Il mio intervento nell’Aula del Senato durante la discussione sulla riforma costituzionale
Ho sempre cercato di servire le istituzioni senza integralismi, ma con la convinzione che nessuno ha il monopolio della verità. La riforma della Seconda Parte della Costituzione è stata più volte proposta, negli ultimi decenni, da tutte le forze politiche che si sono succedute nel governo del Paese allo scopo di adeguare il sistema istituzionale ai cambiamenti della società e dell’economia, nonché all’evoluzione del sistema politico. Tutti i tentativi di riforma sono falliti non tanto per le soluzioni prospettate, quanto perché non si è cercata una forte condivisione, sia nel metodo sia nel merito delle scelte operate. Le riforme costituzionali hanno possibilità di successo quando sono frutto di scelte ponderate e condivise: più ampia è la convergenza tra le forze politiche di maggioranza e di opposizione, più solida e robusta è la costruzione che ne risulta. Più coesa è la costruzione più forte è l’impianto, come dimostra la Costituzione vigente, elaborata da forze allora ideologicamente contrapposte al culmine della guerra fredda, ma capaci di uno sforzo comune in nome dell’Italia e della sua coesione nazionale. E poi, i referendum confermativi di riforme approvati a maggioranza e all’esito di dinamiche politiche conflittuali hanno avuto sempre esito negativo, proprio perché quelle riforme sono state recepite dai cittadini come proposte fortemente divisive. Sul piano politico, inoltre, in quei casi si è verificato l’effetto di compattare le opposizioni contro il Governo e di spingere gli elettori a esprimere un voto più sui leader e sulle forze politiche in campo che non sul merito del progetto costituzionale.
La politica costituzionale è, per sua natura, lo spazio della condivisione, nella misura in cui è chiamata ad assolvere a una funzione unificante e stabilizzante dell’intero sistema democratico, fissando le regole in cui una comunità possa riconoscersi e attraverso le quali prosperare. Non a caso il Costituente, nei procedimenti di revisione, ha previsto maggioranze qualificate.
Anche con riguardo alla riforma oggi all’esame del Parlamento, nonostante il dibattito in Commissione affari costituzionali del Senato si sia stato lungo in termini temporali, constato che non c’è stata una reale ricerca di condivisione, né un convinto ascolto delle soluzioni avanzate dalle opposizioni. Peraltro, è mancata finora un’attenta ponderazione delle criticità espresse nel dibattito pubblico, soprattutto non si sono ascoltate le voci dei più insigni costituzionalisti.
«Ci siamo sparsi come lievito. Il centro oggi è vivo»
In Parlamento ininterrottamente dal 1983, l’ex democristiano Casini (ora indipendente del pd) è fiero del dna del grande partito cattolico: «C’è un virus democratico. gli effetti speciali hanno stancato, portiamo normalità»
L’intervista pubblicata su Sette, il settimanale del Corriere della Sera
Eletto otto volte deputato, una presidente della Camera, due volte eurodeputato e tre senatore, le ultime due da indipendente nelle liste del centrosinistra. Pier Ferdinando Casini è in Parlamento, ininterrottamente, dal 12 luglio 1983: 41 anni, nessuno come lui. Casini conosce ogni cavillo istituzionale, ogni meandro delle stanze del potere, sempre mezzo passo indietro, però. Ago della bilancia di molti esecutivi, mai un incarico di governo. Casini, di fatto, è il centro. Non solo il grande erede della Dc. Chiacchierando con lui mentre attraversa Bologna («Cammino molto sa! Sto un po’ invecchiando…», sorride), ogni poco ci s’interrompe perché c’è qualcuno che ferma «Pier» per salutarlo.
Casini, qui si fa un gran parlare di quanto sia tornato decisivo il «centro». Alle Europee capiremo se è vero. Può spiegare a un 15enne cos’è, il «centro»?
«Una categoria dello spirito, un modo di essere. La convinzione che ognuno deve avere dentro di sé. Una convinzione che rifiuta l’integralismo e la certezza di possedere la verità assoluta. La consapevolezza che possiedi un frammento di verità, ma forse qualcosa di simile è anche nelle tesi del tuo avversario. È l’idea che la democrazia si nutre anche delle opinioni più lontane dalle tue, che vanno rispettate».
Cos’è stato, oltre alla Dc, il centro nella storia della Repubblica italiana?
«Finché c’è stato un mondo diviso dal Muro di Berlino, la Dc ha rappresentato una grande forza inclusiva che ha difeso la democrazia e l’ha sviluppata. Ma il suo vero successo è stato di avere progressivamente condiviso un minimo comun denominatore anche con i propri nemici. La Dc è riuscita a contagiare con il suo virus democratico anche chi ne era distante».
E quando inizia questa missione?
«C’è un momento preciso. De Gasperi nel 1948 vince e ha la maggioranza assoluta. Non ha bisogno di alleati, invece coinvolge i partiti laici e avvia la ricostruzione del Paese. Moro e Fanfani, negli Anni 60, nonostante le resistenze del Vaticano allargano il centriso al Psi, staccando i socialisti dai comunisti e ampliando la coalizione. E poi Moro e Andreotti, con i governi di solidarietà nazionale, coinvolgono il Pci e favoriscono il distacco definitivo di Berlinguer da Mosca: è l’eurocomunismo. Poi non dimentichiamo la costituzione delle Regioni, che consente alla sinistra di governare territori importanti dove il Pci era più forte. O il coinvolgimento istituzionale con la presidenza della Camera all’opposizione. Nel 1983, parte di noi fibrilla perché non vuole votare Nilde lotti, mentre i capi dc ci spiegano che la tenuta istituzionale passa da una compartecipazione del più forte partito di opposizione. E da lotti ricevemmo una lezione di terzietà quando difese le prerogative della Camera rispetto alle volontà dei partiti, incluso il suo».
Poi questo monolite centrista implode?
«La Dc non muore per Tangentopoli, ma per la Caduta del Muro. Il vaso era già pieno, Mani pulite è solo la goccia che lo fa traboccare».
E nascono una lunga serie di centri e «centrini»: Rinnovamento Italiano, i casiniani Ccd e Udc, il Ppi, l’Udeur, La Margherita, il Centro democratico.
«Muore la Dc, non i democristiani, che si spargono come lievito nei poli per portare il Dna della loro esperienza politica».
La democrazia ha dei costi, un errore abolire le risorse. Vanno ripristinate: tanti in privato lo dicono, speriamo ci sia il coraggio
L’intervista di Francesca Schianchi pubblicata su la Stampa
Sulla vicenda ligure, Pier Ferdinando Casini evita commenti: «Mi rifiuto di farlo su anticipazioni di stampa, i processi si fanno in Tribunale». Sul finanziamento della politica, invece, il senatore in Parlamento da oltre quarant’anni ha delle proposte da fare, «indipendentemente da un caso giudiziario o un altro: il tema in democrazia si pone a prescindere». E, secondo lui, va affrontato occupandosi di una legge sui partiti, ripristinando il finanziamento pubblico e lavorando a una legge elettorale con le preferenze. Perché, ragiona, «siamo in una tempesta perfetta».
Cosa intende?
«Caduta la Prima Repubblica, i partiti come li conoscevamo sono stati sostituiti da partiti personali, la formazione politica non esiste più, così come il radicamento territoriale. La classe dirigente ha subito una metamorfosi: in Parlamento non va più chi ha i voti, ma chi è amico del leader. E in questa situazione di maggiore permeabilità, abbiamo tolto il finanziamento pubblico!».
Lei ha sempre criticato l’abolizione del finanziamento pubblico voluta dal governo Letta nel 2014.
«E’ stato un errore, che mi vanto di non aver fatto: sono stato uno dei pochi che hanno votato contro. Sarebbe stato un errore anche in presenza di bontà e onestà generalizzate».
Perché?
«E’ sempre un errore pagare un prezzo legislativo all’antipolitica, sperando così di placarla. Il risultato è che non hai battuto l’antipolitica e hai fatto una cosa sbagliata. E non è stato l’unico episodio».
A cosa si riferisce?
«La riduzione del numero dei parlamentari, che ha reso meno efficiente il lavoro del Parlamento e privato interi territori di una rappresentanza: anche in quel caso votai contro».
All’abolizione de finanziamento però si arrivò dopo un referendum che la chiedeva col 90% dei sì e dopo che la politica aveva dato troppe volte pessima prova di sé…
«Senta, io sono stato eletto la prima volta nel 1983. Già allora bisognava dichiarare tutti i finanziamenti superiori ai cinque milioni di lire: ebbene, su 630 deputati, a fare questa dichiarazione eravamo pochissimi. Le leggi c’erano, e chi voleva seguirle le ha seguite. Ma c’era, diciamo così, una “disattenzione” all’applicazione della legge. Cosa che è stata pagata cara quando, dopo la caduta del Muro e l’indebolimento della politica, arrivò Mani Pulite».
Chiamiamola disattenzione… Con Mani Pulite venne scoperchiato il sistema.
«Io c’ero in Aula quando Bettino Craxi fece il famoso discorso sulla chiamata in correità. Ci fu la reticenza della politica, nessuno affrontò il problema alla luce del sole perché, diciamo la verità, tutti pensavano che l’onda si sarebbe arrestata al vicino di casa»
Il fatto però è che anche in periodi più recenti ci sono stati scandali.
«Ma è ovvio che la cattiva politica è la più grande alleata dell’antipolitica! Ma, ripeto, per quanto l’abolizione del finanziamento pubblico possa essere stata fatta con le migliori intenzioni, è stata un errore. Perché la democrazia ha dei costi».
Il Movimento cinque stelle risponde a questa obiezione dicendo che si può sopravvivere di microdonazioni.
«Ma sì, si possono mettere dei tetti di massimale alle donazioni, ma io più che sull’entità, mi concentrerei sulla trasparenza. Anche perché le microdonazioni si possono aggirare».
Anche le Fondazioni sono spesso guardate con sospetto.
«Ce ne sono usate per i migliori scopi, come la Fondazione Sturzo o la Fondazione De Gasperi, ma non metterei la mano sul fuoco per tutte. Ma pensi che io, proprio legato a una Fondazione, ho fatto un importante rifiuto a una straordinaria signora».
Cioè?
«Dopo la morte di Andreotti, la figlia di De Gasperi mi chiese di presiedere la Fondazione. Ma io ho una tale idiosincrasia proprio al tema dei finanziamenti, all’idea di doverli trovare, che mi sono spaventato e ho rifiutato. Dissi che non me la sentivo».
Come andrebbe affrontato secondo lei questo tema dei finanziamenti nella politica?
«Servono tre provvedimenti. Il primo: una riforma che restituisca all’elettore la possibilità di scelta. Le preferenze hanno delle controindicazioni, ma non si è inventato un meccanismo migliore».
Gli altri due provvedimenti?
«Bisogna applicare l’articolo 49 della Costituzione: ci vuole un controllo democratico sulla vita dei partiti. E poi bisogna ripristinare il finanziamento pubblico: in questo modo non dico che avremo sconfitto il malaffare, ma almeno toglieremo l’alibi di dire che è colpa della politica o delle elezioni».
Predisponendo però un occhiuto controllo, direi.
«Ma certo, ci vorrebbe un’autorità indipendente che controlli la trasparenza dei partiti politici».
Pensa che ci sia una maggioranza in questo Parlamento per poter discutere di ritorno del finanziamento pubblico?
«Il buon senso è sempre in minoranza, ma in realtà queste mie riflessioni in privato sono molto diffuse. Spero che ci sia chi ha il coraggio di farle anche in pubblico».
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«Il sostegno all’Ucraina non è uguale per tutti ma il no alla Russia dei gulag è netto» Le identificazioni a Milano? Sarà stato un funzionario poco intelligente»
Presidente Pier Ferdinando Casini, anche lei era alla fiaccolata in Campidoglio?
«Sì, in certe circostanze la presenza non è un’opzione, è un obbligo morale: il posto della politica era in quella piazza», spiega il senatore eletto nelle liste del Pd ed ex presidente della Camera.
Perché era così importante una manifestazione unitaria?
«Perché è la dimostrazione simbolica che l’Italia è unita nel ritenere la morte di Navalny una gigantesca ricaduta nella Russia dei gulag. La politica estera di un grande Paese del G7, qual è il nostro deve essere, per quanto è possibile, unitaria. I governi passano ma i Paesi rimangono».
Alla fine una delegazione leghista, guidata dal capo dei senatori Romeo, è venuta alla fiaccolata ma è stata oggetto di contestazioni e insulti.
«Io non li ho sentiti, ma se ci sono stati contraddicono certamente il sentimento collettivo di una piazza che voleva manifestare per la libertà in modo unitario».
Pensa che l’adesione di M5s e della Lega fosse sincera?
«È una domanda che va rivolta a loro. Io mi auguro che la solidarietà ai dissidenti russi non sia a intermittenza, secondo le convenienze o le circostanze, ma sia un’adesione di fondo».
Il consigliere leghista dell’Emilia Romagna, Bargi, ha definito ipocrita la fiaccolata.
«Mi pare che stia facendo autocritica. C’è una famosa frase che dice che la democrazia si deve difendere soprattutto per chi non la pensa come noi. Io difendo la democrazia anche per i filo-putiniani italiani. Non voglio che finiscano in un gulag. Troppi non capiscono le implicazioni che questa vicenda ha con alcune aree di guerra come quella ucraina».
Vale a dire?
«Se non siamo sordi e ciechi dobbiamo aprire i nostri occhi e le nostre orecchie: non abbiamo bisogno di altre dimostrazioni. Se ci eravamo dimenticati chi è Putin, questa vicenda ce lo ricorda. E se noi accettiamo un mondo costruito sull’arroganza e la prevaricazione, è difficile dire dove finiremo».
Dunque? Occorre sostenere Zelensky?
«La resistenza ucraina va sostenuta perché in questo modo difendiamo noi stessi. Tutti noi ci interroghiamo su chi vince tra Trump e Biden. Ma nessuno si chiede chi vince tra Putin e il signor nessuno, perché le prime sono elezioni democratiche, le seconde una finzione. Io voglio vivere in una società in cui non si sa chi vince. Se qualcuno preferisce una società in cui il gioco è truccato, è affar suo».
Si riferisce a qualcuno?
«In linea di massima i partiti italiani, come si è visto nei voti per l’Ucraina, sostengono e hanno sostenuto una posizione prima di Draghi e poi della Meloni».
La sostengono tutti allo stesso modo?
«Certo che no. C’è chi la sostiene per finzione e chi per convinzione. Io mi auguro che emergano i secondi».
A Milano chi manifestava per Navalny è stato identificato. Le sembra normale?
«Secondo me sarà stata l’iniziativa di un funzionario molto zelante, quanto poco intelligente».
Lei ha proposto al sindaco di Bologna, Lepore, di concedere la cittadinanza onoraria per Navalny: lui ha replicato che si può dare solo ai vivi, ma dice che la città lo ricorderà.
«Non mi interessava la cittadinanza onoraria in sé, ma attribuire un riconoscimento alla memoria per sottolineare che, in linea con la sua grande tradizione, Bologna è solidale. Possiamo attribuire un archiginnasio d’oro o un’altra onorificenza per riaffermare quel principio».
C’è altro che può fare l’Italia? Il renziano Nobili propone di intitolare a Navalny la via dell’ambasciata russa a Roma.
«Al di là dei temi più o meno estemporanei, è importante che l’Italia faccia la sua parte difendendo gli aiuti all’Ucraina e andando avanti su questa strada. E soprattutto, è importante che il nostro Paese capisca quanto sia necessaria una politica di difesa europea, altrimenti ci dobbiamo rassegnare a diventare irrilevanti».
Qual è il senso politico della morte di Navalny?
«Certamente è un messaggio di Putin agli oppositori interni e all’opinione pubblica che restaura la società della paura: per lui è un’assicurazione sulla vita. È una prova di forza e di debolezza assieme».
Perché Navalny, che era in carcere, rappresentava ancora un pericolo per Putin?
«Mandela, che era in carcere, era un pericolo? No e sì allo stesso tempo. I testimoni disarmati, che hanno quel quid di profetico che li porta a non avere paura, sono i più pericolosi per un regime perché rompono le categorie del terrore che i leader vogliono instillare. Dieci anni fa abbiamo assistito alle manifestazioni di Navalny che non erano represse, oggi si reprime chi deposita un fiore. L’ escalation del terrore serve a Putin per perpetrare il potere».
La morte di Navalny può essere un boomerang per Putin nella guerra in Ucraina?
«Sarà un boomerang per la guerra in Ucraina. Come sarà un boomerang la testimonianza disarmata della moglie di Navalny. In queste ore, ha dato la dimostrazione di come può essere straordinario il coraggio di una famiglia. Lui si era curato in Germania, ed è rientrato in Russia convinto che non gli avrebbero fatto niente».
Vittima dell’ottimismo della volontà?
«I patrioti veri, quelli che hanno costruito l’Italia, quelli che hanno fatto la resistenza, erano muniti di questo coraggio, quasi ai limiti dell’incoscienza».
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«Netanyahu ha gravi responsabilità. La questione palestinese è un buco nero nelle nostre coscienze»
Io amo Israele ma dissento dalle politiche del governo Netanyahu che ha gravissime responsabilità». Pier Ferdinando Casini, ex presidente della commissione Esteri del Senato, osserva il dibattito sulla guerra in Palestina e dice: «Basta avallare la politica di Netanyahu».
Senatore, torna da una settimana negli Stati Uniti dove con l’Unione interparlamentare ha partecipato alle audizioni con il presidente dell’assemblea generale dell’Onu a New York. Che aria si respira dall’altra parte dell’oceano?
«Cresce il tema della crisi del multilateralismo costruito nel dopoguerra per interpretare un mondo che oggi non c’è più e che paralizza le istituzioni internazionali. I sovranisti dicono “il multilateralismo non funziona, buttiamolo via”, io dico riformiamolo e facciamolo funzionare».
E la campagna elettorale americana?
«È forse la più singolare degli ultimi anni. Abbiamo un presidente che io ritengo abbia fatto bene, ma che viene percepito in gran parte inadatto a governare perché troppo vecchio. Dall’altra parte c’è un signore, quasi coetaneo, che trasmette maggiore vitalità ma che mette sul tavolo questioni che fanno presagire un futuro del terrore. Basti pensare alle parole sulla Nato».
Chi vincerà?
«La mia aspettativa è che vinca Biden, il mio timore e il mio pensiero è che possa vincere Trump. Noi italiani, però, dobbiamo distinguere tra le linee di fondo della politica americana e le estremizzazioni che i candidati ne fanno. Il tema delle spese militari è ineludibile: se l’Europa vuole uscire dall’infantilismo politico ed essere autonoma, non possiamo pensare di affidarci sempre agli americani».
Cosa manca?
«La consapevolezza del momento che stiamo vivendo. Ci sono responsabilità a cui stiamo venendo meno per vigliaccheria. Oggi la pace in Ucraina non può essere a condizione della scomparsa di Kiev perché significherebbe portare il terrore in Europa. Gli ucraini combattono anche per noi».
Parliamo di Medio Oriente. Ieri alla Camera prove di dialogo tra Pd e maggioranza. Come le giudica?
«Un fatto positivo. La politica estera, per quanto possibile, deve stare al riparo delle turbolenze della politica nazionale, proprio perché si tratta di dare un’immagine seria e risoluta del nostro Paese all’estero. Vorrei dire una cosa scomoda sulla Palestina…».
La dica.
«Amare Israele come io e noi lo amiamo non può interdirci dal dire che la questione palestinese è un buco nero nelle nostre coscienze. Abbiamo parlato di due popoli e due Stati e non abbiamo detto nulla degli insediamenti israeliani che hanno spezzato la continuità territoriale in Cisgiordania. Insediamenti illegali che il governo Netanyahu ha aumentato e incentivato. Mai confondere Hamas con la Palestina, ma abbiamo avallato la politica di Netanyahu che è stata quella di indebolire l’Anp».
Critica il governo israeliano?
«Amare Israele non può significare dover amare il governo Netanyahu. Io dissento dalle sue politiche che hanno gravissime responsabilità. Due popoli e due Stati è una formula vuota o reale? Perché se è reale non possiamo consentire gli insediamenti nei territori occupati».
Cosa propone?
«Rilanciare davvero la politica due popoli due stati e un cambiamento dell’Anp: penso per esempio a Marwan Barghuthi come personalità nuova. Altrimenti regaliamo la questione palestinese ad Hamas che agisce per conto dell’Iran e probabilmente della Russia».
È pronto alle critiche?
«Non accetto lezioni. Mi rifaccio alla Dc, a Craxi, alla parte migliore della prima Repubblica. Queste cose le ho imparate quando la politica mediterranea era una cosa seria. L’identificazione tra Israele e Netanyahu serve a Netanyahu, ma non serve a lsraele».
Come giudica l’azione del governo?
«Ritengo che sul piano internazionale si stia muovendo meglio che in altri ambiti. Per il rapporto che Giorgia Meloni ha costruito in Europa con Von der Leyen e per come si muove Tajani: non hanno sovvertito i pilastri della politica estera italiana. Tutto sommato merita un 6, e di questi tempi non è poco»
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Presidente Casini, pochi giorni fa a Montecitorio, nel corso del convegno “Costituzione, Parlamento, Democrazia”, a proposito del ddl del governo sul premierato, lei platealmente ha detto: “Non prendiamoci in giro”. Perché?
C’è un dovere di trasparenza a cui bisognerebbe attenersi sempre ma, in particolare, quando si parla di Costituzione. Non è corretto dire che Parlamento e Presidente della Repubblica non sono toccati: lo sono e ampiamente. I presidenzialisti hanno tanti argomenti a loro favore senza aver bisogno di cambiare le carte in tavola: il presidenzialismo di per sé non è affatto antidemocratico, ma chiamiamo le cose col loro nome.
Davvero crede che al futuro presidente della Repubblica resterà da tagliare solo qualche nastro?
Non lo credo io. Lo crede anche uno studente al primo anno di Giurisprudenza. Il ruolo del Presidente della Repubblica e la sua autorevolezza si basano su una moral suasion e su una flessibilità che rendono incisivi i suoi poteri. Questo può non piacere, ed è perfettamente legittimo, ma allora la questione va affrontata direttamente e senza mistificazioni. In realtà tra le poche cose che in Italia funzionano bene c’è proprio il ruolo del Presidente della Repubblica. Non a caso gli ultimi due sono stati votati per la seconda volta da un ampio spettro di forze dell’attuale maggioranza e opposizione.
Ci son state scintille, in quel convegno alla Camera, tra lei e gli altri due suoi colleghi ex presidenti, Gianfranco Fini e Fausto Bertinotti…
Nessuna scintilla. Ci conosciamo troppo bene…al massimo qualche puntura di spillo tra colleghi e amici.
Dopo l’altolà di Gianni Letta, anche il presidente della Senato, Ignazio La Russa, ha criticato il ddl: venerdì alla festa di Atreju ha detto che a forza di mediare con l’opposizione il testo è peggiorato. Lei da senatore del Pd che ne pensa?
Vuole sapere un paradosso? Nella sua brutalità, e facendo un discorso chiaramente di parte, La Russa ha ragione: questo è un pasticcio che ovviamente non va bene all’opposizione ma che, alla fine, non andrà bene neanche alla maggioranza. Basta pensare alla retorica del “diamo agli italiani l’opportunità di scegliere il Presidente del Consiglio” palesemente contraddetta dalla possibilità, qualora venisse sfiduciato, di essere sostituto da un successore non indicato dai cittadini e che avrà ben più poteri del primo.
Alla fine crede che si andrà al referendum? Snodo cruciale per il governo di Giorgia Meloni.
Ho sempre votato contro questo governo, ma ciò non impedisce di riconoscere che Giorgia Meloni è una donna intelligente: per me azionerà il freno a mano prima di cadere nel burrone perché questo sarebbe l’effetto di un referendum, comunque lacerante, su un argomento come la Costituzione che dovrebbe unire tutti gli italiani.
Un altro tema è l’autonomia, tanto cara al ministro Calderoli.
Calderoli da anni persegue con coerenza i suoi obiettivi: in realtà essi contrastano non solo con le posizioni delle opposizioni, ma anche con gran parte di quelle della maggioranza. Gli squilibri territoriali ne risulterebbero accentuati e l’unità nazionale largamente compromessa.
Nell’anno che sta arrivando ci saranno le elezioni europee e si voterà anche negli Stati Uniti: se tornasse Donald Trump, muterebbe lo scenario. In Ucraina innanzitutto…
Sono molto sorpreso dall’ingenuità con cui certi pacifisti non capiscono di portare acqua al mulino di Orbán e Trump. Per fortuna su questo Draghi e la Meloni hanno tenuto la barra dritta.
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La Dc sostenne Iotti alla Camera, ora c’è la dittatura delle maggioranze
L’intervista di Roberto Gressi pubblicata sul Corriere della Sera
Pier Ferdinando Casini. Deputato a 27 anni, il 12 luglio del 1983 entra per la prima volta in Parlamento.
C’era ancora l’Urss e l’Italia di Bearzot aveva da poco vinto i mondiali. Da allora quarant’anni di politica ininterrotti, undici legislature, che ne fanno l’uomo del Parlamento più longevo della Repubblica nella contabilità dei mandati elettivi.
All’anagrafe gli anni sono sessantasette. Due volte sposato, quattro figli, tifosissimo del Bologna, difficilmente rinuncia alla corsetta mattutina. Mille incarichi, tra i quali la presidenza della Camera. A gennaio dell’anno scorso è stato tra i tre candidati più accreditati nell’elezione che ha portato alla conferma di Sergio Mattarella come capo dello Stato.
In politica da ragazzo, perché? E ha mai pensato di smettere?
La politica è una passione, prima che una carriera: se contrai questo virus non ci sono vaccini. Mai pensato di smettere, qualche volta ho temuto che gli elettori mi obbligassero a smettere…
Che direbbe a Caterina, la più giovane delle sue figlie, e a un giovane in generale, se volesse fare politica?
Da un lato ne sarei contento, dall’altro la inviterei a crearsi prima una professione solida. La società della rete difficilmente consentirà carriere politiche così lunghe come è capitato a me e alla mia generazione.
Lei è entrato con Mattarella in Parlamento: è vero che oggi conta di meno?
La situazione è imparagonabile. E non è solo un problema di qualità dei protagonisti, che esiste. Negli anni si è progressivamente assistito a una lateralizzazione del Parlamento che oggi, non riuscendo più ad avere iniziativa legislativa propria, corre di qua e di là per “inventarsi nuovi lavori”. Emblematica è la proliferazione delle Commissioni d’inchiesta per fini politici
E i partiti? C’erano una volta quelli di massa.
C’era un altro mondo, c’era il muro di Berlino e lo scontro ideologico. C’erano valori e correnti ideali. Dal ’94 in poi sono diventati solo partiti personali.
Iotti, Saragat, Forlani, Fanfani, Natta, Craxi, Berlusconi… Li ha conosciuti tutti e conosce tutti. Che differenze tra ieri e oggi?
Mi consenta di lasciare questa risposta all’intelligenza della gente. Stiamo parlando non di politici ma di statisti, che tra loro, tra l’altro, si contrapponevano ma sapevano rispettarsi. Negli anni della contrapposizione tra DC e PCI, quando ancora c’era l’URSS, il mio partito mi chiese di dare il primo voto della legislatura a Nilde Iotti: il PCI doveva esser coinvolto ai vertici dello Stato perché la sua forza politica rendeva inevitabile questo. Negli ultimi anni anche le presidenze delle Camere sono diventate appannaggio della dittatura delle maggioranze di turno.
E tra i leader di altri Paesi? Da chi ha imparato di più?
Ho stimato più di tutti Helmut Kohl, l’uomo che impose ai poteri forti tedeschi la parità tra il marco dell’ovest e quello dell’est all’indomani dell’unificazione. Quella scelta gli costò molto in termini elettorali, ma Helmut dimostrò che aveva ragione De Gasperi: gli statisti guardano al futuro del paese e non alle elezioni successive.
Lei portò Giovanni Paolo II in Parlamento…
La sua invocazione finale “Dio benedica l’Italia” la sento ancora viva in me. Ma il destino mi ha consentito di conoscere abbastanza bene Papa Benedetto e, da ultimo, Papa Francesco: lo Spirito santo esiste e sa scegliere gli interpreti più adatti a guidare la Chiesa nei diversi tornanti della storia.
La fine della Prima repubblica è stata un buon affare?
Non è stata determinata da Tangentopoli come molti pensano, ma dalla caduta del muro di Berlino. Il mondo che cambiava richiedeva interpreti nuovi. Inutile vivere di nostalgia: tutto nella vita ha un inizio e una fine.
E il presidenzialismo?
In un Paese litigioso come il nostro una figura super partes, una sorta di pater familias, è indispensabile per comporre i conflitti e garantire un rispetto istituzionale. Non trovo alcuna utilità nel trasformare questa figura nell’epicentro dello scontro tra i partiti.
E’ vero che i politici sono dei gran bugiardi?
Un mio maestro mi insegnò che un politico intelligente non dice bugie, perché perderebbe ogni affidabilità. Al massimo, in certe circostanze, è meglio ricorrere alle omissioni…
Politica in perenne affanno, ma anche l’antipolitica pare azzoppata.
L’antipolitica è stata un’illusione ottica che ha fatto il suo tempo prima del previsto. E sa perché? Perché la democrazia e il Parlamento hanno un grande contenuto pedagogico: quando questi ragazzi sono entrati dentro i Palazzi del potere ne hanno capito la complessità e hanno dovuto superare i loro pregiudizi. Comunque non dimentichiamo mai che il miglior alleato dell’antipolitica è la cattiva politica, la corruzione in primo luogo. La questione morale, che racchiude l’eterno conflitto tra il bene e il male, non è invenzione di qualche giornalista.
Lei è stato fondatore del centrodestra e oggi è stato rieletto nel centrosinistra. Come si giudica? E come giudica Meloni e Schlein?
Io non mi posso giudicare, so solo che si è mosso tutto… Ero atlantista, europeista e degasperiano sui banchi di scuola. Mi sembra di essere lo stesso, 40 anni dopo, sui banchi del Senato.
La Meloni certamente ha doti di leadership e ha fatto una sua lunga marcia. I suoi peggiori nemici stanno nelle fila della maggioranza: c’è un’evidente inadeguatezza.
La Schlein è meno estremista di come viene rappresentata e di come lei stessa vuole farsi rappresentare. Ha davanti una sfida difficile e andrà giudicata con quella calma che mi sembra il PD non sia mai disposto a riservare ai suoi leader.
Quarant’anni di politica. Qual è stato il giorno più brutto e quello più bello?
Il giorno più bello è stato quello della seconda elezione di Mattarella, quando ricevetti un bell’applauso da tutti i miei colleghi.
Il più brutto? Me ne sono dimenticato perché sono un positivo.
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Con la scomparsa del Presidente Berlusconi se ne va un’epoca della storia italiana e delle nostre vite. Nella mia mente si affollano un’infinità di ricordi: alcuni belli ed anche divertenti che hanno segnato la nostra amicizia, altri più amari, com’è inevitabile nelle cose di questo mondo. Silvio è stato un grande della vita italiana e penso che, a questo punto, dovrebbero riconoscerlo anche i suoi oppositori: il che non significa condivisione, ma rispetto. Ho negli occhi l’ultima passeggiata che feci con lui nel parco della sua villa ad Arcore, dopo la riconferma del Presidente Mattarella: addio Silvio, tu sai che, nonostante i nostri contrasti, ti ho voluto bene!
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Questo pomeriggio in Senato ho convocato la prima riunione dei presidenti delle 85 Sezioni bilaterali di amicizia dell’Unione Interparlamentare (UIP). La diplomazia parlamentare è uno strumento indispensabile che contribuisce al dialogo tra i Paesi, consente di interloquire con maggiore libertà rispetto a quanto possano fare i governi e può rafforzare le relazioni non solo sotto il profilo politico ed economico, ma anche sotto quello culturale e sociale
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Appello per salvare i miliardi Ue: governo e opposizione depongano le armi
L’intervista di Paola Di Caro pubblicata sul Corriere della Sera
Ha fatto incontrare in pubblico per la prima volta il ministro Fitto (FdI) e il commissario europeo Gentiloni (Pd) per la presentazione del suo libro «C’era una volta la politica». E siccome Pier Ferdinando Casini nella politica crede ancora, il suo è un vero appello a maggioranza e opposizione: depongano le armi almeno su un tema così cruciale come il Pnrr e collaborino perché quei «miliardi di fondi pubblici» non vengano persi o sprecati: «Sarebbe mettere un fardello pesantissimo sulle spalle delle prossime generazioni. È necessario un patto per evitarlo».
Lei sa bene quanto oggi i rapporti siano tesi tra maggioranza e opposizione…
«È comprensibile. C’è una maggioranza che rischia il delirio di onnipotenza, avendo vinto in modo nettissimo e potendo ragionevolmente governare per 5 anni; e c’è un’opposizione divisa ma con nuove leadership, soprattutto quella di Elly Schlein».
E come si fa una tregua?
«Si fa se si pensa che non si è mai vista dopo il piano Marshall una tale quantità di fondi pubblici messi a disposizione di un Paese che nelle ultime decadi è cresciuto molto meno degli altri e ha l’assoluta necessità di farlo».
In cosa dovrebbe consistere questa sorta di armistizio?
«Intanto non vanno esportate a Bruxelles le risse politiche nazionali. E non serve rimpallarsi reciprocamente le responsabilità dei problemi».
Ma davvero non si possono stabilire meriti e demeriti su questo terreno?
«Io credo che sia Conte che Draghi abbiano ottenuto risultati molto importanti, ma con onestà va detto che oggi se al posto del governo Meloni ce ne fosse un altro avrebbe gli stessi problemi, che dipendono dall’ apparato della Pubblica amministrazione e dalla desertificazione delle competenze. Non è un caso che l’unica opera pubblica fatta in tempi velocissimi sia stata il Ponte Morandi a Genova, perché in deroga».
Ma una tregua non sarebbe utile solo al governo?
«Sarebbe utile al governo, ma lo sarebbe soprattutto all’Italia. E le forze di opposizione che si propongono di creare un’alleanza di governo non possono pensare solo di andare in piazza sfruttando le gaffes della maggioranza ed evitando di affrontare nodi così importanti».
A cosa pensa concretamente?
«Il governo dovrebbe lasciare da parte la presunzione di poter fare tutto da solo e l’opposizione la demagogia, e per questo serve un patto di natura politica. Poi ne serve uno istituzionale tra Regioni ed enti locali da una parte e Stato centrale dall’altra, perché le materie interfacciano tanti soggetti».
E quale sarebbe la sede del confronto?
«Il Parlamento, che oggi vedo purtroppo marginalizzato: si ratificano decreti legge — pochi —, si votano mozioni — troppe — e si moltiplicano commissioni di inchiesta che dovrebbero essere strumento straordinario e invece sembrano servire più a tenere occupati i parlamentari che a raggiungere verità».
Ma mentre lei lancia l’appello, è scontro su tutto: ultimo caso quello La Russa sulle Fosse Ardeatine, contro il quale Schlein ha già annunciato mobilitazione.
«Su La Russa, essendo stato presidente di un ramo del Parlamento, so quali siano le difficoltà e non gliene aggiungo altre: d’altra parte, che si sia scusato la dice lunga sull’errore che ha fatto… Su Schlein, capisco che un segretario così di rottura voglia cavalcare il movimentismo, ci sta. Ma bisogna scegliere i terreni sui quali l’una e l’altra parte possono battersi. E il Pnrr non deve essere tra questi, se si vuole fare il bene del Paese».
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Pubblicato da Pier Ferdinando Casini | su: Facebook
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