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«Il Centro Enea non ha rivali. Non tollereremo scippi»

postato il 18 Febbraio 2018

L’intervista di Federica Orlandi pubblicata sul Resto del Carlino

Manca meno di un mese alla scelta del sito che ospiterà il progetto di ricerca internazionale sulla fusione nucleare Dtt (Divertor tokamak test facility), prevista per il 15 marzo prossimo. E il centro Enea, sul Brasimene, è schierato in prima linea tra i candidati. Mercoledì scorso hanno visitato il centro sul nostro Appennino il deputato Pd Gianluca Benamati, il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti e il senatore Pier Ferdinando Casini. Che non ha dubbi: «Su questa gara non siamo disposti a tollerare scippi».

Onorevole Casini, tra poche settimane avremo l’esito. E ottimista?
«Siamo al rush finale: bisogna essere vigili. Da un punto di vista meritocratico, non abbiamo alternative credibili. Ma se anziché i dati obiettivi venissero valorizzate solo le risorse economiche della Regione ospite, le cose potrebbero cambiare. Altrimenti, credo che la nostra Emilia-Romagna, affiancata dalla Toscana, sia quella con più carte da giocare». [Continua a leggere]

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La politica ambientale in Italia e nel resto del mondo: numeri a confronto

postato il 9 Novembre 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

È indubbio che per potere attuare delle politiche ambientali bisogna non solo imporre normative contro l’inquinamento (e l’Europa in questi anni ha dato vita ad una normativa antiinquinamento tra le più rigide nel mondo), ma bisogna anche promuovere azioni tese all’utilizzo di carburanti ecologici, all’utilizzo di materiali per il risparmio energetico, il riciclaggio e sviluppare una “cultura verde” nei cittadini. Per fare tutto ciò, ovviamente, occorrono soldi, molti soldi e solamente uno Stato può permettersi di finanziare in maniera compiuta queste attività.

E qui sorge la domanda: come si comporta l’Italia rispetto ad altre nazioni?

È una domanda importante, perché questo settore non conviene solo per tematiche ambientali, ma anche per tematiche “economiche” in quanto può rappresentare un interessante traino per l’economia e il lavoro, basti pensare al mercato, che si è aperto solo negli ultimi due-tre anni, del riciclaggio delle terre rare (attualmente esportate solo dalla Cina e fondamentali per tutti i prodotti tecnologici che usiamo).

Uno dei provvedimenti recenti varato dal governo italiano è il “Fondo Kyoto” che è stato finanziato per 600 milioni di euro, e ha lo scopo di promuovere investimenti pubblici e privati per l’efficienza energetica nel settore edilizio e in quello industriale; diffondere piccoli impianti ad alta efficienza per la produzione di elettricità, calore e freddo; impiegare fonti rinnovabili in impianti di piccola taglia; la gestione sostenibile delle foreste; la promozione di tecnologie innovative nel settore energetico. Altro punto interessante è quello delle energie rinnovabili, soprattutto alla luce degli obblighi assunti dall’Italiaper arrivare a centrare il traguardo che l’Unione europea (e l’Italia) si è data con l’obiettivo 20-20-20, cioè entro il 2020 diminuire del 20% le emissioni di CO2, aumentare del 20% l’efficienza energetica e produrre il 20% dell’energia da fonti rinnovabili. Al di là degli obblighi assunti, dobbiamo considerare che il mondo delle energie rinnovabili è una risorsa da esplorare: i benefici netti delle rinnovabili stimati al 2030 sono pari 76 miliardi di euro, divisi fra maggiore occupazione (+130.000 posti di lavoro entro il 2030), diminuzione dell’importazione di combustibili fossili, export netto dell’industria e riduzione del prezzo di picco dell’energia, come è affermato da uno studio condotto dall’Osservatorio internazionale sull’industria e la finanza delle rinnovabili presieduto da Andrea Gilardoni, dell’Università Bocconi, e realizzato con il supporto di Anev, Aper ed Enel Green Power. A proposito di Enel Green Power, segnalo che entro il 2015 entrerà in funzione la prima centrale termodinamica al mondo con tecnologia a sali fusi, che avrà rendimenti doppi rispetto alle attuali centrali fotovoltaiche e senza i problemi legati allo smaltimento dei pannelli fotovoltaici (questa centrale e tutto il lavoro di ricerca e sviluppo dietro, è stato finanziato in parte da Enel Green Power e in parte dallo stato italiano). Nonostante questo primato osserviamo che nella classifica legata alla capacità diattrarre investimenti nel settore delle rinnovabili siamo solo sesti peggiorando la nostra posizione, visto che nel 2010 eravamo quinti, e questo grazie ad una generale riduzione dei finanziamenti statali in tutta Europa e in particolare in Italia.

Migliora, anche se non di molto, la classifica italiana se ristretta al comparto fotovoltaico: quarto posto per l’Italia nel segmento dell’energia solare. Al vertice delle classifiche la Cina, mentre il secondo posto del podio spetta agli USA (grazie alle notevoli detrazioni fiscali per i progetti sulle rinnovabili, che sono in scadenza per fine 2012). Quello che penalizza l’Italia è da un lato un quadro normativo che cambia ogni anno e il prospettato taglio agli incentivi nei prossimi anni. Di contro, nel resto d’Europa, per ovviare al taglio dei finanziamenti statali si procede con una politica “dal basso”, ovvero impianti posseduti e gestiti da piccole comunità locali. Ad esempio in Germania e Danimarca, abbiamo un gran numero di impianti eolici gestiti da piccole comunità locali che si apprestano a soppiantare i grandi impianti nazionali; nel Regno Unito si assiste allo sviluppo di un analogo fenomeno, aiutato anche dalle riduzioni fiscali previste dal Governo per i progetti che vedono coinvolti due o più comunità locali.

Fuori dall’Europa è da segnalare il programma canadese ComunityFeed-In Tariff, rivolto a organizzazioni non profit, cooperative e municipalità, che sta avendo un successo senza precedenti. Se andiamo nello specifico osserviamo che la Cina è il paese dove il settore delle rinnovabili ha una maggiore capacità di attrazione di investimenti, in particolare per l’eolico offshore. Dopo la Cina, come abbiamo detto, vi sono gli Usa, grazie all’impegno preso dal Governo per installare 10 GW da rinnovabili su terreni pubblici oltre all’ipotesi di rinnovo del programma di detrazioni fiscali per i progetti sulle rinnovabili. Al terzo posto troviamo la Germania grazie all’approvazione a inizio 2012 di una nuova legislazione che garantisce di vendere l’energia rinnovabile direttamente ai consumatori e di accedere così a due vantaggi: il primo è la differenza tra la tariffa incentivante e il prezzo mensile medio a cui viene scambiata l’energia, il secondo è legato alla compensazione dei costi per la vendita dell’energia stessa. Dopo la Germania, troviamo l’India,grazie ai 400 MW di energia rinnovabile connessi nel 2011, e la Gran Bretagna che sta finanziando la creazione di un grande parco eolico offshore. Per l’Italia, il settore che attira maggiori investimenti è il fotovoltaico (seguono la geotermia e l’eolico onshore). Tra le sorprese “negative” spicca la Spagna che è uscita dalla top ten dei paesi con maggiori finanziamenti per le energie rinnovabili, a causa della sospensione degli incentivi per gli impianti di nuova costruzione. Anche l’Italia ha tagliato parecchio, ricordiamo che recentemente è stato annullato l’incentivo per la bonifica dell’amianto, una misura che ha consentito di bonificare 12 milioni di metri quadrati circa di tetti, che ospitano ora 1100 megawatt di energia elettrica pulita. Su questa situazione così diversa da stato a stato, interverrà a breve l’Unione Europea che, a giugno 2012, ha fatto sapere di essere intenzionata a sostituire i finanziamenti erogati dai singoli stati, con un corpus normativo unico a cui farà da contraltare una politica energetica europea che armonizzi le varie sovvenzioni.

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Perché dall’estero non investono in Italia?

postato il 24 Maggio 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Nei giorni scorsi ho potuto parlare con alcuni amici che si sono trasferiti in Germania per lavoro e mi hanno detto che, facendo due conti, le tasse che pagano (come IRPEF) più o meno quanto pagherebbero in Italia.

Partendo da questo punto viene da chiedersi perché dall’estero si investa poco in Italia e quali sono i problemi degli imprenditori italiani ad investire in Italia, rispetto ad altre nazioni come la Germania.

La risposta la forniscono alcuni studi internazionali secondo i quali quello che penalizza l’Italia davvero sono quattro punti: la complessità burocratica, la minore produttività, la lentezza nei trasporti e il digital divide.
In particolare il “Global Competitiveness report 2011-2012” del World Economic Forum afferma che, in Italia, l’indice di complessità del quadro legislativo relativo all’applicazione delle regole misura 125 punti, contro i 17 della Francia, i 60 della Francia, i 12 della Germania, i 13 della Spagna. Secondo la società di Consulenza McKinsey ogni posto di lavoro nelle imprese estere crea maggiore valore aggiunto e ricerca che nelle imprese nazionali, citando a supporto di questa affermazione i dati dell’Istat, la quale afferma che nel 2009 il valore aggiunto medio per addetto delle imprese (ovvero la produttività per addetto) è pari a 33.700 euro contro i circa 65.000 euro delle imprese estere. Inoltre, a fronte di una spesa di 600 euro per addetto in ricerca e sviluppo da parte delle imprese nazionali, le imprese a controllo estero ne spendono in media 2.100. Guido Meardi della McKinsey ha anche ricordato che rispetto ai principali partner europei l’Italia nel periodo 2005-2011 è stata la peggiore nella capacità di raccogliere i flussi netti di investimenti diretti esteri in entrata, pari all’1,0% del Pil contro il 4,8% del Regno Unito, il 2,4% della Francia, il 2,6% della Spagna e l’1,3% della Germania. E sugli altri due punti (ovvero trasporti e digital divide) cosa possiamo dire? Secondo Nando Volpicelli, amministratore delegato di Schneider Electric Industrie Italia le nostre infrastrutture sono ridotte ai minimi termini, e addirittura il costo di trasporto per unità di prodotto (al netto della benzina) dallo stabilimento di Rieti della multinazionale transalpina è «di due euro più caro rispetto al Sud della Francia». In questo campo il recente provvedimento del governo Monti per sbloccare 100 miliardi di euro da investire nelle infrastrutture potrebbe essere un toccasana decisivo, infatti nel 1970 eravamo al terzo posto in Europa per dotazione autostradale in rapporto agli abitanti, ora siamo al quattordicesimo.
Ma a livello generale la situazione delle infrastrutture in Italia è alquanto carente: l’Italia è stato il primo Paese europeo a sperimentare l’Alta velocità ferroviaria nel 1970, ma oggi siamo indietro a tutti, infatti la Spagna ha 3230 chilometri di linee veloci, contro gli 876 dell’Italia. E a che prezzo, sta avvenendo quel recupero: 48,9 milioni di euro al chilometro, a fronte dei 10,2 milioni della Francia e dei 9,8 della Spagna. Per quanto riguarda i porti (ricordiamo che il 70% del traffico merci, viaggia su mare), tutti i principali porti italiani, per i loro problemi strutturali, hanno visto transitare nel 2009 meno container (9 milioni 321 mila teu, l’unità di misura del settore) che nel solo scalo olandese di Rotterdam (9 milioni 743 mila teu). Se guardiamo alla rete informatica, le cose non migliorano, consideriamo che la classifica 2010 di netindex.com sulla velocità media delle connessioni internet collocava l’Italia al settantesimo posto nel mondo, dietro Georgia, Mongolia, Kazakistan, Thailandia, Turchia e Giamaica.

Indubbiamente i punti sopra individuati sono delle catene che limitano le capacità dell’economia italiana e proprio per questo il governo Monti sta coniugando il rigore a delle riforme che abbattano queste catene: 100 miliardi di investimenti nelle infrastrutture, la semplificazione nel mondo del lavoro, e l’agenda per colmare il digital divide sono tutte iniziative che permetteranno di rilanciare l’economia italiana nel mondo.

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Fonti rinnovabili: più equilibrio, meno disinformazione.

postato il 12 Aprile 2012

“Riceviamo e pubblichiamo” di Vittorio Olivati

Come per altri casi di innovazione in Italia, anche contro le fonti rinnovabili si è scatenata un’opposizione furiosa ed irrazionale, invece di un più moderato approccio alla correzione degli errori, che indubbiamente sono stati commessi, ed al contenimento di eccessivi entusiasmi. Perfino un bravo analista economico come Massimo Mucchetti si lascia travolgere dall’impeto ideologico ed infila ben tre gravi errori in poche righe del suo intervento sul “Corriere della Sera” del 14 marzo scorso   pur di dimostrare la tesi precostituita che con il fotovoltaico “i prezzi salgono sempre. Di giorno e di notte”.

Eppure Mucchetti parte da un fatto vero: poiché il fotovoltaico è intermittente (meglio sarebbe dire “imprevedibile”, perché l’intermittenza di un fenomeno non ne esclude la prevedibilità e quindi l’esatta programmazione di rimedi, ma purtroppo non è il caso del fotovoltaico), occorre tenere in riserva centrali a gas e idroelettriche in quanto, in caso di improvviso “default” della generazione da fotovoltaico, sono in grado di compensarlo aumentando in tempo reale la loro potenza. E’ vero quindi che il fotovoltaico, almeno in linea di principio, obbliga a tenere accese “al minimo” delle centrali a gas, che potrebbero essere altrimenti spente, perché siano pronte ad erogare potenza elettrica immediatamente, e ciò causa un consumo di fonti fossili (anche se molto minore di quello necessario a fornire tutta l’energia elettrica solo con esse); è invece completamente sbagliato scrivere, come ha fatto Mucchetti, che “la sua estensione richiede più centrali a gas”. Il lettore è indotto a pensare, erroneamente, che per l’aumento di energia elettrica generata da impianti fotovoltaici si debbano costruire nuove centrali a gas: no, perché per ogni aumento di energia elettrica generata da impianti fotovoltaici il consumo di fonti fossili da parte delle centrali a gas diminuisce o al più, ma solo in certi momenti, resta come prima, in quanto devono restare al minimo o al più ritornare temporaneamente ai regimi di produzione anteriori a quegli impianti, e quindi non serve costruirne altre, come invece lascia intendere, in maniera alquanto truffaldina, la frase in questione.

Anche il secondo errore di Mucchetti parte da un fatto vero, che “L’ energia prodotta da fonti rinnovabili ha priorità di vendita rispetto a quella da fonti fossili”, ma ad esso ne segue uno falso: “Ne deriva che le centrali a gas vengono spente o fatte girare a regime ridotto nelle ore di piena luce”: non le centrali a gas, ma solo alcune, quelle meno competitive che, per un problema di costi o di strategia commerciale sbagliata, propongono un prezzo più alto della soglia (stabilita dalla curva del “merit order”), che è abbassata dal fotovoltaico.

Nel terzo errore, poi, Mucchetti dimentica perfino un principio di base dell’economia, la legge della domanda e dell’offerta, scrivendo “quando il fotovoltaico cessa, gli altri recuperano aumentando i prezzi nelle ore serali”: i prezzi sono determinati dal mercato, quindi un operatore della generazione di energia elettrica non può pretendere di imporre un prezzo nelle ore serali tale da fargli recuperare la riduzione degli introiti nelle ore di luce a causa della concorrenza del fotovoltaico: rischierebbe di uscire dalla soglia del “merit order” notturno, ossia di ottenere zero per avere preteso troppo. Non c’è quindi alcun nesso fra il fotovoltaico ed i prezzi dell’energia elettrica di notte, al contrario di quanto Mucchetti vorrebbe farci credere.

Se anche uno stimato esperto come Massimo Mucchetti mette a repentaglio la sua credibilità applicando i dettami della disinformazione più astuta, che mescola dati corretti a considerazioni insensate (ma che per essere smascherate richiedono di scendere ad un dettaglio tecnico afferrabile ad una fascia ristretta di lettori), che cosa sta succedendo in Italia? E’ possibile che ci si debba sempre dividere fra guelfi e ghibellini? Non si può negare che le fonti rinnovabili introducano effetti collaterali: oltre all’imprevedibilità, di cui si è parlato qui sopra, lo sbilanciamento sulle reti, di cui si sta occupando l’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas  e l’eccessivo valore della tariffa incentivante, che ha permesso fenomeni di speculazione in Italia e all’estero, distorcendo il mercato e gli stessi obiettivi di diffusione delle fonti rinnovabili. Il confine fra legittimo sostegno e degenerazione speculativa è tuttavia labile nel groviglio di fenomeni ed interessi che riguardano l’energia e comunque ci si muova si rischia di fare dei danni. Un esempio negativo è stato dato un anno fa col decreto “ammazza-rinnovabili” voluto dall’allora Min. Tremonti dopo mesi di disinteresse da parte del Governo, quando per bloccare la speculazione si è finito per bloccare l’intera filiera delle fonti rinnovabili in Italia, fra l’altro aumentando la disoccupazione e la chiusura di imprese. Invece di simili bruschi “colpi di ariete” occorre quindi muoversi con molta attenzione e preparazione; per ricercare un delicato equilibrio serve appunto equilibrio e non “parole in libertà” da parte di opinionisti che sfruttano indebitamente la loro notorietà.

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La Borsa della Benzina non vuol dire sviluppo

postato il 21 Ottobre 2011

Mentre il  decreto sviluppo continua ad alimentare le polemiche politiche, tra chi, come gli imprenditori, chiede che la riforma sia varata in fretta, chi si oppone a una legge a costo zero e chi,  premier in testa, fa  notare che le risorse per stimolare la ripresa non ci sono, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha posto il veto su tutte le proposte del collega dello Sviluppo economico, Paolo Romani, bloccando di fatto la riforma. Tuttavia, sono iniziate a circolare nuove indiscrezioni sulla bozza di legge allo studio dell’esecutivo.

Tra le proposte spiccano la creazione di una “Borsa carburanti” e la liberalizzazione delle pompe di benzina.

Sulla borsa carburanti qualche perplessità viene da Mauro Libè, che nel suo blog scrive:

Sembra assurdo ma il decreto sviluppo é pieno di provvedimenti a costo zero ma anche a benefici ridottissimi. l’idea sull’istituzione di una Borsa sulla benzina, invece, rischia di costare e dare risultati pari a zero. Come bene spiega Mario Pezzati i margini di manovra sono vicini allo “zero”. Gli organi di guida e di controllo dei mercati sono utili se possono portare reali benefici ai consumatori. Questa idea del Governo porterà probabilmente benefici solamente ai vertici che dovranno guidarla.

Mario Pezzati, ripreso da Libè, ha infatti ampiamente spiegato che la prossima Borsa carburanti rischia di essere “l’ennesimo ente inutile creato per gettare fumo negli occhi degli italiani per dare l’impressione che il governo voglia combattere il caro benzina”.

Sempre Pezzati ci ricorda che “il prezzo del petrolio incide per meno di 1/3 (ovvero solo per il 30%) sul prezzo della benzina, il resto è dovuto alle accise (imposte varie) che impone il governo italiano e all’iva (al 20%) e al prezzo dei prodotti petroliferi finiti (raffinati)”.

Tornando alle perplessità di Mauro Libè, Roberto Rao, su twitter, rincara la dose:

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Senza il nucleare si rafforza l’opzione delle fonti rinnovabili

postato il 16 Giugno 2011

Il dibattito sull’energia è un groviglio di fenomeni e valutazioni su cui incidono svariati temi tecnici, economici e socio-politici ed in cui nessuna ipotesi operativa è esente da punti deboli e rischi. Esso è stato semplificato dall’esito del quesito referendario cosiddetto “sul nucleare”, che ha eliminato da esso un’intera opzione, appunto l’energia nucleare.

L’affluenza alle urne è stata inattesa, al di là delle più ottimistiche previsioni. All’interno della percentuale di votanti è stata altrettanto inattesa la risposta quasi unanime ai quesiti, poiché varie forze politiche e comitati hanno suggerito agli elettori di andare a votare indipendentemente dalle loro preferenze. Questi dati annullano la portata dell’obiezione che il quesito in oggetto, in base al significato letterale, riguardasse la necessità di adottare un piano energetico in generale in Italia, essendo impensabile che oltre 25 milioni di Italiani abbiano inteso votare contro tale necessità. L’unica interpretazione è quindi che essi hanno votato Sì al quesito secondo il significato simbolico conferito a tale risposta, ossia contro il nucleare. E’ altrettanto impensabile che così tanti elettori siano stati contagiati da un’ondata di emotività, o da un “pensiero unico” che non c’è stato, essendo stato concesso spazio equamente tanto ai sostenitori del nucleare che ai suoi detrattori. Ancora, non resta che ammettere che una larga parte degli elettori contrari al nucleare ha maturato la sua scelta per il ragionevole dubbio sui livelli di sicurezza delle tecnologie attuali, dopo che l’incidente di Fukushima li ha tragicamente messi in discussione, e che non si è fidata della capacità del Governo attualmente in carica di ridefinire di conseguenza il suo programma nucleare, nemmeno dopo che esso ha deciso una moratoria proprio a tale scopo.

Una così massiccia e motivata avversione all’energia nucleare ha improvvisamente vanificato l’utilità di ogni discussione sui suoi vantaggi, svantaggi e rischi, poiché si tratta di un’opzione scartata, e, come detto sopra, ha ridotto il grado di complessità della questione energetica italiana, poiché viene meno una delle alternative che erano state prese in considerazione, appunto l’inserimento del nucleare nel mix di generazione di energia elettrica. La riduzione di alternative non può che rafforzare il peso di quelle superstiti, ossia i combustibili fossili e le fonti rinnovabili, mentre i problemi aperti restano immutati. In particolare, devono essere risolti in altro modo quelli che il nucleare avrebbe mitigato rispetto al ricorso ai combustibili fossili, ossia:

ed è immediato che le fonti rinnovabili rispondono a queste esigenze.

Ciò che le fonti rinnovabili al momento non risolvono, rispetto al nucleare, è la generazione di rilevanti volumi di energia elettrica, per cui il ricorso alle fonti fossili è imprescindibile, almeno per il prossimo decennio. E’ altrettanto indiscutibile, tuttavia, che è in atto un “conto alla rovescia”, in cui l’economia, la ricerca, l’industria e gli stessi cittadini devono favorire il raggiungimento della produzione di energia da fonti rinnovabili ai volumi necessari per manentere la qualità della vita attuale, a costi ed impatti ambientali sostenibili, prima di arrivare all’esaurimento delle fonti fossili. Chiaramente, la rinuncia al nucleare ha ridotto il tempo a disposizione. Ed ancora, non si può ragionevolmente pretendere che a tale scadenza la tecnologia ed i processi produttivi siano maturi per raggiungere i suddetti obiettivi di costi e volumi se non si sostengono fin da adesso la filiera industriale e gli ambiti di ricerca che riguardano le fonti rinnovabili.

La decisione di rinunciare al nucleare, alla luce delle presenti considerazioni, comporta senza appello l’accelerazione dello sviluppo delle fonti rinnovabili, che in Italia è in ritardo. Fra le cause di tale ritardo c’è un’avversione preconcetta, come dimostrano opposizioni non fondate su dati scientifici, come per esempio il presunto impatto delle turbine eoliche sull’attività del lupo, o che un semplice sopralluogo potrebbe confutare, come per esempio l’illazione che un parco eolico su terreno agricolo vi impedisca la coltivazione o perfino la crescita di manto erboso. Altre forme di opposizione si basano su motivazioni che hanno avuto riscontro in passato, ma le cui cause sono state risolte; eppure, curiosamente, esse persistono: per esempio la rumorosità delle turbine eoliche, anche se nei modelli recenti è nulla o trascurabile; oppure la realizzazione di parchi eolici in aree non sufficientemente ventose per sfruttare finanziamenti a fondo perduto, una forma di incentivazione che da anni non è più possibile, se non nelle Regioni a statuto speciale. Infine, ci sono motivazioni oggettive per l’opposizione alle fonti rinnovabili, come per esempio l’impatto visivo degli impianti, soprattutto degli aerogeneratori di grossa taglia e dei parchi fotovoltaici a terra. Nel “groviglio” di fenomeni che riguardano l’energia non mancano, purtroppo, comportamenti inaccettabili da parte di operatori senza scrupoli, come episodi di corruzione per ottenere le autorizzazioni, dichiarazioni false e truffe per ottenere incentivi e sconti fiscali , oppure altri comportamenti meno gravi e nell’ambito della legalità, ma comunque da scoraggiare, come le richieste di autorizzazione finalizzate alla rivendita (a caro prezzo) della stessa e non alla realizzazione dei progetti presentati, o i prezzi dei pannelli fotovoltaici “gonfiati” indebitamente grazie a tariffe incentivanti evidentemente non perfettamente calibrate.

Si tratta quindi di discriminare fra i problemi reali e quelli falsi causati dalle fonti rinnovabili, da parte della classe politica ma anche dei cittadini, i quali ultimi hanno dimostrato, invertendo la tendenza degli ultimi anni, di voler partecipare maggiormente ai processi decisionali relativi all’energia. La rinuncia definitiva al nucleare obbliga più che mai l’Italia a rilassare, altrettanto definitivamente, vincoli, come il rispetto dell’estetica, di secondaria importanza rispetto alla sicurezza nazionale, all’economia del Paese, alla salute dei cittadini e alla tutela dei diritti umani nel mondo. Occorre certo continuare a denunciare i casi di pratiche scorrette nel campo delle fonti rinnovabili e lavorare ai meccanismi regolatori per scoraggiarle, ma al tempo stesso fare pulizia di “leggende metropolitane”, fantasmi del passato, fobìe, accuse precostituite contro operatori seri. Questo anche informandosi meglio e discriminando fra l’informazione corretta e quella fuorviante, quest’ultima purtroppo proveniente anche dalle testate più apprezzate con frequenza e superficialità sconcertanti. Soprattutto, occorre che quella nuova maggioranza di Italiani che ha consapevolmente votato contro il nucleare sia coerente con le conseguenze delle proprie scelte; essere, a questo punto, contrari all’intervento militare in Libia o alle fonti rinnovabili sarebbe un comportamento irresponsabile ed ipocrita, nocivo al benessere futuro dell’Italia e della sua onorabilità.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Vittorio Olivati

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L’inutile referendum sul nucleare

postato il 9 Giugno 2011

E se vi dicessi che Domenica e Lunedì prossimi non voteremo nessun referendum sul nucleare? Sembra paradossale ma stiamo assistendo ad una campagna elettorale che ci invita a votare sì o no su qualcosa che non ci verrà chiesta. Il pasticcio del referendum sul nucleare si è consumato nelle ultime settimane:  il governo italiano, infatti, ha abrogato le norme oggetto di referendum, nel timore di subire una sconfitta nelle urne dopo l’incidente nucleare a Fukushima, dal canto suo la Corte di Cassazione, chiamata a decidere se tenere o no il referendum,  pochi giorni fa ha deciso di sì, ma ha  riformulato  il quesito che ora recita così: “volete voi che siano abrogati i commi 1 e 8 dell’articolo 5 del decreto-legge 31/03/2011 n.34 convertito con modificazioni dalla legge 26/05/2011 n.75?”

Il comma 1 della legge parla sì di nucleare, ma sancisce la rinuncia “alla definizione e attuazione del programma di localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare”, le cose vanno peggio se si va al comma 8 che testualmente prevede che il Governo vari una nuova Strategia energetica nazionale, che “individua le priorità e le misure necessarie al fine di garantire la sicurezza nella produzione di energia, la diversificazione delle fonti energetiche e delle aree geografiche di approvvigionamento, il miglioramento della competitività del sistema energetico nazionale e lo sviluppo delle infrastrutture nella prospettiva del mercato interno europeo, l’incremento degli investimenti in ricerca e sviluppo nel settore energetico e la partecipazione ad accordi internazionali di cooperazione tecnologica, la sostenibilità ambientale nella produzione e negli usi dell’energia, anche ai fini della riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, la valorizzazione e lo sviluppo di filiere industriali nazionali”. Alla luce delle modifiche intervenute e del nuovo testo del quesito referendario possiamo dire senza ombra di dubbio che il referendum non è più sull’energia nucleare bensì sull’esistenza stessa e sui contenuti della Strategia energetica nazionale del Governo, ne avevo parlato qui.

In questa situazione l’eventuale vittoria del Sì al referendum avrebbe soltanto effetti simbolici perché il Governo, stando alla lettera del quesito, non sarebbe autorizzato ad adottare la Strategia energetica nazionale, cioè il piano generale con cui si decidono gli investimenti, le priorità, i settori su cui investire, comprese le energie rinnovabili, mentre un giorno questo o un altro Governo potrebbero legittimamente ricorrere all’energia nucleare.  Ma i guai per il quesito sul nucleare non finiscono qui. C’è il problema dei voti degli italiani all’estero che avendo già votato per corrispondenza hanno espresso il loro voto in base alla vecchia formulazione del quesito. A questo punto non è chiaro cosa succederà a questi voti: saranno annullati o ritenuti validi? Purtroppo non ci sono precedenti e i costituzionalisti interpellati sulla questione sarebbero favorevoli a far rivotare gli italiani all’estero con le schede corrette per evitare l’invalidità del referendum. Il referendum sul nucleare, al di là della forza simbolica, rischia di tramutarsi nel solito pasticcio italiano che porta, di fatto,  ad una non scelta ed ad un danno irrimediabile per il nostro Paese che ancora una volta si ritroverà senza una strategia energetica chiara per i prossimi cruciali decenni.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Resto a favore del nucleare contrariamente a molti

postato il 19 Marzo 2011

Sono nuclearista e contrariamente a molti non ho cambiato idea. Le scelte o si sostengono per convinzione o ci lasciamo trascinare da una parte all’altra, come si e’ fatto dal baciamano di Gheddafi all’intervento in Libia.

Pier Ferdinando

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Il rialzo del petrolio può essere una spinta per l’auto elettrica?

postato il 15 Marzo 2011

Una riflessione tra promesse e realtà.

Con il recente rialzo del prezzo del petrolio e della benzina, il consumatore e le aziende si pongono il problema di come potere risparmiare. La prima soluzione, se si parla di carburanti per autotrazione, sarebbe la ricerca di fonti alternative: ma quali? Il gpl e il metano subiscono anche loro le pressioni del prezzo dei combustibili fossili; restano le fonti alternative quali l’etanolo che però hanno delle rese inferiori alla benzina, inoltre, al momento attuale, la loro produzione non è sufficiente a coprire il panorama mondiale.

Molti ambientalisti, a questo punto, punterebbero sulle auto elettriche. Ma è una opzione praticabile?
I costruttori automobilistici sollevano false speranze sul prossimo futuro dell’auto ecologica e ne approfittano per continuare a vendere vetture di grandi dimensioni e con forti consumi, almeno questo è quanto afferma uno studio dell’Università di Oxford guidato dal dott. Inderwildi.

Eppure alcuni costruttori di auto si erano impegnati a vendere più auto a idrogeno ed elettriche a partire dal 2015, ma si tratta di poche centinaia di vetture e non è una “promessa degna di fede” secondo il dott. Inderwildi.

Infatti vi sono problemi tecnici ed economici.

Per le auto a idrogeno, il problema è da un lato l’idrogeno necessario, perchè è vero che l’idrogeno è l’elemento più comune nell’universo e sul pianeta, ma si tratta di una forma non utilizzabile (gassosa), quindi è necessario prima di tutto ridurlo in forma liquida, procedimento non facile e costoso. Inoltre vi è il problema dell’alto costo del platino necessario per i catalizzatori delle macchine ad idrogeno, infatti servono almeno 50 grammi di platino per ogni catalizzatore, con quello che comporta come costi (circa 2500 sterline, secondo lo studio), considerando fin d’ora che il prezzo è destinato a salire con la crescita della produzione di auto a celle di combustibile. Secondo lo studio poi le celle a combustibile sono soggette a corrosione e hanno una vita molto più breve dei motori convenzionali.

Gli autori sottolineano che i risparmi energetici dipendono anche dalla fonte dell’elettricità o dell’idrogeno utilizzati per alimentare il motore. E al momento la maggior parte è ottenuta bruciando fonti fossili.

Lo studio rileva che il metodo più efficace di ridurre le emissioni complessive dal trasporto su quattro ruote sarebbe «una drastica riduzione sia delle dimensioni sia del peso delle auto a benzina e diesel» e sollecita il governo britannico a imporre tasse più alte sui guidatori di auto di grossa cilindrata, inefficienti, e di reinvestire il gettito per migliorare i trasporti pubblici e incentivare gli spostamenti a piedi e in bicicletta. Gli autori accusano i costruttori di esagerare le potenzialità dell’auto a idrogeno o elettriche nel prossimo decennio e di farlo solo a scopo pubblicitario e per continuare a vendere le attuali auto di grossa cilindrata, mentre per vedere una certa diffusione di veicoli elettrici e ad idrogeno occorrerà aspettare il 2050.
Per quanto riguarda le auto elettriche, secondo la ricerca, il problema è di natura fisica ed è legato alla vita limitata delle batterie e i problemi fisici legati all’accumulo, da parte delle batterie, dell’energia. Un esempio? La migliore batteria a ioni di litio per autotrazione in 25 kg di peso immagazzina l’energia di soli 25 cc di benzina. In pratica con ben 250 kg si ottiene un’autonomia non competitiva con i motori a combustione interna.
E l’auto elettrica impone anche una attenta riflessione industriale che deve essere iniziata ora a livello anche politico, per evitare di arrivare senza soluzioni quando il problema si presenterà: mi riferisco al problema legato all’occupazione. In ballo ci saranno milioni di posti di lavoro che non potranno essere riconvertiti in toto, perchè le auto elettriche non hanno bisogno di cambi e non necessitano neppure di filtri dell’acqua o dell’aria, marmitte, radiatori e pompe. Sono più hi-tech, più semplici: con meno pezzi e meno attori nella filiera.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

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Intervistato a “Porta a Porta” sul nucleare

postato il 15 Marzo 2011

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