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Tutti gli interessi economici fra l’Italia e la Libia di Gheddafi

postato il 24 Febbraio 2011

Le recenti vicende libiche, che seguono le rivolte avvenute in tutto il Nord Africa e Medio Oriente (e che non sembrano essersi sopite come dimostra l’Egitto) ha posto sotto gli occhi di tutti i numerosi rapporti economici che vi sono tra il nostro paese e la Libia. D’altronde l’Italia è al primo posto per l’export e al quinto per l’import da Tripoli, con un interscambio nel primo semestre 2010 che si aggira attorno ai 7 miliardi di euro, con stime superiori ai 12 miliardi per l’intero anno.

D’altronde la nostra dipendenza dall’energia libica è elevatissima, infatti ricordiamo che noi importiamo dalla Libia quasi un terzo del petrolio e del gas che utiliziamo, e anzi uno studio della societa’ Althesys afferma che se il blocco del gas dalla Libia, arrivasse a durare un anno, ci sarebbero delle ripercussioni sulle bollette degli italiani, di circa l’8,5%, perchè la necessità di ricercare combustibili alternativi per non fare fermare le industrie italiane, porterebbe ad un aumento del costo di produzione dell’elettricita’ pari a 20 euro per ogni MegaWatt/h prodotto, pari a circa 32 euro a famiglia.

Se invece osserviamo le società che hanno rapporti a vario titolo con la Libia, osserviamo che la Libia controlla il 7,2% di Unicredit, la finanziaria Lafico possiede il 14,8% della Retelit (società controllata dalla Telecom Italia attiva nel WiMax), il 7,5% della Juventus e il 21,7% della ditta Olcese.

Non è finita qui, perchè Tripoli, attraverso il fondo sovrano Libyan Investment Authority, possiede una partecipazione attorno al 2,01% di Finmeccanica, società italiana leader nella tecnologia e negli armamenti.

Però l’importanza della Libia non è solo nelle partecipazioni azionarie, perchè vi sono oltre 100 imprese italiane in Libia, prevalentemente collegate al settore petrolifero e alle infrastrutture, ai settori della meccanica, dei prodotti e della tecnologia per le costruzioni. L’elenco è smisurato, ma, volendo restare alle più note, non possiamo non citare Iveco (gruppo Fiat) presente con una società mista ed un impianto di assemblaggio di veicoli industriali, Impregilo (i contratti stipulati con la Libia pesano per circa l’11% del fatturato della società), Bonatti, Garboli-Conicos, Maltauro, Ferretti Group (tutte società di costruzioni). Altri settori sono quelli delle centrali termiche (Enel power), impiantistica (Tecnimont, Techint, Snam Progetti, Edison, Ava, Cosmi, Chimec, Technip). Telecom è presente anche con Prysmian Cables (ex Pirelli Cavi).

Nel 2008 inoltre i libici hanno formalizzato un’intesa con il ministero dell’Economia italiano che dovrebbe permettere a Tripoli di aumentare le partecipazioni in ENI (di cui già possiedono lo 0,7% del capitale) inizialmente al 5%, poi all’8%, fino a un massimo del 10%.

D’altro canto l’ENI è il primo produttore straniero nel paese libico, con una produzione di circa 244mila barili di petrolio al giorno, oltre al gas prodotto dai campi libici attraverso il gasdotto denominato GreenStream (che in questi giorni è stato chiuso a scopo precauzionale dall’ENI) che collega Mellitah, sulla costa libica, con Gela, in Sicilia. Nel 2008, Eni si è approvvigionata dalla Libia per circa 9,87 miliardi di metri cubi di gas naturale e ha avviato il potenziamento del gasdotto per consentire un aumento della capacità di trasporto da 8 a 11 miliardi di metri cubi/anno entro il 2012. Ma tutto questo è niente se lo confrontiamo con il piano di modernizzazione della Libia concepito da Gheddafi, che prevede investimenti per 153 miliardi di dollari per realizzare infrastrutture, progetti urbanistici e tecnologie per sviluppare l’industria estrattiva del petrolio e del gas. L’Eni ha siglato con la società libica che gestisce il petrolio e il gas (Noc, National Oil Corporation) un accordo da 28 miliardi di euro per lo sfruttamento dei giacimenti di greggio e l’aumento della produzione di gas, a cui si aggiunge l’accordo da 150 milioni di dollari con la Noc e la Gheddafi Development Foundation per il restauro di siti archeologici, interventi in campo ambientale, e la formazione di ingegneri libici, che saranno assunti dalla major del cane a sei zampe.

Anche Impregilo, come abbiamo detto, ha fatto e fa molti affari in Libia: ha vinto una commessa per la costruzione di una torre di 180 metri e un albergo di 600 camere a Tripoli, ha realizzato gli aeroporti di Kufra, Benina e Misuratah, e il Parlamento a Sirte. La stessa società ha vinto l’appalto per costruire tre università, più diversi alberghi e è in gara per la costruzione di una autostrada fino all’Egitto.

Questo per quanto riguarda gli affari “civili”, poi c’è il business delle armi: per il momento le nostre aziende del settore difesa hanno siglato ricchi contratti per la fornitura di mezzi militari e armi. In questo modo, la strada è stata aperta e i buoni rapporti instaurati in questi mesi serviranno per siglare nuovi e più sostanziosi contratti per la fornitura di armi e mezzi.

D’altronde la Libia nel 2007 (ultimi dati disponibili) ha acquistato armamenti per 423 milioni di euro, il 52% in più rispetto a dieci anni prima. Ora è il quarto acquirente di armi dell’Africa settentrionale (dietro ad Algeria, Marocco e Senegal).

«Tripoli – osservano i ricercatori del Sipri – sta trattando con alcuni grandi fornitori per acquistare sistemi d’arma complessi e si prevede diventi nei prossimi anni uno dei principali acquirenti di armi del continente africano». Nel Rapporto del presidente del Consiglio dei ministri sui lineamenti di politica del governo in materia di esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento 2008 (la relazione che annualmente il governo italiano presenta al parlamento) la Libia, con 93,2 milioni di euro di fatturato, è il nono cliente dell’industria bellica italiana (nel 2007 il fatturato era di 56,7 milioni di euro).

Questa cifra è destinata ad aumentare visto che i recenti accordi (come quello da 300 milioni di dollari siglato con da Selex con il governo libico) con Finmeccanica promettono di aumentare ulteriormente le esportazioni di armi verso Tripoli.

E non è finita qui, perchè anche l’agroalimentare italiano ha grossi rapporti con la Libia, come afferma la Coldiretti, infatti sono a rischio le esportazioni di conserve di pomodoro, frutta, biscotti e cioccolato per un valore che ha superato i 100 milioni di euro nel corso del 2010, a fronte di importazioni dalla Libia pari a 1 milione di euro.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

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Libia, non c’era bisogno del baciamano a Gheddafi

postato il 23 Febbraio 2011

Se abbiamo un ruolo nella politica europea lo dobbiamo dimostrare e questo è il momento

Il ministro degli esteri Frattini dice che ci siamo divisi sul trattato Italia-Libia, ma che oggi dobbiamo essere uniti sull’emergenza. Accetto questa impostazione e rivendico il fatto che noi, insieme all’Idv e ai Radicali, abbiamo votato contro un trattato che prefigurava un rapporto di accondiscendenza rispetto a Gheddafi.

Mi fa piacere che il Pd oggi vada in piazza a manifestare, ma loro hanno votato con la maggioranza quel trattato di amicizia. Oggi avvertono che le cose potevano andare diversamente. Non c’era bisogno del baciamano di Berlusconi a Gheddafi per capirlo, bisognava usare più sobrietà.

Rivendico un’idea diversa del nostro rapporto con la Libia. Ma rimetto la firma perché maggioranza e opposizione evitino di scontrarsi su Berlusconi usando anche questa vicenda. Chi se ne importa di Berlusconi in questo caso, è più importante quello che sta accadendo in Libia.

Il ministro Frattini ha utilizzato il Parlamento per inviare un messaggio esplicito all’Unione Europea. Vorrei dare un suggerimento: se noi esistiamo in Europa, il presidente del Consiglio prenda il cappello e l’aereo e vada dalla Merkel, da Sarkozy, da Cameron a fare quello che deve fare. Se abbiamo un ruolo nella politica europea lo dobbiamo dimostrare e questo è il momento.

Pier Ferdinando

L’intervento integrale

Signor Presidente, la prima considerazione che vorrei fare è che una politica estera dignitosa prevede che sui principi non si ceda mai. La prima cosa che dobbiamo fare è dire che questa strage di civili è vergognosa, esprimere una solidarietà non formale e forte, farlo ripetutamente in tutte le sedi cui l’Italia partecipa.

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Libia: Governo crei comitato di crisi con l’opposizione

postato il 21 Febbraio 2011

Dimostriamo, almeno in questo caso, uno spirito di autentica coesione nazionale

Siamo stati gli unici, qualche mese fa, a votare contro il trattato di amicizia con la Libia di Gheddafi, ma questo non può essere usato in alcun modo per polemiche interne.
C’è un’autentica catastrofe che rischia di riversarsi sul nostro paese in termini di approvvigionamenti energetici e di arrivi di migliaia di clandestini. Dobbiamo affermare i principi di sempre, libertà e democrazia, e dobbiamo guidare l’Europa, che non può essere spettatore indifferente di vicende che rischiamo di pagare molto care.
Propongo al governo di istituire un comitato di crisi con la presenza di maggioranza ed opposizione per dimostrare, almeno in questo caso, uno spirito di autentica coesione nazionale.

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L’anelito di libertà che ci deve disturbare

postato il 20 Febbraio 2011

La fine dei governi autoritari di Tunisia ed Egitto sembra aver innescato un movimento di protesta senza precedenti che in questi giorni riempie le piazze di molti paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Le notizie che giungono da questi paesi sono molto frammentarie e confuse perché le autorità controllano le comunicazioni e hanno messo in atto una strategia di oscuramento che colpisce specialmente la rete internet e i suoi social networks, tuttavia le notizie riescono comunque ad aggirare in qualche modo questo feroce embargo e in queste ore ci raccontano anche delle repressioni nel sangue in particolare in Bahrein e in Libia. Queste serie di sollevazioni dal golfo persico all’oceano Atlantico sono sicuramente il sintomo di un malessere generalizzato nei confronti di regimi autoritari e corrotti che governano grazie alla paura e a complicità svariate, spesso anche internazionali, e che hanno impedito la crescita di questi paesi e in molti casi hanno causato uno spaventoso divario tra poveri e ricchi. Altro particolare di queste rivolte è che le piazze sono piene di giovani e donne dai diritti conculcati e dal futuro incerto che traggono forza e speranza dai contatti che sviluppano attraverso internet con l’Occidente libero e democratico.

Nonostante queste caratteristiche comuni le proteste e le rivolte che sconvolgono il Maghreb e la penisola araba sono molto differenti tra di loro ed ogni paese presenta variabili ed imprevisti che difficilmente consento di identificare il fenomeno e di prevedere sviluppi e possibili scenari. Di certo in questo momento c’è l’insufficienza della politica estera dell’Europa e dell’Italia, al contrario degli Stati Uniti, che pure con evidenti defaiances diplomatiche sono riusciti in qualche modo a far sentire la loro voce, l’Europa è sembrata spiazzata ed afona di fronte al precipitare della situazione in Tunisia, in Egitto e poi negli altri paesi.

L’Unione Europea dei trattati e delle conferenze mediterranee, di Tony Blair e Lady Ashton non è riuscita a prendere una posizione, a intervenire e probabilmente ha deluso le aspettative di quegli uomini e di quelle donne che nelle piazze e nelle strade di questo oriente inquieto speravano almeno in un cenno di approvazione della patria del diritto e della civiltà. Purtroppo non ci si può neanche consolare con le diplomazie nazionali: come ha argutamente notato Ugo Tramballi su il Sole 24 ore se in un motore di ricerca proviamo a cercare qualcosa del tipo “Franco Frattini Medio Oriente” oppure “Alliot-Marie Proche Orient” troveremo poco o niente. E’ probabile che questo silenzio non sia solo il frutto amaro di ministri degli esteri incapaci ma anche di un imbarazzo politico dovuto all’appoggio, non troppo velato, ai tiranni di ieri che hanno governato spesso col consenso e la benevolenza di parecchi stati europei che spesso hanno anche notevoli interessi economici in ballo.

In Italia l’assordante silenzio del ministro Frattini è purtroppo compensato dalle incredibili dichiarazioni del Premier che ha affermato davanti ai giornalisti di non avere sentito Gheddafi e di non permettersi di disturbalo. Peccato che il “non disturbare Gheddafi” del Presidente del Consiglio sia costato al popolo libico più di cento morti negli scontri di Bengasi. Fiumi di sangue e la fine dello status quo in Nord Africa e Medio Oriente dovrebbero spingere Berlusconi a riferire alla Camere, e più in generale dovrebbero costringere l’intera Europa a riflettere sulle conseguenze di questa situazione e ad intervenire per una soluzione non violenta delle crisi che però preservi e sostenga l’anelito di libertà e democrazia che proviene dalle piazze Tahrir di tutto l’Oriente. Un anelito che deve “disturbare”  i satrapi orientali ma anche i sonni tranquilli dei cosiddetti paesi liberi.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Il Governo riferisca alle Camere e condanni le violenze In Libia

postato il 19 Febbraio 2011

In Libia è in corso un silenzioso massacro di giovani intellettuali e lavoratori che protestano contro un regime liberticida. Le autorità italiane assistono in modo silenzioso e forse imbarazzato nel ricordare le indegne sceneggiate a cui ci ha costretto ad assistere il colonnello Gheddafi sul territorio italiano con la sola voce indignata di una parte dell’opposizione.
Chiediamo che il Governo riferisca in Parlamento al più presto su quanto sta avvenendo e che le Camere esprimano una condanna netta e ferma per atti di violenza perpetrati nei confronti di spontanee manifestazioni di protesta popolare contro un regime tirannico.

Pier Ferdinando

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La grande migrazione

postato il 17 Febbraio 2011

Le temute (e prevedibili) conseguenze delle ribellioni Nordafricane si sono manifestate. Da diversi giorni i canali dell’immigrazione clandestina si sono riaperti, a causa della forte instabilità che sta rapidamente contagiando i Paesi dell’area mediterranea. I flussi più consistenti provengono dalla Tunisia: oltre 5000 immigrati clandestini sono partiti dalle coste di quel tormentato Paese.

Non tutti però raggiungono il suolo italiano, come nel caso del peschereccio speronato da una motovedetta tunisina poche miglia prima dell’ingresso nelle nostre acque territoriali. Delle oltre 120 persone imbarcate, solo 25 sono state tratte in salvo a seguito dell’affondamento della barca, 7 sono i morti accertati. Per i dispersi, le possibilità che siano tratti in salvo sono quasi nulle.

Incidenti sono stati registrati anche nelle nostre acque, quando una motovedetta della Guardia di Finanza ha aperto il fuoco ferendo uno scafista che si rifiutava di fermare l’imbarcazione all’intimazione dei militari. Ciò che dal Ministro dell’Interno Maroni è stato definito un “nuovo ’89”, rischia di divenire in realtà una catastrofe umanitaria; egli denuncia la totale assenza dell’Unione Europea in soccorso del nostro Paese, lasciato solo ad affrontare questa ondata migratoria, l’inattività della Commissione e dell’Agenzia Europea per l’Immigrazione (Frontex), richiede stanziamenti per far fronte a quest’onere quantificati in 100 milioni di Euro.

Accuse infondate ed ingiuste secondo la Commissaria all’Immigrazione dell’U.E. Cecila Malstrom, che anzi le rispedisce al mittente, asserendo che il Governo Italiano ha più volte rifiutato l’aiuto offerto dalle Istituzioni Europee. Ma un rapporto dei Servizi di intelligence interni desta preoccupazione: secondo il direttore dell’A.I.S.I. Giorgio Piccirillo infatti il Governo libico avrebbe una precisa responsabilità nell’attuale situazione di emergenza.

A fronte del “Trattato di amicizia” firmato tra Roma e Tripoli e costatoci 250 milioni di Euro all’anno per venti anni, il Colonnello Gheddafi si impegnò col nostro Paese a far cessare le partenze di clandestini dalle proprie coste, adottando anche metodi censurabili. Ma ad oggi, la preoccupazione per un effetto contagio, acuita anche dai disordini occorsi la notte del 15febbraio a Bengasi, spinge la Libia a non onorare gli accordi stipulati con il nostro Paese.

Gheddafi, il più longevo dittatore dell’area Mediterranea, sembra abbia deciso di favorire la fuoriuscita di dissidenti e carcerati verso il confine tunisino come valvola di sfogo al crescente malcontento all’interno del Paese. Gli analisti ritengono che in questa ottica debba inserirsi il nuovo piano edilizio da 27 milioni di Dollari varato dal Colonnello in tutta fretta. Tuttavia, con l’Egitto che rischia di divenire una nuova rotta migratoria ed altri Paesi sull’orlo dell’anarchia, la caduta del regime libico rischia al momento di aprire una falla colossale nella struttura geopolitica del Nord Africa, di fatto aprendo le porte a decine di migliaia di migranti dell’entroterra africano, che si andrebbero a sommare alle migliaia pronti a partire dagli stati litoranei.

Rimane pesante l’ombra della totale impreparazione ad uno scenario concretamente prevedibile. Se infatti è vero che l’Europa deve farsi carico della situazione, come ha ricordato anche il leader dell’U.d.C. Pier Ferdinando Casini, è altresì evidente che il Governo sembra aver chiuso gli occhi a quanto stava accadendo da ormai diverse settimane in tutta l’area mediterranea, in una forse disperata speranza che la situazione che stiamo vivendo sia solo un brutto sogno.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Federico Poggianti

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Solidarietà a Mussavi e Karrubi

postato il 16 Febbraio 2011

Seguiamo tutti con grande apprensione le vicende del Medio Oriente. In queste ore, nonostante ci sia una censura fortissima del regime, in piazza ci sono migliaia e migliaia di cittadini iraniani che manifestano il loro anelito verso la libertà. E ieri, all’interno del parlamento iraniano, la parte dei cosiddetti conservatori di Ahmadinejad ha chiesto l’impiccagione per Moussavi e per Karroubi, che noi abbiamo conosciuto bene perché è stato qui in vista come presidente del parlamento iraniano.
Vorrei elevare la solidarietà di tutti noi verso questa battaglia di democrazia e soprattutto dire a Karroubì che non lo lasceremo solo!

Pier Ferdinando

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Russia, la porta dei due mondi

postato il 7 Febbraio 2011

La storia della Russia affonda le proprie radici in tempi antichissimi. La cultura di questo sconfinato paese, da sempre un ponte tra due mondi totalmente diversi come l’Europa e l’Asia, si è sempre distinta per la propria terzietà. Una terra attraversata da 11 diversi fusi orari che lambiscono e racchiudono infinite culture, che affondano le proprie radici nei due diversi continenti, ma che in realtà sono terze ed indipendenti.

Dal XVIII secolo in poi, lo sforzo dei governanti russi è sempre stato volto a modernizzare il proprio Paese sul modello delle monarchie europee. Da un lato il tessuto sociale russo, composto in grandissima parte da contadini, garantiva il potere dello Zar e della nobiltà dal malcontento che andava crescendo negli stati in cui l’assolutismo era ormai in crisi. La pressoché totale assenza di una classe borghese salvaguardò la monarchia russa dal pericolo di contagio in ordine agli ideali rivoluzionari francesi del 1789. Dall’altro però condannò per oltre tre secoli il paese ad un cronico arretratezza economica ed in parte culturale.

Sino ai primi anni ’30 del XX secolo, la base economica del paese era rimasta immutata: l’agricoltura era in maniera quasi assoluta il fattore principale. Culturalmente, anche sotto l’impulso di sovrani illuminati come Caterina la Grande, la corte stimolò grandemente la creazione di una “inteligencja”, circondandosi di artisti. Questo fenomeno però porto ad una concentrazione della cultura nelle mani del ceto aristocratico, escludendo in maniera assoluta il mai realmente emerso ceto borghese e precludendo definitivamente la possibilità dello sviluppo di quella coscienza liberale e nazionale che si andava affermando in altri stati europei, ponendo così le basi per l’inevitabile declino di una monarchia mai percepita come garante dello stato.

La Rivoluzione d’Ottobre aprì una fase politica nuova: persino Lenin, nell’importare il modello rivoluzionario marxista, si trovò innanzi a dei limiti considerevoli. Marx aveva infatti preso a modello lo stato dove il liberismo ed il capitalismo avevano già raggiunto un relativo avanzamento (egli infatti era un tedesco e visse per lungo tempo a Londra). Per importarlo in Russia, Lenin dovette stravolgere i propri piani: mancava totalmente una classe di alta borghesia industriale; la ricchezza era detenuta dall’aristocrazia che ancora applicava modelli economici tardo-medievali. La base della lotta di classe non sarebbero potuti essere quindi gli operai, che rappresentavano un numero alquanto esiguo, ma sarebbero dovuti essere i contadini.

Stalin, succedendo a Lenin, comprese la necessità di un adeguamento dell’economia russa ai criteri industriali del XX secolo, sia per motivi strategici (l’indipendenza produttiva russa si era resa necessaria da quando gli stati occidentali, temendo un contagio al proprio interno del morbo del socialismo reale, avevano in pratica chiuso i canali diplomatici e commerciali con l’U.R.S.S.), sia per motivazioni ideologiche (adeguare quindi la società sovietica alla visione marxista). I Piani Quinquennali, alla base di queste politiche economiche, strapparono milioni di famiglie dalla terra per reinsediarle nei grandi complessi industriali, provocando uno shock produttivo in ambito agricolo.

La politica estera sovietica ricalcava il modello dettato da quella zarista, differenziandosi non tanto nei modi, quanto nel fine perseguito. La monarchia russa si poneva come ultima legittimata potenza discendente direttamente da Roma (Czar in russo significa infatti Cesare). Ereditando il trono dell’Impero Romano d’Oriente, il trono di Bisanzio, la corona russa si riteneva di fatto legittimata a difendere gli interessi di tutta la comunità greco-ortodossa e slavofona d’Oriente.

L’Unione Sovietica, differentemente, basava la propria diplomazia sulla convinzione di essere il faro del comunismo mondiale, con il chiaro obbiettivo di esportare le dottrine socialiste ovunque nel mondo. Da ciò presero le mosse varie linee politiche, dal consolidamento dei propri confini con l’instaurazione di regimi satelliti (Dottrina Breznev della “sovranità limitata”), sino allo spiccato Terzomondismo, che consisteva nel fornire aiuti economici e militari a qualunque regime si opponesse all’ “imperialismo statunitense”. Negli anni Ottanta, ciò che il Segretario di Stato Herny Kissinger definì “un gigante miliare ed un nano economico”, iniziò a mostrare i propri limiti.

L’elezione negli Stati Uniti di Ronald Reagan impose una svolta significativa: il presidente varò nel corso del suo primo mandato un poderoso investimento nel settore militare, che ebbe il proprio culmine nel progetto difensivo denominato “Star Wars”. L’Unione Sovietica si trovò costretta ad inseguire gli Stati Uniti nella corsa al riarmo. Gli sforzi sostenuti non le valsero la tanto agognata parità strategica: in compenso aprirono un abisso sul proprio deficit economico.

Agli inizi degli anni ’90 la bandiera rossa fu ammainata dal pennone sul Cremlino. La Russia fu costretta ad un’apertura al mondo occidentale impostale dal proprio ridimensionamento geopolitico a seguito della caduta del Soviet. La Federazione governata da Boris Eiltsin si trovò innanzi un disastro di proporzioni bibliche: a 70 anni di socialismo reale seguì l’introduzione di un liberismo senza regole, che mise in ginocchio una società che, non solo non ne comprendeva le dinamiche, ma che per generazioni l’aveva combattuto. In questo clima nascono le fortune degli oligarchi: spesso giovani figli di funzionari dell’elefantiaco apparato di governo, che sfruttando la posizione sociale all’interno delle stanze del potere, e con l’apporto di capitali spesso di dubbia liceità, riuscirono ad acquistare le aziende di Stato, in particolar modo quelle legate ai processi estrattivi, ad un prezzo irrisorio.

Oltre all’adozione forzata del libero mercato, anche la propria influenza strategica su quelli che sino a due decenni prima erano propri satelliti, venne meno. L’apparato militare, nonostante la oggettiva potenza dovuta anche dai missili strategici, appariva in gran parte obsoleto ed indebolito dal frazionamento dell’Unione Sovietica. Le stesse politiche per l’integrazione seguenti alla caduta del colosso comunista, furono blande e poco convincenti: la Comunità degli Stati Indipendenti sorta a questo scopo non riuscì ad arginare le spinte centrifughe che si vennero a creare all’interno dei singoli Stati membri. In Russia la polveriera caucasica esplose: la Cecenia si autoproclamò indipendente nel 1991, approfittando della situazione di grave incertezza in cui verteva la Federazione Russa.

A seguito del fallimento di ogni iniziativa politica, nel 1994 Eiltsin decise di passare ai fatti, ordinando l’invasione dell’autoproclamata Repubblica Cecena con l’obbiettivo di ripristinare la sovranità russa nella zona. Ciò che seguì fu una disastrosa quanto sanguinosa guerra di due anni, che portò alla sconfitta russa ed al riconoscimento de facto dell’indipendenza cecena. Fu proprio in Cecenia che si giocò la prima e più importante partita del neo Premier Putin.

Nel 1999 un malato Boris Eiltsin lasciò la guida del Paese all’allora Primo Ministro Vladimir Putin; la situazione interna russa si presentava estremamente complessa: sull’onda di un decennio di crisi economica, le periferie reclamavano un’autonomia maggiore dal potere centrale, spesso in maniera violenta. In Cecenia si acuirono le tensioni interne: la lotta per la liberazione e la creazione di un emirato caucasico divampò di nuovo e rischiava di espandersi ai turbolenti territori confinanti.

Il casus belli fu fornito da una serie di attentati terroristici in alcune città russe tra cui Mosca: i servizi di sicurezza non esitarono ad attribuire la paternità delle azioni a dei gruppi di guerriglieri ceceni. Ne seguì come rappresaglia l’invasione della regione del Daghestan da parte dei guerriglieri stessi. Il 26 agosto 1999 si riaprirono le ostilità: le operazioni militari su vasta scala si conclusero nel maggio del 2000, con la presa da parte delle truppe russe della capitale Grozny, già completamente rasa al suolo.

Putin ebbe così modo di consolidare il proprio potere innanzi all’apparato militare, molto influente in Russia e contemporaneamente spegnere le istanze locali di indipendenza che videro nella Cecenia un tragico memento. Iniziò così il decennio dell’Uomo forte del Cremlino. La politica economica, estera e militare russa fu improntata sulla necessità di una revanche sullo scacchiere mondiale: era necessario che la Russia tornasse ad occupare il posto che fu dell’Unione Sovietica e che di diritto le sarebbe spettato nel mondo.

Nel Paese ha acquistato progressivamente consenso l’impostazione definita “Neo-imperiale” del Presidente Putin: riscoprire la grandezza della propria storia attraverso l’iniziativa politica. In materia economica la principale applicazione di questa dottrina politica fu data dall’ondata di nazionalizzazioni che coinvolsero le aziende strategiche controllate dagli oligarchi, giovani che approfittando della propria influenza nell’establishment e con capitali di provenienza spesso oscura, riuscirono ad acquistare la totalità dei comparti estrattivi nazionali.

In particolar modo l’estrazione di carburanti, che ai tempi dell’Unione Sovietica non fu mai sviluppata ai massimi livelli, ha conosciuto negli anni Duemila un boom: il Cremlino ha trasformato così la politica di esportazione di energia nella propria punta di lancia per la penetrazione in Europa. La necessità di approvvigionamento energetico ha reso diversi Paesi nel Vecchio Continente strettamente dipendenti dall’import russo, tanto da arrivare a condizionarne la politica estera. In Europa si sono creati due blocchi. Il primo è composto da nazioni fieramente anti-russe, che vedono nell’imperialismo di Mosca una minaccia storica alla propria esistenza: si tratta di Paesi che hanno subito la dominazione sovietica, come la Polonia o gli Stati Baltici, o tradizionalmente avversi a Mosca sin dalla Guerra Fredda, come il Regno Unito: questi sono i più fedeli alleati di Washington in Europa.

Accanto ad essi vi sono poi Paesi che non hanno mai risentito in maniera diretta o tanto incisiva dell’influenza di Mosca sui propri cittadini ovvero non hanno mai subito lo scontro ideologico violentemente come altri. Si tratta di Paesi che vedono nell’Orso Russo non tanto una minaccia quanto un’opportunità: in questa schiera annoveriamo la Germania, che ha importanti partnership commerciali in campo energetico ed industriale e che ha beneficiato dell’apertura del mercato russo alle proprie aziende, in particolare elettroniche ed automobilistiche. L’Italia negli ultimi anni, a approfondito il rapporto con Mosca sulla base della necessità di una diversificazione energetica che ha portato l’E.N.I. a stringere accordi con la major russa dell’energia Gazprom, pur di dubbia utilità economica.

Vi sono infine Paesi storicamente filorussi, come la Serbia, che è ha ritrovato nella Sorella Russia un appoggio importante, in particolare sulla questione del Kosovo, dopo decenni di gelo tra il Cremlino e Tito; o come la Grecia, che ha rinsaldato i propri rapporti anche nel nome della comune fede ortodossa dopo la ricomposizione dello Scisma tra le due Chiese nazionali.

Le ripercussioni del “divide et impera” energetico sullo scenario internazionale sono molteplici. Il governo russo negli ultimi anni è ricorso più volte al ricatto per poter perseguire la propria politica di rafforzamento in ciò che esso considera una propria area di influenza. Ne è un chiaro esempio l’Ucraina e le tensioni occorse con la Federazione Russa su diverse questioni negli ultimi anni: dal rinnovo della concessione della base navale di Sebastopoli all’avvicinamento all’area N.A.T.O.; in tutti i questi casi, come strumento di pressione il potente vicino ha esercitato il blocco delle forniture di gas al Paese, lasciando di conseguenza senza approvvigionamenti mezza Europa.

La politica estera russa nell’agosto 2008 ha raggiunto un nuovo grado di intensità con l’invasione militare della piccola repubblica caucasica della Georgia. Formalmente il casus belli addotto da Mosca era la violazione di una zona smilitarizzata in Ossezia del Sud, che assieme all’Abkhazia erano sottoposte alla tutela delle forze di pace russe e riconosciute come Stati autonomi solo dalla Federazione. In realtà la partita era ben diversa: in quello stesso anno il Presidente Bush aveva posto le basi per l’allargamento della N.A.T.O. ad Est; era in fase di completamento lo scudo missilistico e le basi radar in Polonia e Repubblica Ceca e la stessa Georgia aveva intrapreso il cammino di partneraniato che l’avrebbe condotta a divenire membro effettivo del Patto Atlantico.

L’Orso Russo, sentendosi stringere intorno alla morsa ha reagito furiosamente: nei delicati equilibri di poteri del Cremlino hanno prevalso i Siloviki, l’area intransigente e militante di cui l’inflessibile Ministro degli Esteri Lavrov è un sostenitore. Ha avuto così luogo la vittoriosa campagna militare georgiana, che ha portato alla luce anche un altro dato: la preparazione militare russa.

Nei primi anni Duemila, inquadrata nella politica di potenziamento nazionale in ogni fronte e supportata dalla crescita economica, lo Stato russo decise di modernizzare le proprie forze armate, in particolare il settore strategico. Nel 2008 lo Stato Maggiore russo ha annunciato le prime prove in mare di sottomarini di nuova generazione della classe Borej, che imbarcheranno il missile balistico RSM-56 Bulava, un nuovo vettore con la capacità di trasportare testate nucleari con una potenza di 500 kilotoni. Nel 2001 a Shanghai, la Federazione ha firmato un accordo di cooperazione militare con la Cina, riavvicinando i due Paesi dopo decenni di gelo diplomatico e stabilendo un’asse alternativo in Estremo Oriente, grazie anche al coinvolgimento di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e divenendo un interlocutore fondamentale per supporto logistico alla missione I.S.A.F. in Afghanistan.

Con la crisi economica mondiale, l’ascesa dell’Orso russo sulla scena internazionale ha subito tuttavia una violenta battuta d’arresto: tra il 2008 ed il 2009 il p.i.l. russo è calato di circa 400 bilioni di dollari: il 7,9%. Ciò è dovuto sopratutto a causa dell’eccessiva dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi, che costituiscono l’ossatura della crescita decennale. Nel corso del 2010 tuttavia, anche grazie all’ascesa dei prezzi dei combustibili, il dato ha subito un’inversione di tendenza, tornando ad un + 4,2% : resta tuttavia la debolezza endemica di un sistema economico eccessivamente sbilanciato nel settore estrattivo.

Ben più preoccupante è il drastico calo demografico del Paese negli ultimi anni, che ha toccato un tasso di – 0,61% nel 2003, mettendo così a rischio la stesso sviluppo nel medio termine. Nonostante ciò, la Russia si presenta come una potenza in divenire, le cui fragili basi economiche e sociali non ne frenano l’ambizione a tornare sul palcoscenico mondiale da protagonista: concentrando la propria attenzione sui Paesi che la circondano cerca infatti di consolidare le fondamenta di ciò che i russi sperano sia il risveglio del grande Orso da un letargo forzato decennale.

Riceviamo e pubblichiamo” di Federico Poggianti

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Persecuzioni anti cristiane, non bisogna rassegnarsi

postato il 5 Febbraio 2011

Il governo italiano ha sollevato meritoriamente la questione delle persecuzioni contro i cristiani con il ministro Frattini. Il Consiglio d’Europa ha fatto molto, ma i governi dell’Unione europea hanno fatto molto meno.
Sulle persecuzioni anti cristiane dobbiamo essere vigili, non possiamo rassegnarci all’indifferenza dell’opinione pubblica e dobbiamo far sentire la nostra voce. Il tema della reciprocità con l’Islam e le altre religioni è per noi una questione ineludibile.

Pier Ferdinando

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Egitto, Europa debole non ha peso su Mubarak

postato il 5 Febbraio 2011

Il presidente egiziano Mubarak ha ormai esaurito la spinta propulsiva, e la sua presenza costituisce un tappo allo sviluppo.
Ma l’Europa non ha forza sufficiente per imporgli una scelta e Mubarak non si preoccupa delle dichiarazioni congiunte dei capi di Governo dell’Unione, che parlano con voci separate, si preoccupa soltanto di Obama.
Mubarak è stato in parte una garanzia per l’Occidente, un bastione contro l’islamismo ed ha fatto cose positive.
Ma dopo 35 anni c’è una sfida al cambiamento e, nella vita, quando si passa la misura non si è piu’ credibili.

Pier Ferdinando

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