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Il mercato immobiliare: sale o scende?

postato il 21 Luglio 2010

di Gaspare Compagno

Nomisma e Tecnocasa, sostengono che il mercato immobiliare stia anticipando la ripresa economica. Anche se il mercato immobiliare risulta ingessato, con i prezzi di vendita in calo di circa un punto percentuale nel primo semestre 2010 rispetto all’analogo periodo del 2009 (mentre l’affitto risulta in discesa di circa l’1,5-2%), l’offerta nel mercato residenziale è in forte crescita. Ma è davvero così?

Ci permettiamo di nutrire qualche dubbio: per gli operatori, dall’inizio della crisi, i prezzi di vendita hanno perso il 5% del valore nominale, mentre i canoni di locazione accusano una flessione di circa il 7%; in realtà, queste sono le variazioni nominali, mentre se andiamo a guardare ai valori reali, osserviamo che i livelli sono tornati quelli di circa 5 anni fa, una perdita secca (considerando la sola inflazione) per i costruttori e le società di real estate, nonostante l’ottimismo di Nomisma che rileva come la flessione dei prezzi si stia riducendo.

Ma questo ottimismo è giustificato? Citiamo “Il Sole 24 ore” che dice: “Le flessioni dei prezzi della prima metà del 2010 sono le più contenute dell’ultimo biennio, il che prefigura un percorso di ripresa lento e graduale che non porterà aumenti nei valori prima del 2011. Questo dice Nomisma, come peraltro aveva detto l’ufficio studi Tecnocasa due giorni fa. Quindi è probabile che ciò avvenga”.

Sarebbe stupendo se, nello stesso articolo, il quotidiano non dicesse testualmente “ questo il dato che tutti i proprietari e i potenziali acquirenti di abitazioni si attendevano dall’odierna presentazione del rapporto semestrale”.

Notata la dicitura? “Il dato che tutti si attendevano”. Questa attesa, potrebbe avere involontariamente condizionato le rilevazioni, nonostante la comprovata serietà e professionalità di Nomisma e Tecnocasa?

Per avere una visione oggettiva e completa dobbiamo analizzare meglio i dati forniti e andare a vedere non in base ai valori nominali, ma ai valori reali.

Allora osserviamo che, se è vero che il calo dei prezzi è stato dell’1% a livello semestrale, a livello annuale la diminuzione diventa pari al -2,6%; le transazioni invece sono molto basse rispetto ai livelli precrisi: si parla di circa il 30% in meno rispetto al 2007.

Ma la cosa che maggiormente ci spinge a riflettere è che Nomisma, nel suo rapporto, parla esplicitamente di “sconti”. Dice infatti che “Una nota parzialmente positiva viene dal fatto che gli sconti sui prezzi hanno segnato la prima lieve riduzione, attestandosi mediamente al 13% per le case”. Flessione che viene dopo vari semestri di cali continui.

Cosa significa? Significa che in realtà, il venditore, non accusa una flessione dell’1%, ma di almeno il 13% se è disposto a concedere questa percentuale come sconto medio, perchè per concedere questa diminuzione del prezzo, la motivazione è una fondata paura di non riuscire a vendere.
E questo pone degli interrogativi inquietanti sulla tenuta finanziaria di assicurazioni, fondi di real estate e banche che finanziano i costruttori.

Similarmente, anche il mercato della locazione ha dei problemi: la flessione degli affitti vede una riduzione del 10% del canone di locazione su base reale, ma siccome la flessione è stata leggermente inferiore alla flessione dei prezzi di vendita, il rendimento della locazione per il proprietario si è riuscito a mantenere intorno al 4,8%.

Anche Tecnocasa finge ottimismo, ma in realtà dipinge un mercato non proprio idilliaco per i costruttori, infatti apertamente parla del rischio del credit crunch, ovvero la restrizione del credito operata dalle banche, che potrebbe condizionare pesantemente le vendite delle case. L’ottimismo di Tecnocasa si fonda tutto sui bassi tassi di interesse dei mutui che, secondo loro, dovrebbero incoraggiare gli acquirenti. Personalmente credo che sia una visione troppo positiva se, come invece afferma Nomisma, aumenta l’acquisto di immobili con capitale proprio (totale del 30% delle compravendite) perchè per le famiglie è difficile ricorrere al mutuo bancario.

E questa visione, non proprio ottimistica, la si percepisce se si si va a leggere quanto dichiarato da Assoedilizia, ovvero che per una ripresa del mercato immobiliare nazionale bisognerà attendere almeno 2-3 anni e che bisogna assolutamente introdurre la cedolare secca per gli affitti (come tra l’altro proposto dall’UDC). Questa affermazione di Assoedilizia è confermata da Antonio Pastore, Presidente di Borsa Immobiliare e da Lionella Maggi, presidentessa della Fimaa (Federazione Italiana Mediatori Agenti d’Affari).

Proprio per questo motivo, è lecito nutrire qualche dubbio verso il facile ottimismo presentato da Nomisma e Tecnocasa. Questi sembrano dipingere un settore pronto a decollare e popolato da famiglie che sembrano non avere problemi a comprare casa, una realtà molto diversa da quella disegnata oggi dalla Svimez, che parla chiaramente di impoverimento delle famiglie italiane, e dall’ISTAT.

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Progetto Citylife: vedrà mai la luce?

postato il 13 Luglio 2010

di Gaspare Compagno

Con le ultime vicende legate all’Expo 2015 che hanno evidenziato i problemi che sta incontrando, ci si chiede se anche l’altro grande progetto milanese, il Progetto Citylife, vedrà mai la luce.

Ma cosa è esattamente questo Progetto Citylife?

Sostanzialmente si tratta di un progetto di riqualificazione di parte del quartiere storico della Fiera di Milano, ed è nato nel settembre 2005, quando l’Amministrazione Comunale di Milano ha adottato il Piano Integrato di Intervento che, oltre all’area di trasformazione di circa 255.000 mq, prevede la risistemazione di aree comunali esterne al perimetro del polo fieristico urbano, tra cui piazza Giulio Cesare e gli spazi circostanti il Vigorelli, per una superficie complessiva di circa 366.000 mq, per intenderci una estensione tripla rispetto a Potsdamer Platz a Berlino e di poco superiore a quella di Canary Wharf a Londra.

Stando al progetto originario sono previsti parchi, un grande centro culturale per bambini (Palazzo delle Scintille), un nuovo Museo e la ristrutturazione e trasformazione, a cura dell’Amministrazione Comunale, dello storico velodromo Vigorelli, ma quel che caratterizza maggirmente il progetto è l’edificazione di tre grattacieli firmati dagli architetti Hadid, Libeskind e Isozaki.
In seguito all’aggiudicazione della gara per un controvalore di 523 milioni di euro, è stata costituita la società CityLife, partecipata da Generali Properties, Gruppo Allianz, ed Immobiliare Milano Assicurazioni (Gruppo Fondiaria-SAI) sotto la presidenza del prof. Maurizio Dallocchio.

Il progetto sembrerebbe quindi non avere impedimenti, eppure i problemi non mancano, tanto che c’è chi mormora che si potrebbe avere una clamorosa riduzione di tutto il progetto.

Che tipo di problemi? Il primo riguarda la prenotazione e la vendita degli spazi che si verranno a creare: al momento la vendita dei futuri uffici è talmente bassa (a causa della crisi economica è la motivazione ufficiale), che la società ha chiesto al Comune il permesso di cambio di uso per i grattacieli. Uno dei tre grattacieli, la contestatissima torre «gobba» di 35 piani e 170 metri d’altezza progettata da Daniel Libeskind, potrebbe essere destinato esclusivamente ad appartamenti e hotel. La decisione è subordinata anche alle decisioni di Palazzo Marino, che esaminerà nei prossimi giorni la richiesta di cambio di destinazione d’uso avanzata dalla società. Inizialmente si pensava di destinare un 55% della metratura complessiva di CityLife al residenziale e un 45% circa a uffici e terziario; ora, in seguito alla crisi, la proporzione è cambiata e si è su un 70% per gli appartamenti e un 30% circa per uffici e attività commerciali.

Un altro problema è il finanziamento dell’operazione che, a causa della crisi internazionale, ha avuto alcuni problemi che pare siano stati risolti con gli accordi con le banche per il finanziamento dell’opera (per un totale di 1,4 miliardi di euro, mostrando quindi che il valore si è quasi triplicato dalla gara iniziale) e che ha visto nell’accordo la partecipazione di: EuroHypo come banca agente, e Banca IMI, Banca Popolare di Milano, Crèdit Agricole, Mediobanca e Unicredit (casualmente banche fortemente coinvolte negli affari di Generali e Ligresti) come erogatrici del finanziamento. Contemporaneamente hanno dato anche una risistemata all’azionariato: esce Toti (20% circa) e la sua quota verrà acquisita per due terzi da Generali e per un terzo da Allianz, mentre la Fonsai di Ligresti, pur garantendo pro quota il piano di finanziamento e l’ equity necessario, resterà ferma al 27% e avrà un’ opzione per vendere a Generali entro settembre 2011, assicurandosi quindi una via di uscita qualora il progetto riuscisse a mantenere le sue prospettive di guadagno.

Un terzo problema è rappresentato invece dai cittadini milanesi, che in sempre maggior numero (circa due cittadini su tre), protestano contro il Progetto Citylife e contro il Piano di Governo del Territorio (PGT) del comune di Milano che prevede un drastico aumento dei grattacieli e delle costruzioni edili, ed una riduzione dei parchi milanesi. Problema questo molto sentito, se la società Citylife ha deciso di rivedere il disegno originale del Palazzo delle Scintille per una nuova versione più rispettosa della costruzione originaria, mentre la società aspetta il risultato dei sondaggi presso i Milanesi, per capire se l’architettura dei tre grattacieli sia gradita o meno. In questo momento parrebbe di no, se finora sono stati venduti solo 80 appartamenti su 1100-1200 appartamenti in totale.

Dai numeri, pare di capire, che fosche nubi si addensano sull’intero progetto, che rischia di essere il secondo flop dopo la pessima gestione, evidenziata finora, del progetto EXPO 2015.

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Linee Tirrenia, l’oro naviga sul mare? Storia di una privatizzazione all’italiana

postato il 1 Luglio 2010

di Gaspare Compagno

La Tirrenia, la storica compagnia di navigazione, sta viaggiando verso la fine della sua odissea.
In questi giorni, infatti, si chiuderà all’italiana una vicenda iniziata dall’UE e che sarebbe piaciuta immensamente a Tommasi di Lampedusa autore della frase “perchè tutto resti come è, tutto deve cambiare”.
Ma cosa accade in questi giorni?

La Tirrenia è una società formata da Tirrenia di Navigazione S.p.A. e da Sicilia Regionale Marittima S.p.A. ed è gestita dallo Stato che anno per anno ripiana i debiti.
A questo punto interviene l’UE che impone la privatizzazione della compagnia: vuole togliere la mano pubblica, e dopo un anno di concorsi pubblici, gare, interviste e altro ancora, il risultato quale è?
Di nuovo la mano pubblica, e quindi nulla nei fatti cambia.
Infatti la Tirrenia viaggia in acque finanziarie molto brutte, tanto da meritarsi l’appellativo di “Alitalia dei mari”, e da ben 25 anni la UE tenta di imporne la privatizzazione. Il nostro governo decide finalmente di procedere alla privatizzazione, ma alla sua maniera: salvare il salvabile con qualche trucchetto scaricando i costi sui cittadini.

Infatti, fin dall’inizio viene dichiarato che, chi si piglia la Tirrenia, con tutti i viaggi annessi e connessi, si “sposa” con una dote di 1,24 miliardi di euro, o, per dirla anche meglio, 1240 milioni di euro.
Perchè questa dote? Perchè i biglietti della Tirrenia sono venduti a prezzi calmierati, per la continuità territoriale che prevede il collegamento aereo o navale a tariffe agevolate per i residenti di isole o territori disagiati o poco collegati, ma non si preoccupa del modo o del tempo che si impiega per coprire la tratta interessata: giusto per dire, da Civitavecchia a Cagliari si impiegano 17 ore.
La continuità territoriale però costa cara: nel 2008, tanto per dire, gli italiani hanno sborsato di tasca propria 22 euro per ognuno dei 10,5 milioni di biglietti staccati dal gruppo.

Ma non basta e allora, oltre ai famosi 1240 milioni di euro di dote, lo Stato italiano, mette sul piatto altri benefit che servono a far durare la spesa, per il contribuente italiano, almeno fino al 2022 visto che il bando di privatizzazione, se così si può ancora chiamare, garantisce al compratore 72,6 milioni di aiuti pubblici l’anno per otto anni per Tirrenia e 55,6 (per 12 anni) per Siremar, la linea di navigazione regionale siciliana all’asta con la casa madre. Se sommiamo questi aiuti alla dote, arriviamo a quasi a 3 miliardi il conto pagato dagli italiani per tenera a galla le navi di Stato.

Intendiamoci, in alcuni casi le sovvenzioni sono necessarie: l’Italia è il paese europeo con il maggior numero di abitanti su isole (7,5 milioni) e alle isole minori (Pelagie, Gorgona, Eolie e Tremiti) va garantito un servizio di trasporto pubblico adeguato anche fuori stagione.
Però il problema è come vengono spesi questi soldi: su tre euro incassati da Tirrenia, uno arriva dalle casse dello Stato, e, a conti fatti, diventano oltre un miliardo tra il 2005 e il 2009. Ufficialmente si chiamano sovvenzioni di equilibrio, e coprono le perdite per i collegamenti anti-economici, ma in realtà sono la scusa per giustificare le inefficenze del gruppo. E non lo dico mica io, ma la stessa Tirrenia, quando nel piano industriale 2009-2014 afferma che il costo medio della forza lavoro è superiore del 24,6% rispetto a quello dei privati, per diventare superiore del 48% quando si va a considerare le linee locali (Toremar, Caremar, Saremar).

Il problema non è il numero dei dipendenti (calati dal 1989 al 2008 di 2587 unità, ovvero il 62,5% del totale), ma, la loro gestione, infatti fino a poco tempo fa ogni nave del gruppo aveva due equipaggi completi e ogni giorno di lavoro dava diritto a un giorno di riposo (oggi si è passati a 60 giorni a bordo e 30 a casa). E malgrado la riduzione del personale navigante un marinaio della Caremar costa ancora il 66% in più di quelli imbarcati sulle navi dei concorrenti privati.
L’altra faccia della medaglia è la flotta della Tirrenia. La società dichiara una flotta che conta 44 mezzi per un valore a bilancio di 855 milioni con ipoteche bancarie per 245.

Cosa c’è di strano in questa flotta? Che è fatta di navi ad alta tecnologia (dicono) ma con un’età media di 10 anni, unità veloci (dicono) già vecchie di 12, traghetti (e sono 28) che navigano da 25 anni, con tutti gli acciacchi anagrafici del caso. Non sono un esperto di alta tecnologia, ma se una nave ha una età di 25 o di 10 anni, proprio nuovissima non è. Ma la vera perla della flotta sono 6 navi costate 300 milioni di euro, ma mandate in disarmo (va da sé a spese dei contribuenti) poco dopo il varo. Possibile? Siamo in Italia, quindi si è possibile.Ecco la storia: inizio anni ’90, Tirrenia ordina ai Cantieri Rodriquez gli agili Guizzo e Scatto, due missili capaci di portare 120 auto e 450 passeggeri volando sulle onde a 40 nodi (quasi 70 all’ora). Peccato che una volta pagati e in acqua, queste spider del trasporto marittimo evidenziassero un problema forse non tanto marginale: non erano in grado di viaggiare con il mare mosso, addirittura queste due navi furono oggetto di una informativa rivolta al ministro dei trasporti dai parlamentari Becchetti e Bonaiuti. Il ministro all’epoca rispose che erano state riscontrate anomalie di funzionamento dei cuscinetti di rotolamento degli ingranaggi dei riduttori di giri dei motori principali.

Come sia, come non sia, resta il fatto che due navi strapagate, avevano difetti di fabrica: rottamate. Cinque anni dopo (tra il 1998 e il 2003) Tirrenia ordina a Fincantieri Aries, Scorpio, Taurus e Capricorn, navi costose (110 miliardi di lire l’una o 55 milioni di di euro) ma stabili, capienti e capaci grazie alle turbine derivate dai caccia militari di ridurre da 12 a 5 ore il tempo di traversata tra Genova e Golfo Aranci. Splendide. Ma con un un problema: consumavano 290 kg. di gasolio al minuto contro i 41 degli altri traghetti del gruppo, rendendo assolutamente antieconomico il loro utilizzo. Morale: le quattro ammiraglie sono state prepensionate come carrette dei mari qualsiasi e oggi sono ormeggiate a Genova, Arbatax e Napoli in condizioni precarie, con quattro marinai di servizio che provvedono ogni tanto ad accendere i motori tanto per oliare gli ingranaggi e gaudagnarsi il loro stipendio. La pioggia di aiuti di stato consente ogni anno a Tirrenia e alle sue compagnie regionali di chiudere i conti in utile, ma la verità però è che il bilancio, fa acqua da tutte le parti. I debiti consolidati a fine 2008, dopo le spese un po’ folli degli anni ’90, erano a quota 920 milioni di cui 311 a breve termine con le banche. Gli ultimi accordi sindacali hanno ridotto al livello dei concorrenti privati gli stipendi (scesi del 23%) per le tratte Genova-Porto Torres e Civitavecchia-Olbia, le due rotte più ricche e redditizie dove Tirrenia è stata svincolate d’estate dai vincoli tariffari. Il costo per il personale sulle linee regionali è calato però solo del 7%. E in vista della privatizzazione, segnala la Corte dei Conti, le consulenze sono cresciute del 63%.
E arriviamo ai giorni nostri. L’UE impone la vendita e si fanno avanti in 15, ma, appena vedono i conti, si defilano tutti, anche a causa dei dubbi della UE sui nuovi aiuti di Stato (quelli fino al 2022) e resta solo un unico acquirente, la Regione Sicilia e, se Bruxelles darà l’ok a questa privatizzazione, la società passerà da mani pubbliche (statali) a mani pubbliche (regionali) che hanno fatto sapere che vi saranno 211 esuberi
E i sindacati sono già sul piede di guerra. Come è che si diceva? Tutto cambia, perchè nulla cambi.

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Crisi: Dopo la Grecia anche l’Italia è condannata al default?

postato il 18 Giugno 2010

crisi greciadi Germano Milite.

Qualche giorno fa (era il 14 giugno) una notizia è comparsa su Reuters . La news economica, nonostante la sua potenziale enorme importanza, non è però stata inserita tra le prime pagine e, cosa ancor più inusuale, è stata data in maniera “secca” e, cioè, senza alcuna spiegazione tecnica o alcun commento specifico relativo al fatto accaduto. Di seguito, per permettere ai nostri lettori di farsi un’idea precisa, riportiamo in maniera integrale il lancio di Reuters.

Titolo: Italia, specialisti disertano riapertura Btp in asta venerdì

“È andata deserta la riapertura odierna dei titoli del Tesoro italiano in asta venerdì scorso. Nessuno dei primary dealer ha avanzato offerte, lasciando l’ammontare complessivo invariato alla cifra di 7,001 miliardi collocata venerdì.

Il Tesoro aveva messo a disposizione l’importo supplementare di 1 miliardo di euro per il Btp giugno 2015, di 174 milioni per il Btp febbraio 2017 e di 126 milioni per il Btp febbraio 2037”

crisi italiaLa notizia, data in questo modo, può lasciare spazio ad un numero corposo di illazioni e considerazioni anche catastrofiste. Di primo acchito, difatti, si potrebbero valutare i dati riferiti in maniera molto negativa ed allarmante, traducendo e sintetizzando la mancata vendita dei Btp con un futuro default già previsto per l‘Italia dopo la debacle della Grecia e gli imminenti crolli preventivati per Spagna e Portogallo. I grossi investitori, infatti, evitano di acquistare i Btp (titoli di stato) qualora vengano proposti da economie nazionali reputate a rischio o comunque poco affidabili. Vendere pochi Btp è un dato, non venderne nemmeno uno può essere considerato particolarmente significativo. Ciò che colpisce, comunque, è il fatto che nell’articolo non ci sia alcun riferimento al rendimento effettivo di tali titoli (è anche in riferimento a quel dato, e cioè a quanto frutteranno in futuro, che i Btp risultano più o meno appetibili). Onde evitare mistificazioni ed avventate conclusioni allarmiste, ci siamo affidati al parere di due esperti del settore. Il primo è Luigi Cobianchi, consigliere d’amministrazione dell’immobiliare del gruppo Bancario Banca di Credito Popolare.

Come valuta la notizia diffusa da Reuters?

“Beh di sicuro non positivamente ma attenzione: i rating sono spesso manovrati dai grandi potentati economici che agiscono da speculatori senza scrupoli e, per tale motivo, spesso non dicono il vero riguardo l‘effettiva affidabilità del sistema economico e finanziario di uno Stato… In ogni caso sono evidenti e difficilmente confutabili i segnali di sfiducia che colpiscono tutte le nazioni che fanno parte dell’eurozona ed in particolare il nostro paese”

Colpa della crisi, ovviamente?

“Certo e poi teniamo a mente una cosa fondamentale: si è passati dal sospetto alla bancarotta vera e propria che, per anni, è stata solo faticosamente rimandata e nascosta con manovre di bilancio abilmente ritoccate per far apparire sane le casse dello stato che in realtà erano dissestate”.

Ad esempio?

“Ad esempio basta considerare la Grecia: da tempo, ad Atene, dichiaravano dati di bilancio fuorvianti (con manovre al limite del lecito per nascondere le difficoltà enormi che devastavano l‘economia ellenica). I risultati li abbiamo visti tutti direi”.

titoli di statoMa quindi perché quell’asta dei Btp italiani è andata deserta?

“Prima di tutto occorrerebbe sapere che rendimento avevano questi Btp specifici per poter valutare al meglio il loro scarso appeal nei confronti degli investitori. I titoli di stato, come noto, sono comunque sempre poco fruttuosi poiché, al contempo e come contropartita, godono di una certezza d’incasso piuttosto solida. Di conseguenza il concetto è relativamente semplice: se il titolo di stato non si vende è per colpa del debito pubblico che ha accumulato chi lo ha messo sul mercato nazionale ed internazionale e che, di conseguenza, priva il Btp della propria caratteristica intrinseca e cioè di un rendimento tendenzialmente basso ma certo”.

Cosa ha salvato l’Italia dal tracollo e cosa potrebbe procurare il default anche qui?

“Alla prima domanda rispondo senza esitazioni: ci ha salvati una politica economica e finanziaria diversa da quella americana e, cioè, basata su beni materiali tangibili e non su forsennate speculazioni inerenti al settore terziario e dei servizi e basate, quindi, sul nulla o comunque sul molto incerto. Ci hanno salvato, poi, il cosiddetto “mattone” e l’industria pesante. Il punto – e con questo rispondo al secondo quesito – è che però oggi il primo settore – quello immobiliare – è del tutto impazzito ed è gestito in prevalenza da costruttori miopi che esigono fitti altissimi anche per delle cantine. Oggi quasi nessuno può permettersi un appartamento dignitosamente grande proprio perché, chi li vende, richiede cifre assolutamente scriteriate che porteranno in breve ad un collasso dell’intero sistema. Riguardo l’industria pesante che dire: stanno smantellando pian piano tutto ciò che di buono era stato creato e basta guardare a Pomigliano e a Termini Imerese – giusto per fare qualche esempio – per comprendere il suicidio al quale stiamo andando incontro”.

Dunque è finita? Dobbiamo prepararci al peggio

“L’Italia è piena di catastrofisti e di ottimisti in malafede. Io dico che la crisi è tutt’altro che ridotta e che, anzi, tende a raggiungere nei prossimi mesi dimensioni preoccupanti. Ciò perché non investiamo sulle eccellenze ma anzi le umiliamo. Negli ultimi 10 anni le maestranze italiane hanno perso know how in maniera spaventosa e questo ha favorito la manodopera straniera…se non si pone un argine allo smantellamento di ciò che ci ha salvato – non lasciandosi sedurre troppo da investimenti enormi nel settore terziario e dei servizi- e non si pone un freno alla speculazione selvaggia cui siamo vittime, non prevedo un futuro roseo. Quasi dimenticavo, prima, di citare le grandiose famiglie italiane che, grazie al loro risparmio accumulato con tanti sacrifici, sono tra gli elementi salva bilancio pubblico fondamentali della penisola. Tremonti dovrebbe pensare piuttosto a combattere il credito al consumo che è una piaga vera e propria e che sta distruggendo noi dopo aver distrutto gli Stati Uniti. Occorrerebbe, allo stesso tempo, un percorso di educazione alla moderazione da fare ai più piccoli e ai giovani in genere; per far intendere loro che il consumismo sfrenato ci ucciderà e che, se guadagni 10, non può spendere 20 e vivere di debiti e “comode rate da pagare“ a mo di vitalizio debitorio…”.

Concludendo?

“C’è bisogno per rilanciare l’economia attraverso una seria e concreta campagna di investimenti verso le parti di questo paese che hanno maggior bisogno di rilancio…tra queste ricordo proprio il meridione. A tal proposito mi sia consentito uno sfogo: per i 150 anni dell’Unità d’Italia non ho nulla da festeggiare date le ruberie generalizzate che la mia terra ha subito e continua a subire ancora oggi. In ultimo, e qui rischio di diventare ripetitivo, occorre smettere di dire che si vuole investire in ricerca ed università e cominciare a farlo sul serio visto che, da decenni, ogni governo non ha fatto altro che togliere risorse a questi due settori vitali per lo sviluppo dello stato”.

Il secondo esperto di settore che abbiamo voluto ascoltare è il professor Antonio Coviello , docente alla Sun (Seconda Università di Napoli) ed economista del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR).

Professer Coviello come commenta i dati riportati da Reuters? C’è da preoccuparsi per un imminente default della nostra economia?

“Beh io eviterei a tal proposito allarmismi ingiustificati e vi spiego perché: prima di tutto è anche comprensibile che, gli investitori, in questo periodo di odissee economico-finaziarie, siano più prudenti alla luce dei gravi giudizi negativi e dell’abbassamento improvviso dei Rating di Spagna e Portogallo. E’ innegabile, infatti, che si sia verificata una contrazione generalizzata degli investimenti e che, soprattutto in Italia, esista la consapevolezza di avere il debito pubblico più pesante tra i paese dell‘eurozona”.

debitoCome ha reagito l’Italia alla crisi globale?

“Il nostro paese è caratterizzato da una forte cultura del risparmio a differenza degli Stati Uniti (dove le famiglie medie sono molto più indebitate rispetto alle nostre) e questo, sicuramente, ci ha aiutati ad ammortizzare meglio di molti altri il duro scossone partito dall‘America. In Italia esiste poi una forte rete di piccole e medie imprese – oltre il 90% della forza lavoro proviene dalle piccole e medie imprese – caratterizzate spesso da una conduzione familiare responsabile di una gestione oculata e parca degli investimenti. L’unico problema resta quello del debito pubblico che non riguarda solo il governo nazionale ma anche quelli regionali e locali ed è proprio a livello locale, a mio avviso, che si dovrebbe agire con maggior celerità ed efficacia nei prossimi mesi”.

Quindi come descrive la situazione economico-finanziaria dell’Italia di oggi?

 “Sicuramente non delle migliori; anzi è la più difficile e grave dell’ultimo decennio ma ribadisco una solidità riscontrata nella cultura del risparmio di chi in questo paese ci vive. Sempre che si tenga presente, ovviamente, l’enorme debito pubblico che ci affligge e si proponga un programma di contenimento della spesa soprattutto in ambito locale”.

Fonte: Julienews.it

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Il credito tradito: storie di truffe a danno di artigiani e famiglie

postato il 12 Giugno 2010

finanziamenti1 di Gaspare Compagno

Il credito è un elemento vitale sia per le famiglie, ma anche per le aziende piccole e grandi.
Proprio per questo il settore creditizio deve, più di tanti altri, essere responsabile e regolamentato.
Ovviamente la regolamentazione non deve essere “eccessiva” o si rischia di ingessare il settore provocando una mancanza di liquidità gravissima per l’economia; d’altro canto non si può neanche tollerare una regolamentazione nulla, altrimenti si moltiplica il rischio delle truffe.
Questa situazione porta ad impattare fortemente non solo sulle famiglie, ma anche sugli artigiani e le piccole imprese che costituiscono il 95% del tessuto produttivo italiano, proprio quel “popolo delle partite iva” che a parole sono fortemente difesi dal centrodestra, ma che poi, nei fatti, sono lasciati a loro stessi a causa di palesi vuoti normativi che il governo non sembra volere colmare.
Per potere sopravvivere, questo immenso popolo produttivo ha bisogno di potere fare affidamento sul mercato del credito e su un impianto legislativo che sia semplice, chiaro e funzionale.
A queste necessità bisogna aggiungere anche le famiglie che hanno bisogno di potere accedere al credito in maniera semplice, efficiente, a costi contenuti e con regole chiare.
Ignorare queste necessità sacrosante, significa condannare a morte certa gli artigiani, le piccole imprese e le famiglie che compongono il tessuto sociale e produttivo dell’Italia e dare spazio ai truffatori e agli usurai.

E se per il sud si parla di emergenza usura, anche il Nord non sta meglio, anzi molto più spesso si sentono di problemi legati alle famiglie e alle piccolissime imprese artigiane del Nord che sono vittime di truffe. Quale è una delle cause più comuni? La mancanza di regole per il settore della riscossione dei crediti.
Il rischio connaturato alle imprese e agli artigiani è l’insolvenza del debitore, in questo caso quali sono le strade che possono essere perseguite?
Se la situazione non si sblocca, parte l’azione legale e il pignoramento.
Ovviamente tutto ciò si scontra con i ritardi della giustizia italiana e con una logica di base: banche e finanziarie non scatenano guerre legali per crediti di poche migliaia di euro, preferendo agire velocemente e in via stragiudiziale, incaricando del recupero società esterne specializzate (609 in Italia di cui 152 iscritte a Unirec), che attuano una politica di stressare i tempi, in quanto più il debito è fresco, più alte sono le probabilità di recupero. E qui arriviamo ad una debolezza sistemica che mi lascia molto perplesso. Le aziende di recupero credito, operano in un ambito scarsamente regolamentato, o per meglio dire, in un ambito dove le regole pur essendoci sono confuse, si prestano a molteplici interpretazioni e spesso vengono disattese grazie ai ritardi della giustizia italiana di cui sopra. In pratica, lo scopo di queste aziende è quello di recuperare i crediti vantati dai clienti, molto spesso piccole aziende e artigiani.

Cosa succede quindi?
Semplice, che abbiamo aziende di recupero crediti che possono avere una ragione sociale “confusa”: possono associare all’attività di recupero crediti qualsiasi altra attività che ha una minima attinenza, anche se questa è molto labile. Molte aziende di recupero credito, infatti, si intestano pure una attività investigativa, di bonifica ambientale da spie e microspie, di indagini di marketing e così via.
Inoltre un altro punto debole della struttura del recupero crediti è data dalla mancanza di una uniformità di contratti: molto spesso le piccole società di recupero crediti pongono delle clausole vessatorie, non è infrequente infatti il caso in cui si riservano di pagare al cliente molto dopo che hanno recuperato il credito.
Questo chiaramente non aiuta chi si trova ad operare stabilmente con queste società e che si trovano a subire dei soprusi quando chiedono di rientrare in possesso dei propri crediti, anche per la lentezza della giustizia italiana. Siccome molte piccole aziende si rivolgono a queste società di recupero credito, diventa vitale per l’economia che si intervenga per regolamentare il settore.
Infatti, sempre più spesso accade che le aziende di recupero crediti, quando riescono a recuperare grosse cifre per conto di artigiani e di piccole imprese, tardino poi a girare le somme ai legittimi proprietari, mettendo in crisi gli artigiani e i piccolissimi imprenditori che devono fronteggiare con i loro risparmi o, peggio ancora, contraendo debiti in attesa di potere rientrare delle somme che spettano loro. Quale è il risultato? Che le aziende di recupero credito lucrano interessi e spesso tentano il colpaccio, trattenere più di quanto è loro dovuto, mentre quel famoso 95% di tessuto produttivo italiano, ovvero piccolissime aziende e artigiani, devono sottostare a dei diktat mafiosi, devono indebitarsi, e spesso devono chiudere la loro attività, generando ulteriore sfiducia e disoccupazione nelle famiglie. Ma quel che è peggio di tutta questa situazione è che non sembra che l’attuale governo voglia fare qualcosa, condannando di fatto al fallimento tutta la struttura sociale e produttiva italiana. Parliamo di milioni di artigiani, milioni di famiglie, milioni di persone oneste che con il loro lavoro sostengono l’economia italiana.

Quali possono essere le soluzioni? Intanto istituire dei fondi di garanzia e delle assicurazioni pagate dalle stesse società di recupero crediti e che tutelano i loro clienti; poi stabilire dei percorsi accelerati in sede di giudizio, anche tramite arbitrati, per attivare la restituzione delle somme da parte delle società di recupero credito, restituzione che deve potere avvenire anche coattivamente.
Infine, uniformare i contratti e stabilire quali sono le clausole ingiuste e i tempi minimi e massimi di pagamento una volta che la società di recupero è entrata in possesso delle somme da recuperare.
Dobbiamo fare pressione perché troppe piccole aziende, troppo famiglie, troppi artigiani stanno subendo soprusi a causa della inerzia del legislatore che non interviene in questo settore così importante.

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Manovra correttiva primaverile: dove si può tagliare?

postato il 18 Maggio 2010

Money, album di TiziaKaya“Riceviamo e pubblichiamo”, di Gaspare Compagno
Circa un mese fa si erano diffuse le voci di una manovra correttive, che erano state smentite dal ministro Tremonti, che aveva dichiarato il 7 Aprile che la manovra ci sarebbe stata solo nel 2011 e dal premier Silvio Berlusconi, che ribadì il concetto il 9 Aprile.
Nonostante queste smentite, il 13 Aprile la ipotizzata manovra correttiva prendeva contorni più delineati e le linee direttrici sarebbero state tre: allungare le scadenze del debito pubblico italiano (già ora intorno ai 7 anni), tassazione degli immobili sfitti e di proprietà delle banche (ma senza reintrodurre, almeno ufficialmente, l’ICI), aumento del prelievo fiscale sulle rendite finanziarie, doppia tassazione per le banche.
Anche in questo caso vi furono le prevedibili smentite.
In questi giorni il ministro Tremonti ha, invece, affermato che effettivamente ci sarà una manovra aggiuntiva, rassicurando però sulla tenuta dei conti pubblici e sostenendo che tale manovra sarà di circa 25 miliardi di euro in due anni. [Continua a leggere]

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Benefattore paga la mensa ai bambini di Adro, la lettera

postato il 14 Aprile 2010

album di public_folderQualche giorno fa un imprenditore di Adro, in provincia di Brescia, ha saldato il debito contratto da alcune famiglie del paese con la mensa della scuola, che era costato l’esclusione di alcuni bambini dai pasti. Un gesto che non ha placato le polemiche. Duecento genitori hanno scritto al sindaco leghista Oscar Lancini per chiedere il rispetto delle regole, suggerendo a chi non riesce a pagare la retta di tenere i propri figli a casa. Lo stesso primo cittadino dopo il gesto dell’imprenditore è apparso critico e ha dichiarato: “il problema è stato spostato, per non dire aggravato”.
Di recente, proprio su questo blog, abbiamo parlato dell’epidosio di Montecchio Maggiore, in provincia di Vicenza, dove la giunta comunale guidata dal Pdl e Lega aveva stabilito che 9 bambini non potessero usufruire della mensa della scuola elementare.

Da un lato c’è chi esige il rispetto delle regole ad ogni costo, dall’altro chi sottolinea l’esigenza di costruire una società in grado di aiutare chi è in difficoltà.

Per avviare una riflessione su questo tema, pubblichiamo di seguito la lettera del benefattore bresciano.

La lettera:

“Sono figlio di un mezzadro che non aveva soldi ma un infinito patrimonio di dignità. Ho vissuto i miei primi anni di vita in una cascina come quella del film “L’albero degli zoccoli”. Ho studiato molto e oggi ho ancora intatto tutto il patrimonio di dignità e inoltre ho guadagnato i soldi per vivere bene. E’ per questi motivi che ho deciso di rilevare il debito dei genitori di Adro che non pagano la mensa scolastica. [Continua a leggere]

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Quanto PIL, lavoro, soldi sono legati al settore farmaceutico?

postato il 18 Febbraio 2010

Pills‘Riceviamo e pubblichiamo’ di Gaspare Compagno

Dopo le note vicende legate agli annunci della Glaxo  mi sono posto un quesito: ma quanto PIL, lavoro, soldi sono legati al settore farmaceutico e biomedicale in Italia?

La risposta è: tanto, tanto, tanto.

Una cosa assolutamente incredibile, di cui ignoravo l’ampiezza.

Se pensate che sto esagerando, ecco alcuni dati del 2008: in Italia abbiamo 250 aziende produttrici di prodotti farmaceutici finiti, a cui sommiamo 100 aziende che producono materie prime (sostanze farmaceutiche che necessitano di ulteriore lavorazione).

Molte di queste sono aziende piccole o medie, poi ci sono i colossi: la Glaxo; la Novartis che ha tre centri, quello direzionale e logistico a Caronno Pertusella (Lombardia), quello di ricerca sui vaccini a Siena e quello produttivo in Campania; Schering-Plough in Lombardia e così via.

Ognuna di queste aziende impiega direttamente, alcune migliaia di dipendenti: la Sanofi-Aventis ha 3400 dipendenti; Wyeth Laderle ne conta oltre 2000 e così via.

Si tratta non solo di dipendenti nel settore produzione e commercializzazione, ma molti di loro sono ricercatori: ad esempio il centro a Siena è  il polo mondiale della Novartis nella ricerca sui vaccini.

Ma queste aziende sono solo alcune, il 31,1% delle aziende farmaceutiche in Italia, sono a capitale italiano: la Sigma-Tau, Angelini, Menarini, Chiesi-Bracco, giusto per citare le più grosse; ad esempio la Menarini conta 12500 dipendenti, di cui 700 nella ricerca (e un fatturato nel 2007 di 2,5 miliardi di euro). E finora parliamo solo dei dipendenti diretti: se consideriamo anche l’indotto il numero sale enormemente.

Su un totale di 340 aziende coinvolte a vario titolo nel settore farmaceutico, 277 sono PMI, mentre le altre sono grandi aziende. Le PMI hanno complessivamente 20.120 dipendenti, e investono sempre più nella ricerca, unica strada per contrastare lo strapotere delle grosse multinazionali. 
A livello geografico i principali raggruppamenti coinvolgono mezza Italia: Lombardia, Veneto, Toscana, Emilia Romagna e Lazio. Addirittura la Lombardia conta 100 aziende e 32 centri di ricerca.

A proposito di ricerca: nel 2007 il 90% della ricerca farmaceutica italiana è  stata finanziata da privati con un investimento di circa 1 miliardo di euro, quindi a livello pubblico quello che si investe sono briciole (circa 200 milioni di euro), in un settore dove Cina, Singapore, Usa investono sempre di più.

Nel frattempo anche la Pfizer decide di chiudere il suo stabilimento a Nerviano (Lombardia), seguita dalla Merck Shampe & Dome che chiudono il loro centro a Pomezia.

Ma cosa pensa di fare il governo?

E qui veniamo alle note dolenti: nonostante le belle parole del Governo, si registra la totale assenza di una strategia nazionale per incoraggiare il settore e la ricerca farmaceutica , anzi negli ultimi anni si assiste ad una erosione dei margini di profittabilità per il privato, con il risultato che, prevedibilmente, un settore molto promettente per il futuro vedrà lo spostamento di investimenti produttivi verso altre nazioni, in particolare Cina, USA, India.  L’unica novità viene dal ministro Tremonti che ha promesso di introdurre una riforma fiscale premiante nei confronti della Ricerca , troppo poco, mi sembra, rispetto alle richieste avanzate dal presidente di farmindustria, Dompè.

E’ troppo poco se consideriamo che da tre anni si attende invano che il governo recepisca la direttiva europea in campo farmaceutico, rischiando, a causa del mancato recepimento, un richiamo e una sanzione da parte della UE. Ed è l’unico paese europeo a non avere ancora recepito la direttiva comunitaria: quale è la conseguenza? Che non vi è una esatta rispondenza tra legislazione italiana e certificazioni italiane e legislazione e certificazioni europee, con la conseguenza che, dovendo scegliere, le aziende preferiscono investire in Europa, che non Italia.

Ma il problema è ben più ampio e riguarda non solo il settore farmaceutico, ma anche altre strutture in altri settori: la Alcoa entro tre anni chiuderà le sue strutture, l’Italtel di Carini chiude, la Keller a Palermo chiude, la Wyeth a Catania chiude, l’ALcatel chiude a Battipaglia, il centro di ricerca di Cinisello Balsamo della Nokia chiuderà molto presto, come anche il centro di Parma della Nestlè.

E l’anno scorso hanno chiuso la Motorola a Torino e la Yamaha a Monza.

Non è  un fenomeno isolato, e non riguarda solo un settore, ma è un fenomeno che investe tutte le regioni italiane. Un fenomeno che non trova risposta dal governo, che pure professa ottimismo.

Eppure il governo ha una colpa gravissima: reagisce, ma dopo; prima non fa nulla, e si muove solo quando è troppo tardi.

E la chiusura di impianti non è dovuta solo al costo del lavoro, una scusa che non regge più in settori dove è sempre maggiore la presenza di macchinari, più che di lavoratori poco qualificati. Lo stesso settore tessile ormai è influenzato poco dal costo della mano d’opera.

Allora quale è il motivo? Manca una azione di governo che sia concreta. Non servono le trasferte faraoniche in terra straniera.

Quel che serve sono accordi semplici con i paesi per avere aree di libero scambio e canali agevolati nel commercio, e per attirare gli investimenti, si potrebbero usare i beni demaniali non usati, magari dandoli in usufrutto gratuito alle aziende che decidono di investire, in tal modo le aziende abbatterebbero i costi senza pesare sulle casse dello stato e andando incontro anche alle esigenze delle PMI che spesso hanno problemi per potere avere strutture a prezzi non eccessivi; un’altra diea per le PMI potrebbe essere, prestiti a tasso agevolato da parte delle banche, garantiti da beni dello stato. Sono solo tre idee, ma, nell’assenza di idee di questo governo, sono molte.

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Quel furbacchione del ministro Zaia

postato il 11 Febbraio 2010

Il grano (Album di Claudio Morlok)

‘Riceviamo e pubblichiamo’ di Antonio di Matteo

Ieri, 10 febbraio 2010, è stato votato dalla Camera dei Deputati, un emendamento al Disegno di legge “Disposizioni per il rafforzamento della competitività del settore agroalimentare” (redatto dall’on. Beccalossi Viviana e presentato dal ministro Zaia), del deputato e capogruppo dell’Udc in commissione Agricoltura della Camera, Giuseppe Ruvolo. L’esponente centrista, dopo la votazione a Montecitorio,  ha dichiarato, in una nota: “Esprimiamo soddisfazione per l’approvazione da parte della Camera del nostro emendamento che prevede lo stanziamento di 25 milioni di euro a favore dell’imprenditoria giovanile, in particolare femminile, nel settore agricolo”. Va aggiunto: “il fatto che il Governo, contrario alla nostra proposta, sia stato battuto in Aula spiega molto più di tante parole quanto all’Esecutivo interessi davvero il destino dell’agricoltura del nostro Paese e di chi vi opera”.

Risalta all’occhio l’ antimeridionalismo del Governo e, in particolar modo, del ministro per la Politiche Agricole, Luca Zaia. Si parla infatti di risorse, di provenienza europea, strappate alle imprese siciliane per distribuirle alle aziende padane.

A detta dell’on. Ruvolo: “Con l’attuazione del Regolamento comunitario 73/2009 gli agricoltori e gli allevatori siciliani si vedranno scippati di circa 40 milioni di euro a tutto vantaggio dei colleghi del Nord. Ormai è diventato quasi superfluo sottolineare come l’artefice di queste mosse furbacchione sia il ministro Zaia. Altro che solidarietà. Non è questo il metodo migliore per tutelare gli interessi di tutta l’agricoltura italiana. Casomai, lo è per quelli della Padania”.

Non è possibile continuare una compagna di spoliazione dell’agricoltura italiana e soprattutto di quella meridionale. È un continuo depauperamento finanziario messo in atto dall’azione incontrastata del Ministero della Politiche Agricole.

Si tratta di un incontrastato agire mai messo in discussione dei ministri e deputati, competenti e votati, del Meridione d’Italia. Oramai al ministro Zaia non basta più ignorare la perenne crisi strutturale che attanaglia il settore primario nazionale, ma prosegue in un’azione di sbarramento sul Po, di tutte le risorse comunitarie che discendono in Italia da Bruxelles.

Per fortuna uno spiraglio di luce, una volontà di ascolto e dedizione alla questione agricola, è stato dato ieri, grazie al voto della Camera del Deputati all’emendamento proposto dell’on. Giuseppe Ruvolo.

Bisogna infatti concentrare le poche risorse disponibili, per programmare un futuro coerente dell’intero settore agricolo italiano. È l’intero comparto ad essere in un profondo oblio di incertezza, di una perenne assenza di domanda dei prodotti agricoli da parte del mercato e dalla stretta finanziaria messa in atto dalle banche.

Si parte da un dato: il numero complessivo della aziende agricole cala complessivamente di 19 mila unità in tutta Italia in un solo anno, e sempre più velocemente anche a causa della crisi. Ciò vuol dire che ormai il settore primario deve essere rivisto in una riforma generale. Non è possibile che il Governo, ad ogni problema dell’Italia, si giri dall’altra parte per non vedere il disastro che viene creato da un vorticoso degrado strutturale. Si aspetta che passi la nottata.

Ottima exit strategy.

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Giovani per Pioltello a sostegno della famiglia

postato il 30 Gennaio 2010

Envelope, di Tim Morgan“Riceviamo e pubblichiamo
Ciao ragazzi. Prima di tutto penso sia giusto presentarci: noi siamo i Giovani per Pioltello, lista civica nata nel marzo 2006 a meno di 2 mesi dalle elezioni amministrative che si sarebbero svolte nel nostro comune.
Partendo da un gruppo di amici siamo riusciti ad allargare la proposta ad altri giovani, decisi a partecipare attivamente alla vita politica della nostra città. Sono cominciate riunioni, incontri, contatti. Abbiamo partecipato a dibattiti, ci siamo scontrati sulla scelta del nome della nostra lista, ma mai sulla collocazione: il centro era ed è rimasto il nostro habitat naturale. Fin dai primi banchetti ai quali ci siamo presentati con lo slogan SCEGLI IL FUTURO, abbiamo potuto constatare l’interesse delle persone, felici di vedere facce nuove, pulite, vogliose di darsi da fare per il futuro e per il bene comune. [Continua a leggere]

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