postato il 27 Luglio 2010 | in "Spunti di riflessione"

Quando la crisi è un’altra

Una riflessione sulla perdita del senso civile della legalità e della giustizia

di Antonio di Matteo
“Lo Stato sociale di diritto mantiene la garanzia di separazione dei poteri dello Stato di diritto e, sul potere statuale così istituito, innesta un sistema di valori al quale devono conformarsi i poteri pubblici. Nel corso degli anni questo modello di costruzione del benessere e della giustizia collettiva ha avuto attuazione distorta e parziale, caratterizzata dalla proliferazione caotica di leggi speciali, talvolta di limitatissimo rilievo collettivo (c.d. leggine), e dalla dilatazione del potere amministrativo (burocrazia). La complessità della vita associata e la crescente dipendenza dalle prestazioni pubbliche formano le premesse per una invasione del potere burocratico nella società civile e moltiplicano le occasioni di corruzione o di abuso del potere politico amministrativo a fini di conseguimento del potere personale. Spese sociali sempre maggiori, difficoltà di controllare la qualità e l’equità nell’erogazione dei servizi, proliferazione di conflitti, confusione di potere politico ed economico, diffusione di egoismi e particolarismi vecchi e nuovi completano il quadro della crisi dello Stato sociale. In crisi è, in realtà, la cultura sulla quale si fonda lo Stato di diritto e quindi lo Stato sociale. La giustizia è sconfitta quando la società si consolida sul valore dei particolarismi singoli o dei gruppi, sulla raccomandazione, sull’interesse a lucrare sempre anche nella forma della tangente, sull’estorsione o, peggio sulla necessità, per ottenere ciò che spetta, di utilizzare forme illecite, ed infine sul sistema della spartizione dei posti senza alcun rispetto per il merito e le competenze dei singoli. La crisi è smarrimento culturale, perdita del senso civile della legalità e della giustizia. Lo Stato sociale si deve fondare sui diritti e ad un tempo sui doveri sociali: la cultura dei doveri non è ancora diffusa e ciò ha causato la crisi dello Stato sociale.
Ho letto questa lucida analisi, un po’ datata, sul mio Manuale di diritto civile, di Pietro Perlingieri, e subito mi sono accorto che era una fotografia perfetta di quello che sta accadendo alla nostra realtà, alla nostra politica, alla nostra vita sociale e civile. Subito ho anche notato che non c’erano altri modi e parole per dire il tutto diversamente e per rendere meglio l’idea. Se questa è la realtà (la crisi dell’attuale forma di Stato italiano) quale sarà il nostro futuro? Il Professore Perlingieri parla di uno “Stato sociale che deve fondarsi sui diritti e sui doveri sociali”, ma ammette anche amaramente che “la cultura dei doveri non è ancora diffusa”.

E allora? Dobbiamo attenderci nuove forme di Stato? Se entra in crisi lo Stato sociale, e peggio ancora lo Stato di diritto, si insinua nelle sue ferite una penetrante voglia di autorità, di fermezza, di vigore e di culto della forza, tutto per sopperire all’anarchia strisciante. La Storia insegna, basterebbe rileggere il susseguirsi di eventi nell’Italia del primo dopoguerra per capire gli errori e non ripeterli.

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Sara Chiappetti
Sara Chiappetti
13 anni fa

L’autorità non è una caratteristica esclusiva di pochi eletti, ma un potere che si affida a certe persone in determinate circostanze, per avere rappresentanti.
Il termine “autorità” include in sé quello della garanzia, del credito, del prestigio, dell’influenza, dell’esempio e persino dell’esortazione; come ci insegnano Leibniz e Tolstoj (in “Guerra e pace”), non c’è autorità senza circostanze concomitanti favorevoli.
E’ il caso, senza fare scandalismi, della Chiesa: ci si affida a delle autorità nella speranza di avere la salvezza eterna.
Lo stesso processo si attua per la politica e non solo per quella passata.
Sappiamo tutti benissimo quanto la comunicazione incida per accattivarsi il consenso dei cittadini.
La domanda da porre a questo punto è: fino a che punto un’autorità può spingersi in una democrazia e senza perdere la fiducia dei suoi elettori? Verrebbe da rispondere: quando l’autorità invade il campo dell’etica, il bene basilare comune.
Ma l’etica non ha confini netti. In alcuni casi bene comune e bene privato si trovano in contrasto.
Che fare allora?
In questa incertezza di fondo, affidarsi all’autorità, qualsiasi cosa decida, fosse anche di voler modificare la costituzione, fondamento del bene comune, e lasciare che si facciano concessioni alle élite e ai truffatori o ribellarsi?
Il problema è che chi ha perso la fiducia nel leader è demoralizzato e percepisce l’autorità costruita da se stesso come un potere ormai difficilmente valicabile.
E’ questo tema che vorrei sviluppare in un mio articolo.
Complimenti per il blog.



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