Tutti i post della categoria: In evidenza

Gheddafi, fine di una dittatura

postato il 24 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Jakob Panzeri

Il primo settembre 1969, mentre re Idris si trovava a Bursa, in Turchia, in un complesso termale con la moglie e il suo seguito, un giovane militare di tendenze progressiste e nazionaliste sancisce con un pacifico colpo di stato la fine della monarchia libica istituendo il Comando della Rivoluzione. A poco più di ventisette anni, è il più giovane capo di stato del mondo e fa sognare una “repubblica araba, libera e democratica”.

42 anni dopo. Il Colonnello ha la testa appoggiata alla gamba di una persona. Sanguina. In un secondo frammento appare riverso sul cofano di una jeep. Lo tirano giù e lui sta in piedi, anche perché dei guerriglieri gli fanno da stampella. Si sente gridare due volte: «Tenetelo in vita». Poi gli spari e un cadavere trascinato nella polvere.

Finisce così, tra sangue e calcinacci, la vita di Muammar Gheddafi, il giovane profeta dell’Africa unita rivelatosi uno dei più crudeli assassini e dittatori d’Africa.

Immagini da macelleria messicana trasmesse su tutte le reti nazionali e i telegiornali senza alcun filtro, una scelta sicuramente opinabile, forse mediata da poco buon senso. Molte altre testate e reti internazionali come l’inglese BBC hanno scelto invece di mostrare solo le scene precedenti alla morte del dittatore, lasciando disponibili i frammenti successivi sul proprio sito internet dopo aver avvisato della gravità della scena. Chissà se per ogni bambino che ha visto le immagini di Gheddafi morente ci fosse anche vicino un adulto in grado di spiegarli la realtà dei fatti e il significato di tanta violenza! Non si tratta di censura ma unicamente di buonsenso, come espresso nella dichiarazione Capogruppo dell’Udc in Commissione di Vigilanza Rai, Roberto Rao.

Non si può gioire per la morte di un essere umano, di un qualsiasi essere umano, perché non è lecito a un uomo uccidere un altro uomo. La sua scomparsa non cancella le sofferenze che ha inflitto a migliaia e migliaia di libici. Ci auguriamo che la morte di Gheddafi, che si porta nella tomba anche molti misteri come il massacro di Lockerbie- il più grave attentato aereo terroristico dopo l’11 settembre- non segni solo la morte di un dittatore, ma la morte di un intero sistema di amicizia e di potere che ha coinvolto tutto l’Occidente, troppo spesso preoccupato dai suoi affari economici ed energetici per poter guardare all’inesprimibile sete di libertà presente nel cuore umano e al desiderio di democrazia dei popoli mediorientali e nordafricani schiacciati da soprusi e regimi. Questa è la nostra vera gioia e speranza.

Molti altri Gheddafi, sconosciuti ai più e volutamente ignorati dai media occidentali, avvelenano la grande terra africana: una terra dal respiro millenario dove l’uomo è nato e dove oggi regimi e dittature allattano i loro figli al seno sterile della morte fustigando la libertà come preda ringhiosa sanguinante al sole.

E’ ora di voltare pagina, di costruire una nuova politica mediterranea e africana perché questi popoli possano volgere i loro visi d’ebano alla brillantezza del sole e all’ alba di una notte che sembra infinita.

 

 

1 Commento

L’Italia e la vespa: sogno di una favola moderna

postato il 22 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Marta Romano


Immagino Te, Italia mia, come una Vespa, una di quelle Vespe rosse fiammanti che hanno fatto la storia del nostro Paese nel dopoguerra, quel Paese che cresceva senza sosta, mosso da entusiasmo e voglia di fare, dalla gioia di tornare a vivere. Quella Vespa correva, sfrecciava col vento di cambiamento che investiva l’Europa intera, correva senza fermarsi, neanche davanti ai dossi e alle salite, che allora erano già molto ripide. Correva veloce perché la guidavano mani abili, di persone premurose, che tenevano all’incolumità di quella Vespa rosso fuoco più della loro stessa vita e che per questo, nel loro viaggio in sella a quel veicolo, hanno fatto di tutto per evitare pozzanghere, fango e breccia, per farla sfrecciare senza incidenti.

Purtroppo, però, Paese mio, cara Vespetta, sei stata sfortunata: hai subito troppi passaggi di proprietà. Ben presto gli autisti sono diventati più incauti, si sono divertiti a fare manovre spericolate e, troppo fiduciosi della tua carrozeria, non hanno evitato le buche, che poi sono diventati crateri: ci sono finiti dentro, hanno sfiaccato gli ammortizzatori di quel veicolo che sembrava così forte, così imbattibile. Ma non si sono arresi.

Ti hanno svenduta ai migliori offerenti. Ti hanno svenduta a chi  non aveva neanche la patente per guidarti, a chi aveva promesso di renderti più bella, di ridarti lucentezza e che, invece, ne ha approfittato per portarti attraverso sentieri paludosi, sporchi e maleodoranti, attraverso  “Rione degli Spot” , “Viale del Clientelismo” e  “Via della Corruzione”. Attraverso le strade lerce e pericolose della città più brutta di sempre “MalaPoliticopoli”.

Eppure Tu sei forte, Vespetta-Italia, sei forte. Sei ancora viva, il tuo motore va più lento, perché nessuno l’ha mai ripulito, ma corre ancora. La tua carrozzeria è diventata scura, nera di polvere e di fango, ma sotto quella coltre fumosa si vede ancora il ruggito di quel rosso fiammante. C’è qualche graffio qui è lì, ma sei ancora in piedi. Hai rischiato di cadere, ma sei ancora lì.

Ora, però, quel cavalletto così forte, che ha retto il peso di tanti anni di difficoltà, è stremato. Italia mia, mai come adesso hai bisogno di mani forti che ti tengano ben salda, che ti riportino a correre e sfrecciare, per non lasciarti ancora ferma, col rischio di cadere giù e renderti un rottame da demolire.

E allora, adesso tocca a noi, a noi tutti: riverniciamo insieme la nostra Vespa, il nostro Paese, diamole nuovo lustro. E per farlo ripartiamo dal Sud, da quel Sud che può essere il motore di questa nuovo veicolo. Rimettiamolo in sesto, puliamo il carburatore dalle ortiche che lo ostruiscono e ripartiamo alla velocità della luce. Facciamo urlare ancora quel motore, ascoltiamo insieme il suo boato, corriamo insieme a lei, alla nostra Vespa, col vento tra i capelli. Ripartiamo insieme e, perché no, ripartiamo dal Sud.

2 Commenti

La Borsa della Benzina non vuol dire sviluppo

postato il 21 Ottobre 2011

Mentre il  decreto sviluppo continua ad alimentare le polemiche politiche, tra chi, come gli imprenditori, chiede che la riforma sia varata in fretta, chi si oppone a una legge a costo zero e chi,  premier in testa, fa  notare che le risorse per stimolare la ripresa non ci sono, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha posto il veto su tutte le proposte del collega dello Sviluppo economico, Paolo Romani, bloccando di fatto la riforma. Tuttavia, sono iniziate a circolare nuove indiscrezioni sulla bozza di legge allo studio dell’esecutivo.

Tra le proposte spiccano la creazione di una “Borsa carburanti” e la liberalizzazione delle pompe di benzina.

Sulla borsa carburanti qualche perplessità viene da Mauro Libè, che nel suo blog scrive:

Sembra assurdo ma il decreto sviluppo é pieno di provvedimenti a costo zero ma anche a benefici ridottissimi. l’idea sull’istituzione di una Borsa sulla benzina, invece, rischia di costare e dare risultati pari a zero. Come bene spiega Mario Pezzati i margini di manovra sono vicini allo “zero”. Gli organi di guida e di controllo dei mercati sono utili se possono portare reali benefici ai consumatori. Questa idea del Governo porterà probabilmente benefici solamente ai vertici che dovranno guidarla.

Mario Pezzati, ripreso da Libè, ha infatti ampiamente spiegato che la prossima Borsa carburanti rischia di essere “l’ennesimo ente inutile creato per gettare fumo negli occhi degli italiani per dare l’impressione che il governo voglia combattere il caro benzina”.

Sempre Pezzati ci ricorda che “il prezzo del petrolio incide per meno di 1/3 (ovvero solo per il 30%) sul prezzo della benzina, il resto è dovuto alle accise (imposte varie) che impone il governo italiano e all’iva (al 20%) e al prezzo dei prodotti petroliferi finiti (raffinati)”.

Tornando alle perplessità di Mauro Libè, Roberto Rao, su twitter, rincara la dose:

1 Commento

Partecipazione, la scommessa per il futuro

postato il 21 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Carlo Lazzeroni

Il tema della “partecipazione” mi affascina molto da quando, ormai dieci anni fa, frequentando il Master in Analisi Politiche Pubbliche ho avuto la fortuna di conoscere quel filone di studio e di “pratica” della forma di democrazia, definita deliberativa / partecipativa e il suo massimo esponente in Italia, il prof. Luigi Bobbio. A queste teorie e pratiche io mi riferisco quando si parla oggi di partecipazione alle scelte pubbliche, seguendo appunto quanto già sperimentato da tempo negli Stati Uniti (dove questa metodologia è nata) e in molti altri paesi anglosassoni e del Nord Europa, dove di fronte a delle scelte pubbliche, si avviano processi di inclusione dei cittadini e/o dei vari attori portatori di interesse, per arrivare a decisioni più ampiamente dibattute e condivise.

Questo nuovo e maturo “approccio” democratico nella gestione della cosa pubblica, mi pare ancora più utile nel nostro paese per tre motivi: – il crescente movimento di cittadini e comitati frutto della sindrome Nimby (dall’inglese Not In My Back Yard, che significa “Non nel mio cortile”), di fronte ad ogni tipo di opera proposta sul territorio; – una classe politica sempre meno autorevole e all’altezza di guidare democrazie sempre più complesse; – un crescente interesse dei cittadini, specialmente i più giovani che, con la rivoluzione tecnologica godono di un accesso di informazioni molto più elevato rispetto al passato, vogliono sempre più essere protagonisti delle scelte che riguardano il bene comune e la società, anche quando non direttamente “nel proprio giardino”. E’ infatti assodato che nelle nostre democrazie, ogni intervento di un certo impatto economico, ambientale o sociale che sia, provoca scontenti e potenziali “conflitti” sul territorio coinvolto. E se un tempo era relativamente facile assolutizzare l’interesse generale dichiarando, per esempio, una certa opera «di interesse nazionale» e troncare così le possibili opposizioni, liquidandole come espressioni localistiche, particolaristiche o miopi, oggi questa operazione risulta molto più complicata.

Di fronte a tutto questo sicuramente non basta più lo slogan “Sono stato eletto e devo governare!”, così come insufficiente appare l’approccio tradizionale: io Autorità decido una cosa (ad esempio il sito di un impianto di smaltimento dei rifiuti o il passaggio di una autostrada) con criteri tecnici e poi cerco di mostrare la bontà di questa scelta alle comunità locali e ai cittadini. Questi quasi sicuramente daranno vita a comitati che protestano, si oppongono e bloccano l’opera. Da lì si cercherà di negoziare e correre ai ripari, ma ormai è troppo tardi. L’approccio della democrazia partecipativa invece si basa sullo “Svegliar il can che dorme”, cioè non nascondere le criticità di un progetto, coinvolgendo direttamente e fin dall’inizio le comunità locali, gli attori più coinvolti e i cittadini nei criteri di scelta. La regola principe dovrebbe essere: non mettere più la gente di fronte a una soluzione, metterla di fronte al problema, espresso bene da uno studioso del tema con queste parole: “Guardate che il problema in questi casi, non è quello di trovare un sito, come luogo fisico, bensì una comunità che sia disposta ad accoglierlo”.

Questi concetti stanno dentro un principio che dovrebbe essere fondamentale nelle nostre società moderne e cioè che i cittadini che subiscono degli impatti (ambientali, sociali, economici) dovrebbero essere rappresentati nei processi decisionali. “Nessun impatto senza rappresentanza” che, in fondo, è una parafrasi del principio: no taxation without representation, all’origine del parlamentarismo moderno. Anche in Italia ormai dalla fine degli anni ’90 ci sono stati diverse sperimentazioni e applicazioni di queste teorie. E’ la Toscana però la prima regione in Italia e al Mondo che ha deciso addirittura di dotarsi di un’apposita legge, la 69 del 2007. Legge che, attraverso la costituzione di un’Autorità regionale per la partecipazione (indipendente) mira a promuovere sia in generale, sia su tematiche specifiche e locali, il coinvolgimento dei cittadini nelle politiche pubbliche. Io avevo mostrato delle perplessità sulla necessità di un’apposita norma in materia. A distanza di quattro anni e di un bel po’ di esperienze e progetti finanziati dalla legge (86 di fronte a 164 richieste pervenute), si deve però riconoscere che la nostra regione può a buon diritto rivendicare l’esperienza più avanzata in Italia e una delle più avanzate in Europa in questo tipo di “approccio” democratico.

Rimane però un punto critico secondo me molto importante: la pratica partecipativa come l’abbiamo finora intesa non è stata ancora sperimentata in nessun progetto a forte criticità e rilevanza sul territorio. E se è vero che ogni progetto di partecipazione messo in piedi arricchisce comunque il capitale sociale di un territorio e quindi della società, credo che molto della sfida futura della democrazia partecipativa (e della stessa sopravvivenza della legge) si giocherà sulla riuscita applicazione del processo partecipativo su qualche opera importante, anche per superare le evidenti difficoltà, come dicevo prima, della “democrazia rappresentativa”. Che non è e non dovrebbe sentirsi in contrapposizione con questo “nuovo” approccio, visto che quasi sempre è proprio la politica e gli amministratori a rimanere protagonisti, perché sono loro a scegliere, su un certo tema, di dare vita ad un percorso di maggiore inclusione della popolazione.

L’ha capito bene il sindaco di Firenze, Matteo Renzi che, pur avendo un profilo di politico decisionista da “uomo del fare”, con le due edizioni dell’iniziativa “100 luoghi”, ha dato vita contemporaneamente a cento assemblee strutturate per ascoltare e coinvolgere i cittadini, su cento spazi della città da trasformare, immaginare e costruire. Quella di Renzi è un’iniziativa che mette in campo principi e metodi della “partecipazione”, seppure in forma estemporanea (una giornata) e con effetti un po’ da spot (non a caso non è uno dei progetti finanziati dalla legge regionale), ma al confronto con gli altri amministratori, il sindaco di Firenze appare un rivoluzionario. Tornando alla legge regionale sulla partecipazione, credo invece che il percorso intrapreso in questi mesi per la costruzione di una Moschea a Firenze, faccia parte di uno di quei progetti che potrebbero essere di “svolta” sul futuro della legge. Se infatti, come credo, attraverso questo percorso “difficile” si arriverà ad una scelta condivisa, o comunque si avrà una percezione positiva sul cammino intrapreso da parte dei cittadini e di tutti gli attori coinvolti, ci saranno degli innegabili effetti positivi, utili anche per convincere i politici più scettici (quasi tutti, anche coloro che hanno proposto e voluto la legge) ad utilizzare ed investire su questo tipo di metodi democratici. Altrimenti credo che la legge sia a rischio (visto che essendo innovativa, si è data anche una scadenza naturale, il 2012, a meno di nuove scelte legislative) e questo sarebbe una sconfitta. La Moschea allora ci salverà?

 

Commenti disabilitati su Partecipazione, la scommessa per il futuro

Riconoscimento della LIS, la Sicilia apre la strada.

postato il 20 Ottobre 2011

Per una volta la Sicilia è avanti rispetto al resto del Paese. Così se a Roma il riconoscimento della LIS si è impantanato alla Camera dei deputati, a Palermo l’Assemblea regionale siciliana ha approvato all’unanimità il disegno di legge in favore della diffusione della lingua dei segni italiana (LIS) come lingua propria della comunità degli audiolesi promosso dal deputato dell’Unione di Centro Totò Lentini. Il disegno di legge intende promuovere la lingua dei segni italiana (LIS) come strumento di ausilio e di integrazione delle comunità degli audiolesi e incentivarne l’acquisizione e l’uso, determinando in particolare, mediante un regolamento, emanato dal Presidente della Regione, le modalità di utilizzo della stessa nell’Amministrazione regionale e in ambito scolastico e universitario, nel rispetto delle rispettive autonomie. La normativa proposta mira, piuttosto che riconoscere la LIS come strumento aggregativo e di distinzione di una comunità degli audiolesi – per sua natura assolutamente eterogenea -, a considerare questo linguaggio come uno degli strumenti a disposizione per superare gli ostacoli posti dall’handicap auditivo, nella consapevolezza, peraltro, del pieno diritto di questi soggetti di imparare e scrivere correttamente la lingua italiana. L’obiettivo è, attraverso questa promozione che rivendica di anticipare, nell’ambito della competenza regionale, le determinazioni che assumerà il legislatore nazionale, quello di rimuovere, in ossequio all’articolo 3 della Costituzione, alcuni degli ostacoli che possono limitare il pieno diritto di cittadinanza degli audiolesi, fornendo loro un importante strumento di ausilio. Il ddl sulla “Lingua dei Segni” è dunque un valido strumento di integrazione per le persone audiolese e costituisce, come ha ricordato l’onorevole Lentini, ”il primo di una serie di impegni che l’Udc intende portare avanti per garantire i diritti delle persone con disabilità”.

Adriano Frinchi

1 Commento

Il difficile rapporto tra politica e archeologia

postato il 20 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Davide Delfino

Fin dai suoi esordi l’archeologia ha potuto contare su forti appoggi da parte della politica e delle ideologie. Si possono citare brevemente: l’incoraggiamento, in funzione nazionalista, di Napoleone III per le antichitá celtiche; l’incentivare, tra il XIX e il XX secolo, scavi nel Vicino Oriente e nell’Egeo da parte di Inghilterra, Francia, Germania e Italia, volto a rafforzare la presenza politica e l’egemonia culturale di questi Paesi; l’interesse dei nazisti per le ricerche della Forschungsgemeinschaft Deutsches Ahnenerbe finalizzate a trovare le tracce dell’ancestrale popolo ariano; l’appoggio del governo di Mussolini alle ricerche sulle antichitá romane; il proliferare nell’ Unione Sovietica del dopoguerra delle ricerche sui sistemi di produzione antichi, nell’ottica di dar risalto al lavoro operaio nel corso della storia.

Spesso la ricerca archeologica ebbe, quindi, supporto da parte dei poteri forti perché serviva, direttamente o indirettamente, per degli scopi politici, ideologici, geostrategici. Ora, nel tempo da molti considerato come periodo post ideologico, quale puó essere l’interesse della politca per l’archeologia e lo studio della storia dell’uomo in generale? Bisogna, prima, premettere due punti: 1) in passato le Scienze Archeologiche servirono per finalitá anche di basso profilo etico, basta scorrere alcuni degli esempi citati poc’anzi; 2) si intenderá in questa sede la parola politica non come lotta o dibattito tra partiti, ma nel suo significato piú ampio e genuino, ovvero: politica come comunitá di cittadini responsabili che direttamente o indirettamente prendono parte alla gestione della Stato, o meglio, nel senso aristotelico, “politica come amministrazione dello Stato per il bene di tutti”. (Aristotele: Politica)

Da un recente dibattito su “Politica e Archeologia” occorso durante il recente XVI Congresso dell’ Unione Intrenazionale di Scienze Presistoriche e Protostoriche (U.I.S.P.P.) tenutosi a Florianopolis in Brasile e co-coordinato dallo scrivente assieme a colleghi sud americani, é emerso che la politica, sia intesa come comunitá di cittadini che come Governi, ha bisogno dell’archeologia, soprattutto come motore di aggregazione sociale e di rilancio economico. Un esempio per chiarire. In Portogallo nel 1994 ci fu una forte battaglia civica in difesa delle migliaia di incisioni rupestri nella Valle del fiume Côa: in quell’occasione, quello che poi sarebbe diventato un patrimonio protetto dall’ U.N.E.S.C.O. rischiava di finire sotto le acque di un bacino idrico artificiale in progetto; si mossero comitati civici e singoli cittadini per salvare le incisioni, che risalgono in gran parte a 30.000/15.000 anni fa, e in questo frangente gli archeologi furono un agente determinante e il patrimonio archeologico un potente fattore di aggregazione sociale.

Per le “politiche” di oggi qual’ é l’utilitá dell’ archeologia e degli archeologi? A livello globale, piú strategico, un archeologo ha una visione panoramica su molteplici problemi che i governanti d’oggi si trovano ad affrontare, in quanto egli si dedica ad una disciplina che é multidisciplinare: non fraintendiamo, l’archeologo non é specialista in tutto. Ma lavora a fianco di geologi, antropologi, chimici, fisici, biologi, e anche storici, teorici dell’economia, artisti e talvolta filosofi. Avendo un contatto professionale con questi esponenti di vari discipline, riesce ad avere una panoramica di differenti visioni, approcci e saperi. Per esempio i problemi della gestione delle risorse naturali, oggi cosí attuali nella progressiva desertificazione di molte aree o nella carenza di forme di energia rinnovabili, sono, un motivo molto forte nello studio dei periodi antichi. E non solo usando i metodi che tutti conoscono e legano alla figura di “Indiana Jones”: si lavora bensí anche con la paleobotanica, lo studio dei suoli, l’antropologia, la geografia fisica, l’archeologia della produzione (che implica lo studio dell’uso e della gestione dei materiali). Un altro esempio illuminante é lo studio del paleoclima: non é una novitá per gli archeologi che l’uomo, nel corso della sua storia fin dall’ultima glaciazione (110.000-12.000 anni fa), ha sempre dovuto adattarsi all’ambiente circostante per sopravvivere: innovare le tecnologie che non erano redditize, mantenere quelle che garantivano il massimo risultato con il minimo costo, cambiare stile di vita e, spesso, territorio a seconda delle possibilitá di sopravvivenza.

Queste esperienze di lavoro multidisciplinari e applicate a periodi storici e preistorici, danno all’archeologo la capacitá di avere una visione pluridirezionale, stereoscopica delle cose e, nel contempo, di trasmettere alla comunitá, alla politica odierna, insegnamenti per gestire la”cosa pubblica” traendo spunto dalle scelte, ma anche dagli errori, dei nostri antenati.

In periodi di “crisi” come quello che viviamo ora, é quanto mai importante la gestione territoriale: 1)avere la capacitá di interpretare le necessitá e le potenzialitá nascoste di un territorio conoscendo la sua storia, le attivitá che l’ hanno costruita, le comunitá umane che l’hanno popolato fin dai tempi piú antichi 2) riuscire in base a questa analisi a trovare la soluzione migliore per coordinare delle azioni che possano rilanciare l’economia locale, soprattutto portando persone su quel territorio. Probabilmente in tutto ció la figura di un archeologo puó avere una parte importante e, forse, anche indispensabile

Che cosa puó dare la politica all’ archeologia? Sarebbe troppo banale dire finanziamenti. Forse é piú originale, concreto e fattibile dire: 1)appoggio a livello istituzionale; 2) piú spazio nei luoghi di gestione territoriale; 3)aiutare la visibilitá mediatica non dei novelli “Indiana Jones” degli archeoclub, ma dei professionisti che tutti i giorni lavorano sui cantieri, fanno formazione nelle Universitá (non solo i professori, ma i ricercatori che tengono i corsi senza ricevere un euro), realizzano incontri nazionali ed internazionali dove si dibatte sui grandi temi del passato che interessano anche il presente e il futuro, cercano di valorizzare il patrimonio archeologico e la ricerca sul campo sul territorio ( e con questo indirettamente contribuiscono al rilancio delle piccole economie locali); 4) facilitare un’azione educativa verso le nuove generazioni affinché comprendano che la conoscenza e la curiositá per il passato puó aiutare a gestire meglio il presente e pianificare in modo piú consapevole i futuro.

Infine, per tornare alla storia della disciplina, molti tra i piú noti archeologi ed epigrafisti italiani del “periodo d’oro” delle ricerche ( tra la fine del XIX secolo e gli anni ’20 del XX) sono stati senatori, legati quindi direttamente alla gestione dello Stato: Luigi Pigorini (1842-1925), Paolo Orsi (1859-1935), Domenico Comparetti ( 1835-1927), Giacomo Boni (1859-1925), Angelo Mosso (1846-1910). Ció non significa che l’archeologia italiana debba avere dei propri rappresentanti in Parlamento; ma se chi vi si trova avesse maggiore attenzione per la carenza di visibilitá istituzionale e la potenzialitá che ha l’archeologia e hanno gli archeologi per il futuro del Paese, sicuramente si avrebbe lo stesso un fondamentale contributo.

 

 

Commenti disabilitati su Il difficile rapporto tra politica e archeologia

Quale sviluppo senza soldi?

postato il 19 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Berlusconi da giorni annuncia per questa settimana un Decreto Sviluppo che dovrebbe dare una sferzata all’economia. Francamente questa affermazione mi fa tremare i polsi, visti i magri -se non pessimi- risultati ottenuti a gennaio scorso con la “frustata all’economia”.

Finalmente Berlusconi getta la maschera e ammette che “non ci sono i soldi”, un decreto che nasce monco. Nel frattempo tutto il popolo italiano chiede un intervento deciso e strutturale, e anzi oggi si è saputo dell’ultimo appello lanciato in una nuova lettera inviata al premier Silvio Berlusconi da Abi, Confindustria, Rete imprese Italia, Ania e Alleanza cooperative per affrontare la crisi con misure «concrete e credibili» nel dl Sviluppo, perché ormai «il tempo è scaduto». Che il tempo sia scaduto, lo sappiamo tutti. Lo sanno le famiglie che fanno la spesa, gli italiani senza lavoro, le imprese che faticano a tenere il passo con la concorrenza, anche il resto del mondo sa che per l’Italia il tempo dei temporeggiamenti e delle furbizie è scaduto. Eppure, Berlusconi continua a mostrare la sua noncuranza, sfiorando l’incoscienza, quando dice che soldi per lo Sviluppo non ce ne sono, ma che non ha fretta di presentare questo Decreto; anzi lo presenterà solo quando sarà sicuro. Sicuro di cosa? Non si sa.

Se il problema sono i soldi, allora spero che l’on.le Berlusconi ci legga, perché stavolta glielo scriverò a lettere maiuscole, visto che da questa estate lo ripetiamo e non riesce a comprenderlo: VENDA LE 6 FREQUENZE DIGITALI TELVISIVE CEH HA REGALATO A MEDIASET E RAI; HANNO UN VALORE DI CIRCA 3 MILIARDI DI EURO.

Dopo che abbiamo incamerato questi soldi, li usi per finanziare la banda larga in Italia, visto che il pieno sviluppo di questo strumento, poterebbe risparmi per 40 miliardi di euro e una crescita del PIL di circa 60 miliardi di euro, come abbiamo detto alcune settimane fa.

Come vedete, le idee ci sono, e i metodi per ottenere soldi senza spremere gli italiani pure; basterebbe ad esempio una lotta seria all’evasione, che sottrae ogni anno circa 250 miliardi di euro all’Italia. Questa lotta si dovrebbe fare distinguendo tra grandi evasori e chi è incorso nelle sanzioni, perché ridotto in miseria da questa crisi: nel primo caso sanzionare senza pietà (chi ha i grossi capitali deve pagare, non può evadere); per il secondo caso, la sanzione dovrebbe essere diluita e rateizzata nel tempo per non essere penalizzante.

Queste proposte, sono state portate avanti a più riprese dall’UDC, anche tramite emendamenti e ordini del giorno regolarmente rifiutati dalla maggioranza che dimostra una arroganza che rasenta la follia e l’incoscienza, oltre a produrre perdite enormi per lo Stato italiano, come nel caso della privatizzazione della Tirrenia che costerà allo stato più di quanto incasserà, ovvero a fronte di un incasso di 380 milioni, il governo si è impegnato a restituire agli acquirenti ben 576 milioni di euro (arrivando a perderci circa 200 milioni di euro).

L’ultimo caso di arroganza è legato al Ponte sullo Stretto di Messina: l’Unione Europea ha ritirato i fondi, ma il governo fa sapere che realizzerà lo stesso il Ponte, usando soldi pubblici e capitali dei privati. Ma siamo sicuri che i privati vorranno investire sul Ponte? Domanda legittima alla luce della situazione economica attuale, e soprattutto alla luce di alcune particolarità che esporrò in un successivo articolo.

Intanto il governo annuncia che a breve si saprà il nome del nuovo governatore della Banca d’Italia, che, a mio avviso, sarà quasi sicuramente Bini Smaghi, nome che il premier sta tirando fuori ora, ma che già era noto, visto che, per fare andare Draghi alla BCE, era necessario che Bini Smaghi si dimettesse e, all’epoca (parliamo di pochi mesi fa), il premier gli promise la carica di Governatore di Bankitalia.

1 Commento

Contro chi dovrebbero manifestare gli indignati

postato il 18 Ottobre 2011

di Marco Bigelli, Professore di Corporate Finance (Università di Bologna)

Gli indignati non dovrebbero prendersela con Draghi perché in realtà è il loro migliore amico. Il futuro dei giovani dipende infatti dalle capacità di crescita del paese, e queste sono legate alle riforme che Draghi ha sempre indicato per liberalizzare l’economia, renderla più competiti va e più meritocratica.

Non dovrebbero prendersela neanche con le banche italiane perché non hanno colpe per la crisi finanziaria attuale, che è un’evoluzione della crisi subprime nata oltreoceano e ora diventata crisi dei debiti sovrani europei a causa dell’esplosione del debito di alcuni paesi per il salvataggio delle banche e della riduzione del PIL a seguito della recessione economica.

Il debito italiano non è esploso perché non è stato necessario salvare alcuna banca, è solo sceso il PIL. Ora però anche il nostro debito è a rischio perché il mercato pensa che non riusciremo mai ad abbatterlo grazie a una robusta crescita, come invece dovremmo per il nuovo patto di stabilità europeo (secondo cui dovrebbe scendere dal 120% al 60% in 20 anni).

Fra poco potrebbe arrivare il default della Grecia e allora si dovranno salvare altre banche in Europa con ulteriore crescita del debito pubblico di alcuni paesi. Le banche italiane saranno a rischio solo se anche il debito pubblico italiano diventerà più rischioso e scenderà ulteriormente di valore, essendo molto presente nei loro bilanci.

Se i giovani indignati vogliono un futuro devono sperare che le banche italiane vadano bene e che l’Italia riconquisti la fiducia dei mercati sul suo debito pubblico. Per questo obiettivo il tempo rimasto è poco. Ogni mese che passa il debito in scadenza viene rinnovato a tassi più alti del 3-4%. Se non si riconquisterà la fiducia in fretta, si dovranno fare manovre solo per pagare il maggiore livello dei tassi di interesse, e ad ogni manovra diminuiranno le aspettative economiche future delle giovani generazioni.

In Italia gli indignati dovrebbero prendersela con chi nel paese ha generato una montagna di debito pubblico e ha soffocato la sua crescita: la criminalità organizzata, gli evasori fiscali, i pensionati baby, i finti pensionati di invalidità, i raccomandati, i politici corrotti, gli amministratori pubblici che hanno sperperato il denaro pubblico ed altri.

In conclusione, non dovrebbero andare a manifestare a Roma, o a New York ma ogniqualvolta si imbattono in uno dei soggetti che gli sta rubando il futuro.

3 Commenti

Dove sta la differenza tra indignazione e delinquenza

postato il 16 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera.

Quello che è successo oggi a Roma è terribile, incredibile e inammissibile. Una città devastata dalla furia cieca e irrazionale di un gruppo di black bloc che hanno ancora una volta dato dimostrazione della loro meschinità, della loro violenza, della loro ignoranza: la giornata di oggi resterà come una ferita profonda nella nostra storia e nella nostra memoria collettiva. Come lo sono stati gli anni 70, come lo è stato il G8 di Genova. È andata male, ma poteva andare anche peggio.

Ora che la situazione sembra essere stata riportata sui binari della normalità, restano tante domande e tanti interrogativi a cui qualcuno dovrà dare risposta (uno su tutti: come è possibile che una città come Roma possa essere messa in ginocchio da dei simili criminali?). E resta un’amara consapevolezza: che la nostra società si sta disgregando rapidamente, stretta com’è tra populismi vari e demagogie di sorta. Personalmente, non ho mai condiviso la protesta dei cosiddetti indignados, mi hanno sempre convinto pochissimo, perché ho avuto modo di ascoltare attentamente le loro proposte economiche, che, onestamente, come cura mi sembrano ben peggiore del (presunto) male che vorrebbero curare: ma mi dispiace che la loro protesta sia stata inficiata dalle azioni violente dei BB. Perché il diritto ad esprimere in libertà la propria opinione va sempre salvaguardato, stando sempre attenti a distinguere tra cittadini e delinquenti, su come vadano difesi i primi e su dove vadano sistemati i secondi.

Commenti disabilitati su Dove sta la differenza tra indignazione e delinquenza

Niente dimissioni, non siamo inglesi.

postato il 15 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

«Ho colpevolmente permesso che venissero sorpassati i confini che separano gli interessi personali dalle attività del governo». Queste parole, purtroppo, non sono di Silvio Berlusconi madel ministro della difesadel Regno Unito Liam Fox che ha ritenuto opportuno lasciare la guida del dicastero dopo essere stato messo sotto accusa dalla stampa – soprattutto dal Guardian – per via del ruolo controverso ricoperto dal suo amico e testimone di nozze Adam Werritty negli affari del ministero. Il povero Fox ha avuto solo la sfortuna di nascere in Inghilterra, perché se fosse nato in Italia non solo avrebbe potuto portarsi in giro il suo amico come un qualsiasi Lavitola, ma in caso di necessità avrebbe potuto perorare presso i commissariati di polizia la causa di presunte nipoti dell’ex rais egiziano Mubarak e sarebbe stato salvato dal Parlamento dalle grinfie di magistrati e giornalisti brutti, sporchi e cattivi. Ma a Londra l’aria è diversa e così Fox è stato costretto alle dimissioni. Se a Londra la volpe viene impagliata a Roma il lupo perde il pelo ma non il vizio e così dopo l’ennesimo rocambolesco voto di fiducia, non si parla assolutamente di dimissioni, anzi Silvio Berlusconi, l’uomo che fa sembrare Liam Fox soltanto un bambino birichino, ha pensato bene di premiare ancora una volta quanti si sono prontamente impegnati, non sempre limpidamente, per garantire la sopravvivenza dell’esecutivo. I beneficiati con posti di viceministro sono l’ex finiana Catia Polidori, che il 14 dicembre fu determinante con il suo cambio di casacca per salvare il governo, e Aurelio Misiti ex Idv ed ex Mpa che aveva votato contro la perquisizione negli uffici del ragioniere di fiducia del Cavaliere. A questi si aggiunge Pino Galati che diventa sottosegretario grazie ai “mal di pancia” di Mario Baccini. Niente dimissioni, non siamo inglesi verrebbe da dire e ci sarebbe anche da ridere confrontando le nostre infornate ministeriali con le dimissioni di Fox se nello stesso Consiglio dei ministri che ha lanciato nell’empireo del potere altri peones non si fosse approvato il ddl stabilità con una incredibile  pioggia di tagli: alla polizia (60 milioni in meno tra il 2012 e il 2013), alle spese di vitto per guardia di finanza e carabinieri (tre milioni in meno), ai monopoli di Stato (50 milioni in meno a partire dal prossimo anno), agli istituti di previdenza come Inps, Inpdap e Inail, e ancora nel settore della scuola, dove i distacchi, i permessi e le aspettative saranno ridotti del 15%, e si taglia la figura del dirigente scolastico per quegli istituti autonomi al di sotto dei 300 studenti. Ciliegina sulla torta: un miliardo di euro in meno anche alla voce destinata all’edilizia sanitaria, cioè agli ospedali. E mentre si tagliava di qua e di là il ministro Romani è riuscito anche a perdere i fondi per la banda larga. L’ultima versione della legge di stabilità uscita dal consiglio dei ministri conferma che le telecomunicazioni perdono la quota dell’extragettito dell’asta per le frequenze che invece era inizialmente destinata al settore.Non vi allarmate però se questi tagli vi mettono in difficoltà, in fondo qualche altro posto da sottosegretario ci potrebbe scappare e potete anche portare tranquillamente un vostro amico. Mica siamo inglesi.

 

Commenti disabilitati su Niente dimissioni, non siamo inglesi.


Twitter


Connect

Facebook Fans

Hai già cliccato su “Mi piace”?

Instagram