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Crisi: Dopo la Grecia anche l’Italia è condannata al default?

postato il 18 Giugno 2010

crisi greciadi Germano Milite.

Qualche giorno fa (era il 14 giugno) una notizia è comparsa su Reuters . La news economica, nonostante la sua potenziale enorme importanza, non è però stata inserita tra le prime pagine e, cosa ancor più inusuale, è stata data in maniera “secca” e, cioè, senza alcuna spiegazione tecnica o alcun commento specifico relativo al fatto accaduto. Di seguito, per permettere ai nostri lettori di farsi un’idea precisa, riportiamo in maniera integrale il lancio di Reuters.

Titolo: Italia, specialisti disertano riapertura Btp in asta venerdì

“È andata deserta la riapertura odierna dei titoli del Tesoro italiano in asta venerdì scorso. Nessuno dei primary dealer ha avanzato offerte, lasciando l’ammontare complessivo invariato alla cifra di 7,001 miliardi collocata venerdì.

Il Tesoro aveva messo a disposizione l’importo supplementare di 1 miliardo di euro per il Btp giugno 2015, di 174 milioni per il Btp febbraio 2017 e di 126 milioni per il Btp febbraio 2037”

crisi italiaLa notizia, data in questo modo, può lasciare spazio ad un numero corposo di illazioni e considerazioni anche catastrofiste. Di primo acchito, difatti, si potrebbero valutare i dati riferiti in maniera molto negativa ed allarmante, traducendo e sintetizzando la mancata vendita dei Btp con un futuro default già previsto per l‘Italia dopo la debacle della Grecia e gli imminenti crolli preventivati per Spagna e Portogallo. I grossi investitori, infatti, evitano di acquistare i Btp (titoli di stato) qualora vengano proposti da economie nazionali reputate a rischio o comunque poco affidabili. Vendere pochi Btp è un dato, non venderne nemmeno uno può essere considerato particolarmente significativo. Ciò che colpisce, comunque, è il fatto che nell’articolo non ci sia alcun riferimento al rendimento effettivo di tali titoli (è anche in riferimento a quel dato, e cioè a quanto frutteranno in futuro, che i Btp risultano più o meno appetibili). Onde evitare mistificazioni ed avventate conclusioni allarmiste, ci siamo affidati al parere di due esperti del settore. Il primo è Luigi Cobianchi, consigliere d’amministrazione dell’immobiliare del gruppo Bancario Banca di Credito Popolare.

Come valuta la notizia diffusa da Reuters?

“Beh di sicuro non positivamente ma attenzione: i rating sono spesso manovrati dai grandi potentati economici che agiscono da speculatori senza scrupoli e, per tale motivo, spesso non dicono il vero riguardo l‘effettiva affidabilità del sistema economico e finanziario di uno Stato… In ogni caso sono evidenti e difficilmente confutabili i segnali di sfiducia che colpiscono tutte le nazioni che fanno parte dell’eurozona ed in particolare il nostro paese”

Colpa della crisi, ovviamente?

“Certo e poi teniamo a mente una cosa fondamentale: si è passati dal sospetto alla bancarotta vera e propria che, per anni, è stata solo faticosamente rimandata e nascosta con manovre di bilancio abilmente ritoccate per far apparire sane le casse dello stato che in realtà erano dissestate”.

Ad esempio?

“Ad esempio basta considerare la Grecia: da tempo, ad Atene, dichiaravano dati di bilancio fuorvianti (con manovre al limite del lecito per nascondere le difficoltà enormi che devastavano l‘economia ellenica). I risultati li abbiamo visti tutti direi”.

titoli di statoMa quindi perché quell’asta dei Btp italiani è andata deserta?

“Prima di tutto occorrerebbe sapere che rendimento avevano questi Btp specifici per poter valutare al meglio il loro scarso appeal nei confronti degli investitori. I titoli di stato, come noto, sono comunque sempre poco fruttuosi poiché, al contempo e come contropartita, godono di una certezza d’incasso piuttosto solida. Di conseguenza il concetto è relativamente semplice: se il titolo di stato non si vende è per colpa del debito pubblico che ha accumulato chi lo ha messo sul mercato nazionale ed internazionale e che, di conseguenza, priva il Btp della propria caratteristica intrinseca e cioè di un rendimento tendenzialmente basso ma certo”.

Cosa ha salvato l’Italia dal tracollo e cosa potrebbe procurare il default anche qui?

“Alla prima domanda rispondo senza esitazioni: ci ha salvati una politica economica e finanziaria diversa da quella americana e, cioè, basata su beni materiali tangibili e non su forsennate speculazioni inerenti al settore terziario e dei servizi e basate, quindi, sul nulla o comunque sul molto incerto. Ci hanno salvato, poi, il cosiddetto “mattone” e l’industria pesante. Il punto – e con questo rispondo al secondo quesito – è che però oggi il primo settore – quello immobiliare – è del tutto impazzito ed è gestito in prevalenza da costruttori miopi che esigono fitti altissimi anche per delle cantine. Oggi quasi nessuno può permettersi un appartamento dignitosamente grande proprio perché, chi li vende, richiede cifre assolutamente scriteriate che porteranno in breve ad un collasso dell’intero sistema. Riguardo l’industria pesante che dire: stanno smantellando pian piano tutto ciò che di buono era stato creato e basta guardare a Pomigliano e a Termini Imerese – giusto per fare qualche esempio – per comprendere il suicidio al quale stiamo andando incontro”.

Dunque è finita? Dobbiamo prepararci al peggio

“L’Italia è piena di catastrofisti e di ottimisti in malafede. Io dico che la crisi è tutt’altro che ridotta e che, anzi, tende a raggiungere nei prossimi mesi dimensioni preoccupanti. Ciò perché non investiamo sulle eccellenze ma anzi le umiliamo. Negli ultimi 10 anni le maestranze italiane hanno perso know how in maniera spaventosa e questo ha favorito la manodopera straniera…se non si pone un argine allo smantellamento di ciò che ci ha salvato – non lasciandosi sedurre troppo da investimenti enormi nel settore terziario e dei servizi- e non si pone un freno alla speculazione selvaggia cui siamo vittime, non prevedo un futuro roseo. Quasi dimenticavo, prima, di citare le grandiose famiglie italiane che, grazie al loro risparmio accumulato con tanti sacrifici, sono tra gli elementi salva bilancio pubblico fondamentali della penisola. Tremonti dovrebbe pensare piuttosto a combattere il credito al consumo che è una piaga vera e propria e che sta distruggendo noi dopo aver distrutto gli Stati Uniti. Occorrerebbe, allo stesso tempo, un percorso di educazione alla moderazione da fare ai più piccoli e ai giovani in genere; per far intendere loro che il consumismo sfrenato ci ucciderà e che, se guadagni 10, non può spendere 20 e vivere di debiti e “comode rate da pagare“ a mo di vitalizio debitorio…”.

Concludendo?

“C’è bisogno per rilanciare l’economia attraverso una seria e concreta campagna di investimenti verso le parti di questo paese che hanno maggior bisogno di rilancio…tra queste ricordo proprio il meridione. A tal proposito mi sia consentito uno sfogo: per i 150 anni dell’Unità d’Italia non ho nulla da festeggiare date le ruberie generalizzate che la mia terra ha subito e continua a subire ancora oggi. In ultimo, e qui rischio di diventare ripetitivo, occorre smettere di dire che si vuole investire in ricerca ed università e cominciare a farlo sul serio visto che, da decenni, ogni governo non ha fatto altro che togliere risorse a questi due settori vitali per lo sviluppo dello stato”.

Il secondo esperto di settore che abbiamo voluto ascoltare è il professor Antonio Coviello , docente alla Sun (Seconda Università di Napoli) ed economista del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR).

Professer Coviello come commenta i dati riportati da Reuters? C’è da preoccuparsi per un imminente default della nostra economia?

“Beh io eviterei a tal proposito allarmismi ingiustificati e vi spiego perché: prima di tutto è anche comprensibile che, gli investitori, in questo periodo di odissee economico-finaziarie, siano più prudenti alla luce dei gravi giudizi negativi e dell’abbassamento improvviso dei Rating di Spagna e Portogallo. E’ innegabile, infatti, che si sia verificata una contrazione generalizzata degli investimenti e che, soprattutto in Italia, esista la consapevolezza di avere il debito pubblico più pesante tra i paese dell‘eurozona”.

debitoCome ha reagito l’Italia alla crisi globale?

“Il nostro paese è caratterizzato da una forte cultura del risparmio a differenza degli Stati Uniti (dove le famiglie medie sono molto più indebitate rispetto alle nostre) e questo, sicuramente, ci ha aiutati ad ammortizzare meglio di molti altri il duro scossone partito dall‘America. In Italia esiste poi una forte rete di piccole e medie imprese – oltre il 90% della forza lavoro proviene dalle piccole e medie imprese – caratterizzate spesso da una conduzione familiare responsabile di una gestione oculata e parca degli investimenti. L’unico problema resta quello del debito pubblico che non riguarda solo il governo nazionale ma anche quelli regionali e locali ed è proprio a livello locale, a mio avviso, che si dovrebbe agire con maggior celerità ed efficacia nei prossimi mesi”.

Quindi come descrive la situazione economico-finanziaria dell’Italia di oggi?

 “Sicuramente non delle migliori; anzi è la più difficile e grave dell’ultimo decennio ma ribadisco una solidità riscontrata nella cultura del risparmio di chi in questo paese ci vive. Sempre che si tenga presente, ovviamente, l’enorme debito pubblico che ci affligge e si proponga un programma di contenimento della spesa soprattutto in ambito locale”.

Fonte: Julienews.it

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Belgio: il laboratorio d’Europa ha fallito

postato il 17 Giugno 2010

cartina_belgio

di Daniele Coloca

La costruzione di confini pare accompagnare l’intera storia umana. E’ ormai assodato, come riportato in altri articoli, che alla base delle distinzioni più generali che le società sono capaci di instaurare, per esempio quelli tra “noi” e “loro” vi sia una continua opera di “costruzione di confini”. Queste distinzioni sono sempre ottenute mediante l’enunciazione di discorsi che hanno lo scopo di produrre delle specificità, a cui ricondurre la propria identità definita in contrapposizione ad altre.

Nel mondo odierno l’identità è divenuta problematica, di fronte alla crisi dei governi ed all’attuale crisi economica, la de-nazionalizzazione spinta dalla globalizzazione, innesca reazioni di rigetto da parte di gruppi che nei nuovi scenari vedono una minaccia alle autonomie locali, la gente sente i nuovi centri decisionali come qualcosa di lontano , irraggiungibile , incontrollabile e li guarda con sospetto. A questo punto lo scenario diventa inquietante.

Il paesaggio sociale europeo e  mondiale, sembra oggi, essere cambiato irreversibilmente, infatti è ormai sempre più frequentemente evidenziata la difficoltà di assicurare una forza vincolante che mantenga unito l’ordinamento politico. Dai Balcani alla Palestina, dal terrorismo islamico all’esplosione in India del fondamentalismo indù, per arrivare al conflitto tra fiamminghi e valloni in Belgio, evidenziato nelle recenti elezioni del 13 Giugno, su cui ci vogliamo soffermare.

Il Belgio è uno Stato federale suddiviso in tre regioni: le Fiandre nederlandofone a nord, la Vallonia francofona a sud e Bruxelles, capitale bilingue in cui sia il francese che il fiammingo sono lingue ufficiali, comunità, che vivendo ormai in maniera indipendente l’una dall’altra, hanno progressivamente smarrito il sentimento nazionale che le aveva portate a formare uno Stato unitario.

Nel corso degli anni Settanta e Ottanta, l’economia vallone, fondata su produzioni che entravano in crisi come l’acciaio e il  carbone, ha perso sempre più colpi a fronte di uno sviluppo fiammingo che perdeva i suoi tratti rurali e diveniva assai più attento alle innovazioni e all’export. Sempre più gli abitanti del nord sentivano quelli del sud come una palla al piede e sempre meno ne tolleravano le residue pretese, come quella di mantenere il bilinguismo, per chi lo volesse, in nome di un elementare diritto civile.

La tensione ha portato a una serie di arruffati aggiustamenti fino alla riforma del 1993, la quale in nome del federalismo ha creato un complicatissimo edificio istituzionale che nel giro di qualche anno avrebbe generato una quantità impressionante di conflitti nei quali la destra fiamminga riversava tutto il risentimento accumulato contro i «parassiti» valloni. La tensione tra la Fiandra fiamminga e la Vallonia francofona è dovuta soprattutto al fatto che la Vallonia ha grandi difficoltà, a causa della disoccupazione e della dipendenza dall’assistenza sociale. I movimenti separatisti fiamminghi vogliono dividere il paese per evitare che le Fiandre paghino per il Sud. Si pensi che il motivo del fallimento del governo di Yves Leterne, che ha portato alle elezioni di domenica, è dovuto ai contrasti all’interno della maggioranza, nati per le divergenze linguistiche tra fiamminghi e francofoni.

Il trionfo alle elezioni del 13 giugno, degli scissionisti fiamminghi del N-Va ha scosso il Belgio e l’Europa intera. È vero che la cosa era nell’aria da tempo, visto che nel paese della birra e delle patatine fritte da molto tempo spira un’aria nordista non dissimile da quella che ha fatto le fortune della Lega da noi, ma ora i timori di molti sono divenuti realtà.

Sono evidenti le analogie con quanto sta accadendo in Italia. Il Nord che si sente «schiavo» delle arretratezze del Sud, la Lega Nord che cavalca la stessa tigre demagogica dell’identità da affermare contro gli “altri”. Nell’attuale crisi politica e sociale, il Sud dell’Italia come nel Belgio, rischia di essere “tagliato fuori” dalla ridistribuzione delle risorse, e ridotto ad un “collettore di voti per disegni politici ed economici estranei al suo sviluppo.

Le «genti del Sud», siano «le protagoniste del proprio riscatto, ma questo non dispensa dal dovere della solidarietà l’intera nazione”. La prospettiva di riarticolare l’assetto del Paese in senso federale costituirebbe una sconfitta per tutti, se il federalismo “accentuasse” la distanza tra le diverse parti di una nazione. Potrebbe invece rappresentare un passo verso una democrazia sostanziale, se riuscisse a contemperare il riconoscimento al merito di chi opera con dedizione e correttezza all’interno di un “gioco di squadra”.

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Fiat, sindacati, Pomigliano: un punto di svolta?

postato il 16 Giugno 2010

panda_fabbrica

di Gaspare Compagno

In questi giorni stiamo arrivando alle battute finali della trattativa tra Fiat e i Sindacati relativamente al futuro industriale dell’impianto sito a Pomigliano d’Arco. Dopo l’incontro di venerdi scorso, quasi tutti i sindacati hanno concluso l’accordo con la Fiat, solo la Fiom è apertamente contraria mentre la Cgil sembra nicchiare: la soluzione è stata quella di indire un referendum e lasciare che siano i lavoratori dello stabilimento a decidere. Per comprendere bene l’importanza di questa trattativa dobbiamo considerare che questo sito industriale dà lavoro direttamente a 5000 persone, senza contare l’indotto che conta almeno altre 10.000 persone, e per poterlo rendere competitivo, la Fiat intenderebbe investirci 700 milioni di euro. I sindacati è giusto che facciano il loro lavoro, ovvero tutelare i lavoratori, ma devono anche rendersi conto del mutato rapporto mondiale e che il mercato è molto più competitivo di prima. A livello globale, l’Italia non è più il primo mercato per la Fiat, che vende molte più auto in Brasile (oltretutto un paese con tassi di crescita enormi) e presto si apriranno i mercati americani, dove la Chrysler grazie alla cura di Marchionne sta rinascendo, tanto che i sindacati americani pubblicamente hanno solo parole di elogio per il manager italiano. I concorrenti lavorano con tassi di produttività molto superiori allo stabilimento di Pomigliano (ma inferiori ad altri stabilimenti Fiat come quello in Polonia, in Serbia o a Melfi in Italia) e con costi molto inferiori. Le stesse competenze, se prima erano specifiche di poche nazioni, ora sono facilmente replicabili ovunque, e il rischio concreto è che questi 700 milioni di Fiat e questi posti di lavoro vengano spostati all’estero, come stanno facendo molte altre aziende (ad esempio la Glaxo o la Bialetti giusto per citarne un paio, ma potrei ricordarne tante altre). Di questo se ne sono resi conto gli altri sindacati che hanno accolto positivamente la volontà di Fiat di investire, e anche i politici si accodano a questa decisione. Infatti se Casini afferma che è assurdo non firmare esponendosi in prima persona, anche gli altri politici seguono la stessa opinione del leader centrista affermando come fanno Sacconi, Bersani e altri che è necessario firmare questo accordo. Quel che più preoccupa è il suicidio, a mio avviso, annunciato da Cremaschi della FIOM, che afferma che il suo sindacato non firmerà l’accordo anche se i lavoratori, con il referendum sopradetto, si esprimeranno a favore dell’accordo con Fiat. E questo mi preoccupa perchè mostra un sindacato che preferisce fare politica, tradendo la sua vocazione, il suo scopo e soprattutto il mandato di chi lo compone, ovvero essere portavoce della volontà dei lavoratori. Soprattutto è preoccupante che un sindacato dica espressamente di volere ignorare la volontà dei suoi aderenti, creando quindi una frattura tra la base e i vertici che assurgono a dei dittatorelli da repubblica delle banane.

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Intercettazioni: I understand HOW, I don’t understand WHY

postato il 15 Giugno 2010

intercettazionidi Giuseppe Portonera

1984 di George Orwell è un libro che andrebbe letto e riletto, più di una volta nella propria vita. Quando fu scritto, il mondo usciva dalla seconda guerra mondiale e la paura dell’avanzata di nuove dittature social-comuniste o nazi-fasciste era fortissimo. Da allora sono trascorsi 62 anni, eppure oggi ho ripreso in mano quel libro e vi ho ritrovato un atmosfera che mi ha ricordato molto quella di questi giorni. Ricordate, per esempio, la «neolingua», parole manipolate per soddisfare le «necessità ideologiche» del regime, per «rendere impossibili altre forme di pensiero»? Ecco, fate un piccolo sforzo. Siete sicuri che non vi ricordi nulla? Se proprio non vi dovesse venire nulla in mente, provate a leggere il testo del Disegno di Legge “Norme in materia di intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali”, meglio conosciuto come legge-bavaglio. Ve lo consiglio, ci troverete molti spunti di riflessione.

Nel mio precedente post, scrivevo del “senso di vuoto” che mi aveva preso guardando la prima pagina bianca di Repubblica: quale altro impatto potrebbe avere un DDL tale su un ragazzo di sedici anni, che fa politica per passione e che vorrebbe lottare ogni giorno perché l’Italia in cui vivrà da grande sia migliore di quella di oggi? Quale altra reazione si potrebbe avere di fronte alla consapevolezza che questa è un’altra di quelle leggi che poi costringono i più a dire “la politica fa schifo”? Come potrò io, poi, guardare i miei amici che si sono avvicinati per la prima volta al mondo della politica, e convincerli che si può ancora farla, pur restando puliti? Come potrò, se io stesso stento a fidarmi? Piero Calamandrei diceva che “dove non c’è libertà, non può esserci legalità”. Come dargli torto? Senza le intercettazioni (e senza, soprattutto, la loro pubblicazione) non saremmo venuti a conoscenza, ad esempio, del caso del senatore Nicola Di Girolamo, “o schiavo” di Gennaro Mokbel, ed è inutile ricordare che il ministro Scajola si è dimesso solo a seguito dell’onda di indignazione popolare seguita allo scoppio dello scandalo Cricca. Secondo molti poi questa legge tutelerà il diritto alla privacy di tutti noi. Ma cos’è la privacy? Giuridicamente vuol dire rispetto della propria vita privata. E politicamente? Facciamo due semplici esempi. Se io, Giuseppe Portonera, studente, dico a mia madre che per cena voglio un panino al salame e non al prosciutto o se confesso di essermi innamorato, voglio che questo resti privato. Tra me, semplice cittadino, e il mio interlocutore, stop. Ma se per caso (per assurdo) io non fossi più io, ma un onorevole deputato della Repubblica e dovessi essere intercettato mentre discorro amichevolmente con un noto boss locale o mentre stipulo alleanze e contratti assai torbidi con importanti pezzi del mondo affaristico, quella discussione non può più restare privata. Perché io non sono deputato al Parlamento per rappresentare me stesso e i miei intrallazzi, ma perché rappresento gli interessi della mia gente. Non appena instauro questo rapporto intersoggettivo tra me e i miei elettori, allora non posso avere più segreti: deve essere un mio irrinunciabile compito garantire la massima trasparenza del mio modo di agire. A quel punto, di cosa dovrei aver timore?

È poi opinione comune che una parte del mondo giudiziario si diverta a scatenarsi contro l’attuale governo: è il famigerato partito “delle toghe rosse”. Ammettiamo che sia vero, le parole del presidente Casini servono a schiarire un po’ la situazione: “se è vero che una parte della magistratura è militante, è anche vero che non si può licenziare un testo che penalizza l’intero corpo della magistratura e abbassa il tasso di legalità” ha detto ad Alessandra Longo, nell’intervista su Repubblica di oggi (mi sbaglierò, ma qui sento odore di rivalsa lontano un miglio…). Dice un’altra cosa interessante, Casini: “io voglio cercare di incidere fino all’ultimo minuto sul processo legislativo. Il ruolo dell’opposizione non è occupare l’aula o uscire dall’aula. Così si fa un favore grandissimo alla maggioranza. Alla fine si rischia che questi mettano la fiducia e la legge resti così”. Saggio da parte sua: la spettacolarizzazione del dissenso, con l’occupazione o l’abbandono dell’aula, è da tragedia greca. Molto meglio, invece, rivalorizzare il ruolo che la Camera e le opposizioni parlamentari hanno sempre avuto: correggere storture e abusi da parte di chi governa. Montecitorio non è mica un ufficio timbri! È indispensabile far convergere le opposizioni intorno a un unico fronte, pur segnato ammettendo differenze e distinguo, per correggere almeno i tre grandi abomini di questa legge: l’assurda faccenda dei 75 giorni di intercettazioni rinnovabili, evidente violazione del concetto di libertà; le multe agli editori, che comporteranno inevitabilmente uno squilibrio tra i poteri della proprietà e il principio dell’autonomia dei giornalisti; l’esclusione dalle deroghe di reati gravissimi quali il riciclaggio e l’estorsione.

Per evitare di finire come Winston Smith, il protagonista di 1984, che scriveva sulle pagine del proprio diario: “I understand HOW, I don’t understand WHY”, capisco come, ma non capisco perché.

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Siamo italiani

postato il 12 Giugno 2010

figcdi Maurizio Isma

«Noi uniamo, non dividiamo. Mi auguro solo che tutti tifino per l’Italia, un Paese che vive per il calcio» questo ha affermato Fabio Cannavaro, capitano della nostra nazionale in Sud Africa, alla conferenza stampa a Casa Azzurri.

Parole che dovrebbero essere ovvie, che nessuno probabilmente si sarebbe aspettato di sentire ma in Italia siamo abituati ad avere esponenti politici, che anche dopo aver giurato sulla Costituzione, sparano a zero sull’unità nazionale, sulla bandiera, sulla stessa Costituzione o sulle alte cariche dello Stato.

Cannavaro ha poi affermato a sorpresa che, dopo averne parlato con i compagni, è stato deciso che una parte degli eventuali premi dovuti per i risultati raggiunti nel mondiale saranno devoluti alla fondazione per i 150 anni dell’Unità d’Italia.

Affermazioni queste che anche se indirettamente sono una risposta alle affermazioni degli scorsi giorni del Ministro Calderoli, il quale aveva proposto una riduzione degli ingaggi dei giocatori di calcio.
In certe occasioni dovremmo abbandonare un po’ la politica, i partiti e pensare di più al nostro Stato come una squadra, in cui noi siamo gli atleti, ognuno deve fare la sua parte, ma bisogna far gruppo, invece di litigare. In questi giorni, la maggior parte di noi ha nel cuore la propria nazionale, si riesce a superare il distacco psicologico che c’è fra nord e sud, fra un paese e l’altro, ci sentiamo tutti italiani ed andiamo fieri di ciò.

Fa molto piacere sapere che l’intera nazionale di calcio italiana, il cui sport è spesso messo in discussione per eventi negativi, dal doping alla violenza negli stadi, abbia trovato un valore comune nel tricolore ed abbia deciso di sensibilizzare i propri tifosi facendo loro notare quanto sia importante per loro l’unità del nostro paese.

Lo sport è la palestra della vita si dice ed aver un buon esempio nello sport, soprattutto in Italia dove il calcio è di gran lunga lo sport più seguito, è una cosa importante soprattutto per i giovani, sempre molto attenti alle parole dei propri idoli.

È giusto però che debbano essere dei calciatori a far notare l’importanza dell’unità del nostro paese anche a chi, per primo, dovrebbe perseguire tale scopo?

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Il credito tradito: storie di truffe a danno di artigiani e famiglie

postato il 12 Giugno 2010

finanziamenti1 di Gaspare Compagno

Il credito è un elemento vitale sia per le famiglie, ma anche per le aziende piccole e grandi.
Proprio per questo il settore creditizio deve, più di tanti altri, essere responsabile e regolamentato.
Ovviamente la regolamentazione non deve essere “eccessiva” o si rischia di ingessare il settore provocando una mancanza di liquidità gravissima per l’economia; d’altro canto non si può neanche tollerare una regolamentazione nulla, altrimenti si moltiplica il rischio delle truffe.
Questa situazione porta ad impattare fortemente non solo sulle famiglie, ma anche sugli artigiani e le piccole imprese che costituiscono il 95% del tessuto produttivo italiano, proprio quel “popolo delle partite iva” che a parole sono fortemente difesi dal centrodestra, ma che poi, nei fatti, sono lasciati a loro stessi a causa di palesi vuoti normativi che il governo non sembra volere colmare.
Per potere sopravvivere, questo immenso popolo produttivo ha bisogno di potere fare affidamento sul mercato del credito e su un impianto legislativo che sia semplice, chiaro e funzionale.
A queste necessità bisogna aggiungere anche le famiglie che hanno bisogno di potere accedere al credito in maniera semplice, efficiente, a costi contenuti e con regole chiare.
Ignorare queste necessità sacrosante, significa condannare a morte certa gli artigiani, le piccole imprese e le famiglie che compongono il tessuto sociale e produttivo dell’Italia e dare spazio ai truffatori e agli usurai.

E se per il sud si parla di emergenza usura, anche il Nord non sta meglio, anzi molto più spesso si sentono di problemi legati alle famiglie e alle piccolissime imprese artigiane del Nord che sono vittime di truffe. Quale è una delle cause più comuni? La mancanza di regole per il settore della riscossione dei crediti.
Il rischio connaturato alle imprese e agli artigiani è l’insolvenza del debitore, in questo caso quali sono le strade che possono essere perseguite?
Se la situazione non si sblocca, parte l’azione legale e il pignoramento.
Ovviamente tutto ciò si scontra con i ritardi della giustizia italiana e con una logica di base: banche e finanziarie non scatenano guerre legali per crediti di poche migliaia di euro, preferendo agire velocemente e in via stragiudiziale, incaricando del recupero società esterne specializzate (609 in Italia di cui 152 iscritte a Unirec), che attuano una politica di stressare i tempi, in quanto più il debito è fresco, più alte sono le probabilità di recupero. E qui arriviamo ad una debolezza sistemica che mi lascia molto perplesso. Le aziende di recupero credito, operano in un ambito scarsamente regolamentato, o per meglio dire, in un ambito dove le regole pur essendoci sono confuse, si prestano a molteplici interpretazioni e spesso vengono disattese grazie ai ritardi della giustizia italiana di cui sopra. In pratica, lo scopo di queste aziende è quello di recuperare i crediti vantati dai clienti, molto spesso piccole aziende e artigiani.

Cosa succede quindi?
Semplice, che abbiamo aziende di recupero crediti che possono avere una ragione sociale “confusa”: possono associare all’attività di recupero crediti qualsiasi altra attività che ha una minima attinenza, anche se questa è molto labile. Molte aziende di recupero credito, infatti, si intestano pure una attività investigativa, di bonifica ambientale da spie e microspie, di indagini di marketing e così via.
Inoltre un altro punto debole della struttura del recupero crediti è data dalla mancanza di una uniformità di contratti: molto spesso le piccole società di recupero crediti pongono delle clausole vessatorie, non è infrequente infatti il caso in cui si riservano di pagare al cliente molto dopo che hanno recuperato il credito.
Questo chiaramente non aiuta chi si trova ad operare stabilmente con queste società e che si trovano a subire dei soprusi quando chiedono di rientrare in possesso dei propri crediti, anche per la lentezza della giustizia italiana. Siccome molte piccole aziende si rivolgono a queste società di recupero credito, diventa vitale per l’economia che si intervenga per regolamentare il settore.
Infatti, sempre più spesso accade che le aziende di recupero crediti, quando riescono a recuperare grosse cifre per conto di artigiani e di piccole imprese, tardino poi a girare le somme ai legittimi proprietari, mettendo in crisi gli artigiani e i piccolissimi imprenditori che devono fronteggiare con i loro risparmi o, peggio ancora, contraendo debiti in attesa di potere rientrare delle somme che spettano loro. Quale è il risultato? Che le aziende di recupero credito lucrano interessi e spesso tentano il colpaccio, trattenere più di quanto è loro dovuto, mentre quel famoso 95% di tessuto produttivo italiano, ovvero piccolissime aziende e artigiani, devono sottostare a dei diktat mafiosi, devono indebitarsi, e spesso devono chiudere la loro attività, generando ulteriore sfiducia e disoccupazione nelle famiglie. Ma quel che è peggio di tutta questa situazione è che non sembra che l’attuale governo voglia fare qualcosa, condannando di fatto al fallimento tutta la struttura sociale e produttiva italiana. Parliamo di milioni di artigiani, milioni di famiglie, milioni di persone oneste che con il loro lavoro sostengono l’economia italiana.

Quali possono essere le soluzioni? Intanto istituire dei fondi di garanzia e delle assicurazioni pagate dalle stesse società di recupero crediti e che tutelano i loro clienti; poi stabilire dei percorsi accelerati in sede di giudizio, anche tramite arbitrati, per attivare la restituzione delle somme da parte delle società di recupero credito, restituzione che deve potere avvenire anche coattivamente.
Infine, uniformare i contratti e stabilire quali sono le clausole ingiuste e i tempi minimi e massimi di pagamento una volta che la società di recupero è entrata in possesso delle somme da recuperare.
Dobbiamo fare pressione perché troppe piccole aziende, troppo famiglie, troppi artigiani stanno subendo soprusi a causa della inerzia del legislatore che non interviene in questo settore così importante.

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In pensione più tardi ma con la possibilità di essere buone madri

postato il 6 Giugno 2010

madre_lavoratrice di Adriano Frinchi

Nel dibattito sull’innalzamento dell’età pensionabile delle donne sono sicuramente di rilievo le proposte dell’Udc che per bocca di Casini e Buttiglione si è dichiarata a favore dell’equiparazione dell’età pensionabile di uomini e donne, come chiesto dall’Unione europea, ma contemporaneamente ha posto il problema importante della tutela del lavoro familiare della donna, soprattutto in quanto madre.
Nello specifico l’Udc pur riconoscendo necessario e giusto l’adeguamento chiesto dall’Europa ha però proposto di concedere alle donne due anni di permesso con contribuzione figurativa per ogni figlio, da utilizzare quando la donna ritenga più opportuno, alla fine della carriera o in un momento importante della vita familiare.
La posizione dell’Udc è assolutamente interessante perché va a toccare un problema che a suo tempo evidenziò molto bene la storica Lucetta Scaraffia: le donne che lavorano “hanno conquistato la possibilità di fare tutto quello che fanno gli uomini, ma hanno perso il diritto di vedere valorizzata e protetta la maternità “. L’età pensionabile più bassa non risolveva questo problema perché di fatto più che agevolare le madri, agevolava le nonne che avevano tempo per occuparsi di tante cose, magari anche dei nipotini, ma non certo dei figli che ormai erano ampiamente autonomi e non più bisognosi di amorevoli cure.
Ecco che la proposta dell’Udc si configura come un reale aiuto alle donne che insieme alla dignità di lavoratrici vogliono salvaguardare anche la loro dignità di madri, infatti verrebbe data la possibilità alle lavoratrici che vanno in pensione a 65 anni di usufruire di una specie di congedo familiare, da uno a tre anni. La lavoratrice a questo punto potrebbe autonomamente decidere il momento più opportuno della sua vita lavorativa per avvalersi di questo diritto: nel corso della vita lavorativa, potendo così dedicarsi serenamente ai primi e fondamentali anni di vita della prole oppure alla fine di questa in una sorta di meritato riposo dalle fatiche del doppio ruolo di mamma e di lavoratrice.
La materia è sicuramente complessa e una riforma efficace merita un’analisi attenta dei tanti fattori che entrano in gioco, tuttavia sembra importante sottolineare il principio della tutela della donna non solo nel ruolo di lavoratrice ma anche nel suo preziosissimo compito di madre. A tal proposito vale la pena di ricordare le parole di John Bowlby, psicanalista britannico padre della teoria dell’attaccamento: “Le forze dell’uomo e della donna impegnate nella produzione dei beni materiali contano come attivo in tutti i nostri indici economici. Le forze dell’uomo e della donna dedicate alla produzione, nella propria casa, di bimbi sani, felici e fiduciosi in se stessi non contano. Abbiamo creato un mondo a rovescio”.

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Su internet nessun bavaglio

postato il 29 Maggio 2010

Estremo centro Basilicata Vi proponiamo di seguito una riflessione sulla libertà di parola in rete.

di Marta Romano
Nei giorni scorsi è apparsa in numerosi blog e giornali, la notizia che, con l’emendamento D’Alia, si porrà un bavaglio al web, limitando così la libertà di parola in internet. Il capogruppo dell’Udc al Senato ha risposto alle accuse con un video, nel quale spiega la sua posizione e rettifica le notizie date in modo improprio da numerosi siti.

Ma mettendo da parte la cronaca dei fatti, mi soffermerei a fare una riflessione su internet e sulla libertà ad esso collegata.

Premetto: il mio non è un articolo scritto per tessere lodi a qualsivoglia partito, non è mia abitudine autocompiacermi delle cose, lo trovo anzi inutile.

Il mio è un articolo di dimostrazione seria dei fatti, di testimonianza, non di difesa, non sono un avvocato. Un articolo nel quale sento quasi il dovere di esprimere ciò che penso nei riguardi di questo argomento, essendo io direttamente interessata, in qualità di blog-writer.

Vi confesso che, leggendo su vari blog articoli di persone che accusano l’Udc di voler imbavagliare internet, mi è scappato un sorriso. Forse chi ha scritto queste cose non sa quanto questo partito stia lottando per un’informazione in rete che sia più libera possibile e che permetta a noi, semplici cittadini di periferia, di parlare di qualcosa che le tv e i giornali ignorano.

Ecco perché è nata l’esperienza dei blog di Estremo Centro e dei volontari web, di noi ragazzi che da ogni parte d’Italia, attraverso un mezzo libero come il blog, cerchiamo di portare sotto gli occhi di tutti problemi che riguardano i cittadini.

Problemi e questioni che interessano la gente comune, quelle persone che fanno poca “notizia”, ma che sono i veri protagonisti del Paese Italia. E allora, dov’è il bavaglio?

La nostra libertà sta in questo: nello scoperchiare pentole, troppo a lungo chiuse a pressione.

E il nostro obiettivo non è quello di fare pubblicità, ma di gridare, in un Paese in cui domina un assordante silenzio dell’informazione pubblica.

Noi odiamo i bavagli: sono troppo stretti, e poi, diciamocelo, con il caldo di oggi, sopportarli diventerebbe davvero difficile.

Commenti disabilitati su Su internet nessun bavaglio

Criteri originali di abolizione delle province

postato il 27 Maggio 2010

Italia“Riceviamo e pubblichiamo”, di Andrea Ugolini
Dopo due anni di orecchie da mercante il governo “Tremonti” si è ricordato che nel programma vi era la promessa di eliminare le province inutili, il numero 110 è enorme ed ingiustificato.
Oggi avendo riscoperto la crisi, ormai le elezioni si sono fatte e la propaganda è terminata, scopro con iniziale piacere dell’abolizione di 9 province.
Tra me e me ho pensato “un debole inizio ma pur sempre un inizio incoraggiante”. [Continua a leggere]

12 Commenti

La crisi? C’è, non c’è…. purtroppo non sparisce a comando…

postato il 25 Maggio 2010

crisi-economica1 ‘Riceviamo e pubblichiamo’ di Gaspare Compagno

In questi giorni, dando la colpa ai “brutti e cattivi speculatori”, si è gettata la maschera e il governo ha ammesso una cosa che tutti gli italiani sapevano: la crisi c’è ed è brutta. Non basta dichiarare che non ci sia, per farla sparire. Non è un gioco di prestigio.
E quindi Tremonti dichiara che farà una manovra correttiva.
Al di là di tutti i discorsi su chi verrà colpito dalla manovra, ricordiamoci che in questi casi, si parla sempre di colpire gli evasori, ma poi a pagare sono sempre i soliti noti, ovvero la povera gente.
Pare che Berlusconi riesumerà alcuni provvedimenti del precedente governo Prodi, ovvero la tracciabilità dei pagamenti: tutti i pagamenti sopra i 3500 euro non potranno essere fatti con soldi contanti, ma tramite assegni e pagamenti bancari, in modo da poterli controllare. Quando lo volle introdurre Prodi, si disse che era una iniziativa che limitava la libertà e che ci si avviava verso uno “stato di polizia”.
Ma io chiedo: quale libertà? Forse quella degli evasori di potere evitare di pagare tasse e dichiarare al fisco meno di quanto guadagnavano.
E così si parla anche di un nuovo redditometro basato sui consumi: se si consuma troppo rispetto al reddito dichiarato, ecco che interviene la Guardia di Finanza e il cittadino deve fornire spiegazioni sui redditi.
Non sono contrario a questa iniziativa, ma mi fa specie la palese incoerenza di Berlusconi e dei suoi sodali.
E a tal proposito, gradirei molto ricordare a chi legge, le dichiarazioni del premier e del suo ministro Tremonti, sulla crisi:

20 gennaio 2009
“La crisi? Non è così grave, torneremo alla situazione di due anni fa, non mi sembra che si stesse poi tanto male”

06 marzo 2009
“La crisi c’è ma i media esagerano”

08 marzo 2009
“Non c’è crisi, sono venuto a fare una ricognizione e vedo che i prezzi non sono cambiati rispetto a quanto ricordavo io”

15 maggio 2009
“Crisi c’è ma migliora”

28 giugno 2009
“La crisi è solo psicologica, sono i media che dipingono la crisi come irreversibile e catastrofica”.

03 luglio 2009
“Crisi? Non c’è più niente da temere”

13 gennaio 2010
“L’attuale situazione di crisi non permette nessuna possibilità di riduzione delle imposte”

10 aprile 2010
“Il declino dell’Italia non c’è”

19 maggio 2010
“La crisi? I segni inducono all’ottimismo”

19 maggio 2010
“Il Milan? C’è crisi, non metto più soldi”

22 maggio 2010
“Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani!”

22 maggio 2010
Giulio Tremonti: “La crisi è peggiore del previsto, senza tagli mi dimetto”

24 maggio 2010
Salvare l’Italia dal rischio Grecia…

8 Commenti


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