande maggioranza dei nuovi pensionati, chi nel ’95 aveva meno di 18 anni di servizio, è insensato”. E questa affermazione nasce da alcuni calcoli elementari, infatti Patriarca ha calcolato che un lavoratore che nel 2010 è andato in pensione a 59 anni con 2.031 euro al mese, che poi è quanto viene liquidato in media dall’Inps ai pensionati di anzianità, avrebbe dovuto prendere, ipotizzando che i contributi versati siano indicizzati e rivalutati con un interesse annuo generoso del 9,5%, non più di 1.050 euro. “La differenza è come se fosse pagata con le entrate dei parasubordinati, degli immigrati, dai contributi di coloro che non arriveranno ad avere la pensione previdenziale anche se hanno pagato i contributi, e con i trasferimenti dello Stato. I 2.031 euro al mese sarebbero equi e corrispondenti ai contributi pagati andando in pensione a 75 anni”.

Allora tutto è a posto? A mio avviso non condivido il leggero ottimismo che pervade l’analisi dell’INPS; non contesto i calcoli, ma è chiaro che se parliamo di un lavoratore precario che arriva a 1000 euro al mese (uno stipendio medio), allora questa persona prenderebbe il 59%, ovvero 590 euro al mese, che è una cifra bassa per poterci vivere con tranquillità. Anche se aumentiamo lo stipendio di partenza, e lo portiamo a circa 1300 euro, che è lo stipendio medio in Italia, otteniamo 767 euro. Non è certo tantissimo, se consideriamo il costo medio della vita. Se parliamo di un lavoratore dipendente, otteniamo rispettivamente 700 euro e 910 euro, cifre che non permettono certo una vecchiaia tranquilla.

Allora il problema è nel calcolo delle pensioni? La realtà è che il vecchio sistema non è sostenibile, quindi bisogna passare al sistema contributivo. Il vero problema è nel mercato del lavoro: lo stipendio medio degli italiani deve essere necessariamente innalzato e bisogna sostituire contratti di lavoro stabili, ai contratti di lavoro precari. Questo non può avvenire con una imposizione da parte dello Stato, ma creando le condizioni per rilanciare lo sviluppo in Italia, che si traduca in maggiori posti di lavoro e quindi un innalzamento delle retribuzioni (è storicamente dimostrato che durante le crisi o durante la stagnazione economica, gli stipendi tendono a contrarsi, mentre quando vi è un aumento dell’occupazione, gli stipendi per effetto del mercato del lavoro e delle sue dinamiche, tendono ad aumentare).

A tal proposito, fa bene l’on.le Casini a volere proporre delle proposte per favorire i contratti a tempo indeterminato tra i giovani, combattendo in tal modo il precariato a vita, come ha affermato recentemente.

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Nuovo condono per premiare i disonesti, una idea che mi fa ribrezzo

postato il 8 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Come già ventilatoprende copro l’idea di un condono fiscale ed edilizio, e questa ipotesi mi fa ribrezzo. Dirò di più, mi fa schifo. Scusate le parole forti, sono opportune. Per finanziare lo sviluppo, invece di andare a colpire l’evasione, si preferisce premiare chi viola la legge, chi evade il fisco, chi deruba gli italiani onesti, chi costruisce in barba ad ogni legge ambientale e di sicurezza. Si dica chiaramente, a questo punto, che lo scopo di questo governo è penalizzare i cittadini onesti, perché non possiamo chiedere sacrifici agli italiani, alle famiglie e ai pensionati se poi premiamo gli evasori.

Se l’idea del condono su cui riflette Berlusconi coincidesse con quella di Scilipoti, sarebbe davvero una tragedia. Cosa prevedeva l’ipotesi di Scilipoti? Far pagare agli evasori solo il 5-10% di quanto dovuto e, in caso di cifre molto pesanti, una rateizzazione pluriennale; a questo condono, poi, si doveva associare un condono edilizio «per i piccoli abusi» residenziali, ovvero tutti gli abusi realizzati fino al 31 dicembre 2010, per una volumetria pari a 400 metri cubi (una casa di circa 150 metri quadri) anche se non «aderente alla costruzione originaria» e indipendentemente dai vincoli ambientali, demaniali, storici.

Da quanto detto, si capisce perché il mio giudizio sia così negativo; se l’ipotesi di questo condono passasse, sarebbe uno schiaffo in faccia a chi paga regolarmente le tasse, uno schiaffo per chi si impegna, e per chi lavora onestamente o che paga regolarmente le tasse, sia che parliamo di pensionati sia di pubblici dipendenti o del “POPOLO DELLE PARTITE IVA”.

Su questa linea si inserisce l’on.le Galletti che ha dichiarato: “Ammesso e non concesso che sia eticamente accettabile che in un periodo di grave crisi si premino ulteriormente i furbetti, il condono sarebbe una medicina peggiore del male. Non è premiando gli evasori che si favorisce lo sviluppo e la crescita di un Paese”. Ed ancora:”Puo’ servire a far cassa ma continuare a riempire una bottiglia bucata non serve a nulla se non la si ripara. All’Italia come ha dichiarato in maniera esemplare il governatore Draghi occorrono riforme strutturali pesanti e incisive per rilanciare sviluppo e crescita e chi pensa di non farle utilizzando il condono, somministra a un malato grave un farmaco inefficace che renderà la malattia irreversibile”.

Naturalmente, da parte del Governo c’è subito stato un balzello di dichiarazioni, c’è da fidarsi?

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Ricuciamo l’Italia

postato il 6 Ottobre 2011

di Adriano Frinchi

In politica accade che ogni tanto qualche slogan venga riciclato, lo ha fatto persino il comunicatore per eccellenza Berlusconi che nel 1994 per il suo neonato movimento politico pensò al nome di una fortunata campagna elettorale democristiana: “Forza Italia!”. Più recentemente, nel 2008, Walter Veltroni ha riciclato l’obamiano “Yes, we can” con un meno altisonante “si può fare”.

Nulla di strano allora se l’associazione “Libertà e giustizia” del prof. Gustavo Zagrebelsky ha riutilizzato per la prossima manifestazione milanese una delle campagne più riuscite dell’Udc con tanto di ago e filo nel manifesto. C’è da augurarsi di non assistere alla replica del Palasharp con tanto di tredicenne imbufalito contro Berlusconi, ma di vedere finalmente una mobilitazione che, anche se non condivisibile in tutte le sue parti, possa essere un progetto, un “per” e non un semplicemente un “contro”. Dispiacerebbe vedere l’ago, che nei manifesti dell’Udc ricuciva il Paese, utilizzato per il più classico dei riti voodoo.

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Il pericolo dello Stato criminogeno

postato il 6 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Roberto Dal Pan

Qualche tempo fa mi è capitato fra le mani un libretto del 1997 edito da Laterza ed intitolato “Lo Stato criminogeno”; il suo autore era un professore universitario che da poco aveva iniziato la sua carriera politica peraltro con un certo successo avendo rivestito per qualche mese anche il ruolo di Ministro delle Finanze: il suo nome era, ed è, Giulio Tremonti. Quel volumetto, che ho tratto dall’oblio in cui giaceva sui miei scaffali, era una coraggiosa opera di denuncia contro “lo stato giacobino che tutto vorrebbe controllare” ed anche “un manifesto liberale per ritrovare la via dello sviluppo”; i tre lustri seguiti all’uscita del volume hanno provveduto a dimostrare quanto sia difficile in questo Paese passare dalle parole ai fatti.

La definizione di “Stato criminogeno”, usata da Tremonti per indicare un Governo che “obbliga” i propri amministrati a trasgredire le leggi che lo stesso produce, mi è tornata in mente quando ho avuto modo di leggere una relazione a firma di Corrado Baldinelli, capo del Servizio Supervisione Intermediari Specializzati della Banca d’Italia, in cui si tratta di intermediazione finanziaria e comparto del “gaming”. L’alto funzionario nella sua nota si sofferma ad analizzare gli aspetti meno conosciuti ma non meno preoccupanti del fenomeno del gioco d’azzardo legalizzato e ne delinea uno scenario non proprio tranquillizzante.

Tanto per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno, guardiamo alle cifre ufficiali fornite dall’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato che gestisce l’intero comparto: nell’anno 2010 la raccolta totale delle giocate effettuate ammontava a 61,4 miliardi di euro, nel solo periodo gennaio-agosto 2011 siamo già arrivati a 48,3 miliardi con un aumento pari al 23,85 % rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente che, se mantenuto, porterebbe l’ammontare annuale delle giocate per l’anno in corso alla fantastica cifra di 76 miliardi di euro .

Analizzando più in dettaglio le cifre e prendendo ad esempio il mese di agosto 2011, ultimo dato definitivo finora disponibile, si scopre che nel mese in esame sono stati giocati dagli italiani ben 6.418 milioni di euro di cui 3.229 milioni provenienti dagli “apparecchi di intrattenimento” cioè le macchinette da videopoker e simili che vediamo installate nei locali pubblici. Non meno sorprendente appare la rilevazione disaggregata su base regionale da cui emerge che la parte del leone la fanno le regioni del nord ed in particolare la Lombardia che contribuisce al totale già citato di 6.418 milioni di euro con la ragguardevole quota di 1.070 milioni di cui ben 632,7 provenienti da slot machines e videopoker. Il dettaglio più preoccupante, tuttavia, deriva non già dalla raccolta delle giocate ma dalle vincite dichiarate in quanto, sempre per rimanere ai dati di agosto 2011 resi noti dall’AAMS, a fronte della raccolta di 6.418 milioni di euro di giocate sono stati pagati 4.955 milioni di euro di vincite di cui 2.571 pagati da videopoker e slot machines. Nel periodo gennaio-agosto 2011 sono state pagate vincite dagli apparecchi da intrattenimento per un totale di 21,8 miliardi di euro e di questo fiume di denaro in moltissimi casi si fatica a conoscere la provenienza e soprattutto la destinazione.

L’allarme sulle zone d’ombra del sistema dei giochi in Italia era stato già lanciato, tra gli altri, da un corposo e documentato saggio apparso su GNOSIS, rivista dell’AISI – Agenzia Informazioni Sicurezza Interna, all’inizio del 2010; in quel pregevole lavoro si passavano in rassegna gli aspetti normativi del comparto e le sue più recenti evoluzioni con particolare attenzione all’esposione dei giochi on-line e relative problematiche. Nelle considerazioni finali del rapporto si rilevava come la preoccupazione investigativa dovesse rivolgersi, oltre che al tradizionale settore dei giochi illegali, anche verso il gioco regolamentato poichè la stessa Direzione Nazionale Antimafia aveva richiamato l’attenzione sul fatto che l’interesse della criminalità organizzata sia ultimamente rivolto verso il gioco legale “sia per scopi di riciclaggio sia per consentire alla propria rete territoriale di usurai di disporre di un numero enorme di potenziali clienti”.

Tornando alla relazione della Banca d’Italia citata in apertura, in essa si rileva come nel gioco tramite rete fisica “le prassi operative fondate sull’anonimato e sull’utilizzo di contante possono favorire comportamenti irregolari e l’infiltrazione della criminalità organizzata”, arrivando poi a segnalare il fatto che “si è creato una sorta di mercato secondario dei ticket vincenti che, configurandosi come titoli di incasso anonimi sostitutivi del contante, sono in grado di alimentare fattispecie di riciclaggio”. La relazione si conclude quindi con l’auspicio dell’adozione di nuove e più stringenti normative che vadano verso l’adozione obbligatoria di mezzi di pagamento tracciabili anche in relazione al gioco in sede fisica oltre che a quello on-line per finire alla necessità di applicazione di standard di tipo finanziario a tutela degli ingenti trasferimenti di valuta originati dal mondo del gaming. A riprova della correttezza dello scenario ipotizzato si consideri che, secondo il bollettino dell’Unità di Informazione Finanziaria della Banca d’Italia, le segnalazioni di attività sospette nel settore dei giochi connesse ad ipotesi di riciclaggio sono state 34 nel 2010 e ben 48 nel solo primo semestre dell’anno in corso.

Pur considerata la massima latina secondo la quale “pecunia non olet”, non può non rilevarsi che il settore del gioco legale – che pure garantisce circa il 15% del fatturato totale delle casse dello Stato – trae la sua sussistenza in un segmento sociale spesso costituito da soggetti deboli ed in condizione di minorata difesa a causa di carenze personali, educative o di censo. Non sono poche ormai le strutture che si occupano di ludopatie, ossia dei comportamenti compulsivi legati al gioco, anche perché il numero stimato dei soggetti potenzialmente esposti alla problematica viene valutato dell’Organizzazione Mondiale della Sanità attorno al 3% della popolazione italiana con già 700.000 soggetti affetti da sindrome del gioco patologico.

Il pericolo di un indiscriminato aumento delle possibilità di gioco d’azzardo, ancorchè sotto il controllo statale, era peraltro già stato abbondantemente segnalato in passato; basti citare la conclusione dello studio del dott. Mauro Croce pubblicato sulla Rivista della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze già nel 2005: “Attraverso il gioco, infatti, la criminalità può ricattare persone indebitate od usurate sotto diverse forme. Concedere credito a tassi di usura a cittadini insospettabili ed incensurati, favorire il loro accesso a forme di gioco controllate direttamente dalla criminalità permette alla stessa di potersi avvalere di persone successivamente ricattabili chiedendo di prestarsi ad azioni delittuose, a coperture, protezioni, all’avere accesso ad informazioni riservate o di infiltrarsi e controllare sotto coperture in imprese, esercizi, e quant’altro”.

Di tali preoccupazioni si sono opportunamente fatti interpreti due illustri esponenti dell’Unione di Centro, che proprio nelle ultime ore hanno fatto sentire la loro voce in merito alla problematica evidenziata. Il capogruppo UDC in Senato Gianpiero D’Alia, durante la discussione della relazione Antimafia sul gioco d’azzardo, ha rilevato come affrontare il tema delle ludopatie e del gioco o d’azzardo voglia dire spalancare gli occhi su di una vera e propria emergenza sociale che pervade l’intera nazione e rende necessario calendarizzare leggi di contrasto al gioco d’azzardo perché esso rappresenta il punto d’incontro di gravi distorsioni dell’assetto socio-economico e favorisce il crimine organizzato anche attraverso il collegamento con fenomeni quali usura, estorsione e riciclaggio. Il Senatore D’Alia ha sottolineato inoltre che si sarebbe aspettato un vero dibattito parlamentare sulla questione mentre invece il Governo é rimasto cinicamente assente disinteressandosi del tutto, a maggior riprova del fatto che le evidenti incentivazioni a comportamenti patologici sul fronte del guioco corrispondono alla volontà di introdurre forme occulte di prelievo dalle tasche dei cittadini mascherandole con ammiccanti forme di intrattenimento.

Nell’altro ramo del Parlamento, l’On. Antonio De Poli, membro della Commissione Affari Sociali della Camera, ha presentato un progetto di legge teso a modificare il Regio Decreto n. 773 del 1931 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) al fine di impedire l’installazione delle slot machine nei luoghi pubblici o aperti al pubblico, nei circoli e nelle associazioni. Nel presentare la proposta di legge, anche l’On. De Poli ha rilevato come negli ultimi anni si sia potuto assistere ad una evidente incentivazione del gioco d’azzardo anche attraverso la legalizzazione di giochi prima proibiti. Ciò che doveva rappresentare solo un piacevole passatempo rischia però di trasformarsi per molte persone in una vera e propria dipendenza del tutto assimilabile a quella da sostanze stupefacenti, con la conseguenza che il benessere futuro di intere famiglie viene messo a repentaglio dal comportamento compulsivo di chi si trova imprigionato nei meccanismi del gioco patologico. Una analoga proposta di legge volta a modificare il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza era già stata presentata in Consiglio Regionale del Veneto dal Capogruppo dell’UDC Stefano Valdegamberi.

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