C’è una belva che di notte corre per le città addormentate e penetra nelle case e poi, all’alba, si unisce al branco che batte le contrade d’Italia. Questa belva è la rabbia che la nostra società, rimbambita dalla televisione, sta vedendo riemergere da un passato lontano e ormai dimenticato. E’ una rabbia che nasce dalla povertà, dallo sfruttamento, dalla precarietà e soprattutto dalla mancanza di speranza e di futuro. E’ un sentimento che nasce nel cuore di vecchi con pensioni da fame, di adulti senza più il lavoro e di giovani depredati dei loro sogni. E’ una rabbia sacrosanta per le ingiustizie perpetrate da un sistema immobile e vorace, ma che purtroppo si sta traducendo sempre più spesso in violenza contro il sistema e anche contro se stessi.
Sono le cronache di questo tempo triste a ricordarci le frequenti esplosioni di questa rabbia: il fumogeno contro Bonanni, gli assalti e le intimidazioni a Cisl e Uil, la rivolta di Terzigno e quella dei pastori sardi, senza contare l’aumento esponenziale di suicidi fra precari e disoccupati.
Ma sono ancora segnali troppo deboli per la nostra classe dirigente, impegnata a preservare potere e privilegi, e per la intorpidita coscienza civile degli italiani; eppure c’è un’aria strana, qualcosa cova sotto la cenere di alcune vite, alcuni oltre a tirare la cinghia serrano anche i denti e i pugni per riuscire a trattenere il malcontento che cresce giorno dopo giorno. La rabbia cresce e si diffonde in particolare tra i giovani che non sono soltanto bamboccioni o aspiranti tronisti e veline, ma sono anche ragazzi e ragazze che desiderano un lavoro dignitoso e che non vogliono, con tanto di laurea appesa al muro, ridursi a lavorare in un call center. Chi può scappa via da questo insulso Paese, ma chi rimane è vittima sacrificale di una spietata dittatura generazionale, come scrisse già nel 1995 Ferruccio De Bortoli, dove i padri hanno realizzato i sogni di uguaglianza e sicurezza sociale delle vecchie generazioni a spese della gioventù attuale, che è stata caricata di uno schiacciante fardello di debito pubblico.
In un contesto clientelare e dove il pensiero critico fa fatica ad affermarsi continuano a prevalere “fuga” (la celebre fuga dei cervelli all’estero) e “accettazione passiva” (astensione crescente alle elezioni), ma la rabbia degli impotenti continua ad accumularsi. La domanda allora è la seguente: cosa accadrà quando questo sistema, che già manda sinistri scricchiolii, crollerà definitivamente?
La rabbia, quella bestia che adesso crediamo in gabbia, verrà liberata e farà strage nelle tenere carni dei corpi. Non è questa la fosca previsione dell’ennesimo profeta di sventura, ma è l’esito scontato della rabbia e della disperazione che stanno seminando a piene mani nei cuori degli italiani. C’è un modo per fermare questa corsa verso il baratro? Evitare il disastro è possibile, e se la presa di coscienza della classe politica di fronte ai problemi del Paese resta ad oggi soltanto una chimera, rimane la possibilità di incanalare la rabbia e la delusione in un sentiero democratico fatto di impegno e partecipazione. Trasformare la rabbia in passione è la sfida per chi vuole veramente salvare l’Italia; dire basta alle pastoie gerontocratiche e clientelari è quanto di più coraggioso e saggio si possa fare in questo momento per un Paese che ha disperato bisogno di riforme e di risorse per l’istruzione, la ricerca e lo sviluppo, un Paese che ha disperato bisogno di futuro.
Per potere avere un WiFi libero, e avere una rete informatica degna di un paese sviluppato come è l’Italia, prima dovremmo liberarci delle false promesse e delle false paure del governo.
Perchè dico false paure? Intanto, non è vero che chiudere il WiFi ci garantisce la sicurezza: l’attuale legge prevede solamente maggiore burocrazia e costi per chi volesse aprire un hot spot wifi, perchè impone di acquisire l’identità (tramite i dati della carta di identità) di chi fruisce del servizio, e poi trasmettere questi dati alle autorità competenti.
Non basta certo una carta di identità a garantire sui messaggi e sui contenuti inviati e ricevuti tramite internet e, soprattutto, non è sufficiente per identificare con sicurezza una persona. Inoltre, il traffico su Internet è talmente ampio che non si può pensare di controllarlo e verificarlo messaggio per messaggio, sito per sito, per tutti gli utenti (un controllo di questo tipo si può realizzare se già le autorità competenti sospettano di un certo individuo); a questo punto che senso ha identificare migliaia di persone, se poi non si può verificare quello che compie?
Ma anche seguendo questo ragionamento, e cioè della necessità di identificare la persona, si può ovviare ai controlli del decreto Pisanu, con la semplice registrazione in remoto dei codici identificativi della carta SIM dell’utente, il vantaggio è che il gestore non avrebbe necessità di tenere archivi, fare trasmissione di dati verso le autorità competenti e tutto sarebbe molto più veloce e con costi molto più contenuti.
La riprova di quanto detto, la si ha se andiamo a guardare gli altri paesi: la Francia ha circa 30 mila hot spot pubblici (ovvero punti in cui una persona può connettersi tramite Wi Fi), mentre l’Italia solo 4 mila. Significa che per la Francia, la sicurezza dei suoi cittadini non è importante? Sinceramente mi sembra una ipotesi ridicola.
E se consideriamo gli USA? La patria del Patriot Act, la norma che ha limitato le libertà per la lotta al terrorismo, presenta ben 70.000 punti di accesso al Wi Fi totalmente gratuiti, senza considerare quelli a pagamento (con i quali sfondiamo largamente la soglia dei 100.000 punti di connessione). Anzi a New York (teatro dell’attentato dell’11 settembre 2001), ci sono 856 hot spot gratuiti, mentre in tutta Italia ce ne sono solamente 1.731.
Da quanto detto, emerge quanto il decreto Pisanu sia completamente superato, obsoleto, riproporlo è ridicolo, la sua abolizione dovrebbe anzi aprire interessanti prospettive, soprattutto se lo si vede nell’ottica di uno sviluppo tecnologico non più rinviabile, a partire dall’approfondimento del WiMax.
Quando una voce autorevole scende in campo è doveroso prestare orecchio. Soprattutto se questa voce va anche contro il suo stesso interesse di parte.
La voce in questione è quella del Capo dello Stato che ieri ha definito irragionevole lo scudo giuridico alle più alte cariche dello Stato. Il suo giudizio è stato critico ma non per questo invasivo nell’operato del Parlamento. Ha espresso perplessità sull’estensione del cosiddetto Lodo Alfano anche al Capo dello Stato poiché ne limiterebbe l’indipendenza e sarebbe in contrasto con l’articolo 90 della Costituzione.
Le parole di Napolitano arrivano in un periodo in cui regna la confusione istituzionale e imperano le forzature di una maggioranza barcollante. L’ennesima discussione sullo scudo, oggi chiamato lodo Alfano ieri lodo Schifani e così via, ha spostato il tiro da legge ordinaria a legge costituzionale. Non entrando nel merito tecnico della legge, le paure del Capo dello Stato sono relative all’aura di impunità che aleggia sul Lodo.
In ogni sistema democratico chi sbaglia è chiamato a pagare in misura proporzionata alle colpe commesse. E sempre in ogni sistema democratico maturo i rapporti tra giustizia e politica sono di reciproco rispetto e non di reciproca ingerenza. Per ovviare a questo che oggi in Italia si continua a parlare di lodo Alfano. Come ribadiva lo stesso Casini, “il lodo Alfano non ci piace, ma dobbiamo contribuire a rasserenare il rapporto tra politica e magistratura”. È questa la strada maestra da seguire. Rasserenare il rapporto tra politica e magistratura significa ricucire uno strappo ormai ultradecennale e riprendere il cammino verso il compimento di una democrazia matura.
Ma gli sforzi in questa direzione non devono e non possono finire qui. Così come quando si avverte il rischio di piena di un fiume la prima cosa da fare è rinforzare gli argini e solo poi costruire una diga a monte per evitare una nuova piena, anche qui la prima cosa da fare oggi è rinforzare un argine di non ingerenza per iniziare a lavorare già da domani con impegno e correttezza istituzionale ad una riforma della giustizia che completi e non distrugga il sistema attuale.
E sempre su questa scia che bisogna ascoltare le parole di autorevoli rappresentanti delle Istituzioni, e non lasciarle cadere nel dimenticatoio, utilizzandole come faro dell’attività legislativa per perseguire sempre ed in ogni modo il pene del Paese, unico vero obbiettivo di ogni uomo politico.
“Stanno convincendo il pubblico a pagare senza scegliere, abbonandosi al satellite e restando tutti a casa, usando il nome di “Repubblica” per tutta un’altra cosa”.
Ciò che si rischia non è solo che non si vada in onda, ciò che si rischia è che si vada in onda, ma senza garanzie, il che è ancora più grave. Senza garanzie non si può lavorare, né in un cantiere, né in uno studio televisivo. Non è che essendo l’accusa partita da Fabio Fazio, che un tempo conduceva “Quelli che il calcio” con Idris e Marino Bartoletti, allora non è credibile. Fabio Fazio, e non è una mia opinione, bensì un dato di fatto oggettivo, rappresenta l’ancora di salvataggio di Rai tre, i dirigenti dovrebbero ringraziarlo, perché senza di lui e senza i suoi ascolti di “Che tempo che fa”, la nave sarebbe affondata da un pezzo, essendo il tempo tempestoso. Forse la Nina e la Pinta no, ma la Santa Maria ( la terza nave), sarebbe affondata. Quindi Fazio sarà la loro spina nel fianco e se vorrà andare in onda con i due Roberto, Saviano e Benigni, nessuno glielo potrà impedire, né tantomeno noi… che tra l’altro non vediamo l’ora.
Lucio Presta, intanto, l’agente dei VIP, ha fatto sapere che Roberto Benigni sarebbe disposto anche a partecipare gratuitamente allo “show”, e il direttore di Rai Tre ha presto smentito la notizia del cachet prima di 250 mila per Fazio, e poi di 80mila euro a puntata per Saviano. “La storia dei soldi è una fesseria” (R. Saviano). Insomma, stando alle notizie e alle smentite sembrerebbe che tutti questi problemi di logistica e di denaro non ci siano. E allora perché vogliono bloccarlo?
Un ulteriore caso ancora irrisolto riguarda la storia dell’inchiesta Antigua-villa-di-Berlusconi di Report, puntata che sarebbe dovuta essere censurata preventivamente. Ma come è possibile? Intanto mi dovete spiegare come si fa a sapere se una cosa merita la censura oppure no, se ancora non è andata in onda? Ok la critica, ci sta, ok pure la eventuale denuncia dopo la messa in onda, ma la censura preventiva no, non si può sentire.
Questo provvedimento è stato giudicato con favore anche da buona parte del mondo sindacale che lo considera equilibrato, e in questo senso è stato importante il lavoro svolto dall’UDC, come ha riconosciuto lo stesso Sacconi che ha affermato: “Ringrazio in particolare il gruppo dell’Udc: i colleghi hanno svolto interventi che hanno sollecitato la definitiva approvazione del provvedimento, pur mantenendo riserve, legittimamente espresse, che mi sono sembrate di ordine generale”. E affermando che i parlamentari dell’UDC sono stati espressione di una “forza politica di opposizione responsabile che ha sempre guardato al concreto dei singoli provvedimenti”.
Di contro l’on.le Nedo Poli (UDC), Capogruppo in Commissione Lavoro, ha affermato: “Abbiamo voluto sostenere una riforma delle controversie di lavoro che garantisse minore conflittualità e maggiore responsabilità a tutti i protagonisti. L’Udc è per una giustizia del lavoro più rapida e più certa. In questo senso, il ddl lavoro apre la strada a nuove sfide. Non ci uniamo al coro di chi lo ritiene contrario agli interessi dei lavoratori. Auspichiamo che il Governo elabori al più presto le deleghe secondo le ragionevoli indicazioni che il ministro Sacconi ha più volte illustrato”.
Il punto fondamentale è stato quello di volere aumentare gli ambiti di scelta per i lavoratori per comporre le controversie nel rapporto di lavoro.
Il lavoratore può scegliere se ricorrere al giudice ordinario o ad un arbitro per dirimere le controversie lavorative, ma la scelta di ricorrere all’arbitrato (attraverso la sottoscrizione della cosidetta ‘clausola compromissoria’) deve essere effettuata dal lavoratore prima che intervenga la controversia stessa e dopo la conclusione del periodo di prova (quando si presume che il lavoratore sia più debole nei confronti del datore di lavoro), oppure prima del trascorrere di 30 giorni dalla stipula del contratto di lavoro. L’arbitro dovrà tenere conto non solo dei principi generali dell’ordinamento giuridico italiano ma anche i principi regolatori derivanti da obblighi comunitari (cosiddetto arbitrato per equità).
Una notazione molto importante riguarda invece i licenziamenti che sono esclusi dalle procedure di arbitrato, ma devono essere giudicati dal giudice ordinario (il licenziamento deve essere impugnato entro 60 giorni dalla ricezione della comunicazione scritta del licenziamento medesimo).
Per combattere il lavoro nero e il lavoro sommerso, sono state stabilite sanzioni molto più pesanti, proprio per rendere meno conveniente il ricorso a simili pratiche: le sanzioni andranno da 1.500 euro a 12.000 euro, più 150 euro per ogni giorno di lavoro nero e saranno comminate ai datori di lavoro che non trasmettono la comunicazione preventiva di assunzione. Le novità più importanti però riguardano l’apprendistato e i lavori usuranti. E’ stato stabilito che l’anno di apprendistato a 16 anni, potrà sostituire l’anno scolastico, mentre per i lavori usuranti il governo adotterà una normativa per introdurre il pensionamento anticipato stabilendo l’eta minima a 57 anni, con 35 anni di contributi. Infine, una buona notizia per i lavoratori co.co.co e a progetto: omettere di versare le ritenute previdenziali operate dai committenti sui compensi dei lavoratori a progetto o co.co.co., iscritti alla gestione separata Inps, diventa reato.
L’impressione che si ricava da questi punti (che sono solo i principali) è che si sia cercato di snellire la burocrazia, sancendo una tutela per i lavoratori e svecchiando un ordinamento giuridico che iniziava a non essere più al passo con i tempi.
Ricorderete sicuramente che qualche giorno fa ho già parlato della necessità di “liberare” il WiFi e di abolire l’inutile e anacronistico Decreto Pisanu. Oggi giunge una bella notizia: il Ministro Brunetta, intervenendo al Future Center Telecom ha fatto sapere che durante il prossimo Consiglio dei ministri si dovrebbe esaminare l’abrogazione dell’art. 7 della legge Pisanu sull’obbligatorietà del deposito dei dati anagrafici sulle reti WiFi. «Il ministro Maroni – ha sottolineato Brunetta – si è detto disponibile e penso che dal prossimo Cdm si potrà liberare la rete».
Ora non ci resta che vedere cosa accadrà al prossimo Consiglio dei Ministri in merito alle modifiche dell’art. 7 del decreto Pisanu sul WiFi: siamo curiosi di sapere se le parole di Brunetta rappresentano la linea guida del Governo o se si tratta di opinioni isolate. Internet – e quindi il libero accesso al suo utilizzo – rappresentano non solo una delle più alte espressioni della nostra libertà, ma soprattutto una nuova frontiera per lo sviluppo dell’economia e della società. Dare la possibilità di consultare Internet in ogni momento e con ogni comodità, significa garantire ai propri cittadini l’apertura al mondo più moderno e tecnologicamente avanzato. Vi faccio un esempio: un istituto scolastico dotato di connessione Wi-Fi è considerato all’avanguardia, quasi offrisse un servizio fuori dal comune. E invece no. Perché ogni scuola, di qualsiasi ordine e grado, dovrebbe essere dotata di questo tipo di connessione. In fondo, quale mezzo migliore esiste per evitare che Internet diventi una perdita di tempo se non quello di insegnare, sin da piccoli, a integrarlo – in modo sapiente e costruttivo – nella propria vita? Dai libri alle ricerche, dallo svago allo studio.
Ho già avuto modo di sottolineare come la proposta di legge portata avanti dall’Udc (con il concorso di Api, Pd e FLI) rappresenta un ottimo passo verso il futuro, verso una nuova alfabetizzazione. I vantaggi che si potrebbero ricavare sono immensi: la possibilità di un maggior coinvolgimento della gente comune, un avvicinamento sempre maggiore tra i quadri dirigenti della società e la base, una maggiore circolazione di informazione libera e veramente indipendente.
Se il dibattito che si svolgerà in Consiglio dei Ministri (così come ha promesso il Ministro Brunetta) andrà in questa direzione, vorrà dire che il lavoro che è stato svolto finora è stato ben fatto, perché determinerà novità positive ed utili per lo sviluppo tecnologico del settore e favorirà quella parte di cittadini colti, ben informati e attivi che devono essere un modello per tutti noi. Se invece, il CdM preferirà chiudersi a riccio in una posizione stantia e vecchia, continuando a sostenere che il Decreto Pisanu rappresenta una buona cosa, vorrà dire che occorrerà andare avanti con le iniziative bipartisan già intraprese, sperando di finirla di rincorrere ciò che altrove è già passato.
Le nostre società occidentali, sempre più individualiste, sembrano manifestare crescenti forme di egoismo nell’espressione di quella che, ad ampio raggio, può essere definita genitorialità.
Per una volta vorrei provare ad osservare, dal punto di vista del bambino-figlio, alcune di queste espressioni.
Dalla parte del bambino, laddove sempre più donne sembrano realizzarsi forzando la mano alla sapienza della natura per riuscire ad avere figli senza la noia-necessità di avere un uomo a fianco. O provare la gioia di diventare neo-mamme in età da nonna, diminuendo così il diritto del figlio a crescere nel migliore dei contesti familiari possibili, almeno secondo le condizioni di partenza.
Dalla parte del figlio, in una società super consumista che rischia di non tollerare più famiglie o madri che, per problemi economici e socio-culturali, fanno fatica a tirare su un figlio. E’ il caso di Trento, che ha fatto molto discutere qualche settimana fa, e che ci deve ricordare che uno stato di povertà e indigenza non può mai essere un motivo per togliere la potestà genitoriale ad una mamma o ad una coppia; la società, attraverso i servizi sociali, dovrà semmai essere di supporto e di sostegno, per contribuire allo sviluppo sereno dei figli, senza mai fare prevalere logiche contro il loro mantenimento nel nucleo familiare di origine.
Dalla parte del figlio, in una società evoluta dove i tanti progressi della scienza conducono le coppie, con crescenti problemi di fertilità, ad andare incontro alle umane richieste di genitorialità attraverso la fecondazione assistita; con alcune di queste che ricorrono a centri esteri, per aggirare le “severe” norme italiane in materia, frutto della famosa Legge 40, fortemente criticata e contrastata. E’ però doveroso ricordare che questa ha il merito di tutelare tutti i soggetti coinvolti, con un occhio di riguardo al figlio: non consentendo la fecondazione eterologa gli dà infatti la certezza della paternità, così come positivamente limita il possibile “mercato”delle nascite.
Dalla parte del figlio, di fronte ai continui diritti rivendicati da single e coppie dello stesso sesso, che vorrebbero vedere riconosciuto il loro naturale desiderio di genitorialità, attraverso l’adozione; per dare a coloro che hanno ricevuto un primo rifiuto, una famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, per assicurargli il contesto più stabile e adatto alla loro educazione e crescita.
A maggior ragione perché, complice la difficoltà ad avere figli naturali, come abbiamo ricordato poco sopra, sempre più coppie (eterosessuali) danno la disponibilità all’adozione, nazionale e/o internazionale, intraprendendo percorsi lunghi e non facili.
Percorso di cui è giusto, sempre dal punto di vista del bambino, sottolineare anche le cose positive del nostro sistema: ad esempio, per quanto riguarda l’adozione internazionale, intrapresa dalla maggioranza delle coppie visto il numero limitato di minori italiani in stato di adottabilità, l’Italia mette in atto un controllo abbastanza rigoroso sull’operato delle associazioni accreditate per dare concretamente compimento all’adozione nei vari paesi d’origine del bambino, a costo di produrre tempi più lunghi e fare adottare bambini un po’ più grandi. Questo avviene per verificare che i bambini dati in adozione si trovino veramente in uno stato di abbandono e siano gli ultimi degli ultimi, cercando di evitare ogni possibile dubbio di mercato di bambini. Questo purtroppo non è sempre avvenuto nel passato, e non pare avvenire in altri paesi: negli Stati Uniti si “scelgono” i bambini tramite l’utilizzo di Internet e anche in paesi europei a noi vicini non ci sono gli stessi controlli. Magari non abbiamo il peso internazionale di altri paesi più importanti, e in qualche caso incide negativamente sul cammino che le coppie italiane si trovano ad affrontare, ma riconosciamo i meriti ad un approccio italiano all’adozione che è sicuramente motivo di orgoglio, perché proiettato con lo sguardo sul bene del minore.
C’è sicuramente molto da fare per migliorare il percorso che le coppie affrontano: questo potrebbe, pur nella doverosa rigorosità, essere accorciato un po’ nella sua fase iniziale per non scoraggiare troppo coloro che vi si avvicinano. Le coppie dovrebbero essere sostenute anche dal punto di vista economico, specialmente per gli elevati costi necessari ad intraprendere l’adozione internazionale, che potrebbero essere abbattuti attraverso le relative detrazioni fiscali.
Esiste poi la necessità di non lasciare sole le coppie nella lunga fase dell’attesa per l’arrivo del nuovo figlio, ma ancora di più dopo l’avvenuto inserimento, ad oggi un po’ deficitario; attraverso un lavoro in sinergia, amministrazioni locali, servizi sociali e associazioni di volontariato potrebbero attivare gruppi di lavoro, condivisione e supporto per non fare sentire mai sole queste famiglie nei loro momenti “naturali” di difficoltà.
Ci sono poi tanti minori italiani che vivono negli istituti/case famiglia in attesa di essere dichiarati in stato di adottabilità e molti altri che non lo saranno mai, perché ci sono dei legami che persistono con la famiglia naturale. A questi bambini sarebbe comunque fondamentale, rispetto ad un istituto, assicurare il legame e l’affetto di un nucleo familiare che si renda disponibile, attraverso l’affido, ad affiancare (spesso sostituire) la famiglia naturale nella loro crescita. Spesso questi minori non sono piccoli di età e sicuramente è una scelta così grande che non può essere chiesta ad ogni coppia; questa però si troverebbe a vivere una forma ancora più alta e gratuita di genitorialità, dove la centralità della relazione riesce a supplire in qualche modo al legame di sangue o di legge. E dal punto di vista del bambino, vivere in una famiglia che lo accoglie, anche se soltanto per un limitato periodo della vita, può essere migliore che crescere in un istituto-casa famiglia.
Trovare soluzioni a questo come a molte altre difficoltà che i minori incontrano dovrebbe essere la priorità in una società evoluta, che invece sembra concentrata a rincorrere le continue e crescenti richieste di diritti (senza più doveri) da parte degli adulti.
Ebbene, pare che le nostre previsioni si siano avverate.
Intanto registriamo che il limite originario posto dalla UE, della vendita da concludere entro il 30 settembre, è stato ovviamente sforato solo grazie ad un permesso speciale accordato dalla UE medesima, la quale, però, non sarà paziente molto a lungo.
E cosa fa il governo nel frattempo?
Intanto ha dichiarato lo stato di insolvenza per la Siremar, la società che si occupa dei collegamenti tra la Sicilia e le isole minori ovvero le rotte meno appetibili, iniziando a realizzare proprio quello spezzatino che i sindacati e i lavoratori.
Quasi in contemporanea (in data 15 settembre), hanno rifatto un nuovo bando di vendita, ma per la sola Tirrenia, mentre per la Siremar si provvederà in seguito (senza specificare, però, come e quando si prenderanno le decisioni che coinvolgono varie diecine di lavoratori); ma la cosa importante è che questo bando valeva dal 15 settembre al 29 settembre (ricordiamo che l’UE aveva posto, originariamente, come data limite per chiudere la pratica il 30 settembre, data rivista purchè poi la procedura fosse accelerata).
Tutta la procedura è stata data in mano all’advisor, la banca d’affari Rotschild, e fin qui non ci sarebbe nulla di male, se non che ad oggi, 14 ottobre, non si è più saputo nulla su questa vendita: non si sa se vi sono state società interessate all’acquisto (la precedente procedura aveva vista solo una società interessata), non si sanno gli eventuali importi e soprattutto non si sa nulla sugli eventuali piani di sviluppo per i lavoratori, se ci saranno licenziamenti, riduzioni di stipendio o un rilancio della compagnia magari investendo sui lavoratori oltre che sulle navi (ricordiamo che la Tirrenia ha parcheggiato in vari porti 6 navi, per il valore di circa 300 milioni di euro, che per problemi di progettazione e costruzione, non possono essere messe in mare).
Nel frattempo Giancarlo D’Andrea, l’amministratore nominato dal Presidente del Consiglio, l’on.le Berlusconi, a parte generiche rassicurazioni sul mantenimento dei collegamenti non ha più dato notizie.
La situazione appare, quindi, fumosa, soprattutto se consideriamo che la vendita della Tirrenia, vede escluse, come detto, le rotte meno profittevoli, e questo fa pensare che l’interesse del governo non sia primariamente quello della gestione più accorta del problema, ma solo quello di scaricare sulla Regione Sicilia, le tratte in perdita, per avvantaggiare i privati che volessero prendere la Tirrenia.
Eppure il business del mare sarebbe estremamente profittevole come dimostra il dinamismo di Grandi Navi Veloci che proprio ieri è stata acquistata per il 50% dall’armatore sorrentino Gianluigi Aponte già presente nel cabotaggio con SNAV, che confluirà nel nuovo gruppo. Il valore di questa acquisizione è di 130 milioni di euro e vedrà la nascita di un gruppo in cui le punte di diamante saranno la Grandi Navi Veloci e la MSC Crociere, raggruppate sotto il cappello della Marinvest.
E questa operazione potrebbe preludere ad altre operazioni con la Tirrenia, infatti cito testualmente: “con Marinvest entra in Gnv un partner molto importante, che ci dà solidità e che ci permette di creare un’entità più grande dotata di liquidità”, spiega l’amministratore delegato di Gnv Roberto Martinoli, che apre la porta all’operazione Tirrenia: “Di sicuro se dovessimo fare un’offerta lo faremo con il nuovo assetto”.
Alla luce di quanto sopra, si vede che il settore marittimo è un settore promettente, e Tirrenia a certe condizioni potrebbe diventare profittevole. Il punto è: queste condizioni a spese di chi verranno poste? Si spera non del contribuente italiano.
“Riceviamo e pubblichiamo” di Gaspare Compagno
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Qualche giorno fa, alla Camera dei Deputati, gli onorevoli Mauro Libè, Teresio Delfino e Gian Luca Galletti, hanno presentato all’aula parlamentare alcuni ordini del giorno, che prendendo atto della grave situazione dell’agricoltura italiana, delle aziende agricole, degli alti costi di produzione e dei bassi prezzi di vendita, che non riescono a ripagare le spese sostenute dagli agricoltori, della crisi del settore bieticolo-saccarifero e della forte incertezza dei mercati mondiali di materie prime. Gli ordini del giorno sono stati approvati, anche con alcuni voti della maggioranza, ed ora impegnano il Governo e il ministro dell’Agricoltura Giancarlo Galan ad attivarsi con tutti mezzi, a livello locale, nazionale e comunitario per reperire risorse da investire in questi settori vitali per molte aree d’Italia. Non basta: bisogna cercare concertazione a livello europeo per ridistribuire la ricchezza prodotta nella filiera agroalimentare in maniera più equa e soprattutto guardando al produttore.
Ha ragione il ministro Giancarlo Galan quando dice che l’ordine del giorno dell’onorevole Libè e colleghi è aria fritta. Infatti la situazione è continuamente peggiorata, in un’univoca discesa dei redditi che ha portato all’azzeramento totale dei profitti, fino al sorgere di gravi situazioni di indebitamento degli agricoltori. Ma al ministro ha risposto la Camera dei Deputati, approvando l’odg presentato dagli onorevoli dell’Udc, con 247 voti a favore. Dopo tanti anni di crisi perenne, dopo tanta rabbia degli agricoltori, dopo tante belle parole spese da destra e sinistra, il Governo del Fare, cosa ha fatto? Rappresentato dal ministro competente, il Governo ha rigettato al mittente l’ormai arcinota “questione agricola”, tacciandola come vecchia.
Ma cosa si può fare per rialzare il settore primario? Le risposte potrebbero essere tante. Le vie per il rilancio organico dell’agricoltura sono infinite e tutte potrebbero portare a dei risultati, ma il Governo quale di queste strade ha preso? Per ora è al bivio, in attesa che qualche azienda chiuda, che qualche altra vada in mano alle banche, che qualche agricoltore venda i terreni e la casa, da dove la sua famiglia vive da più di 3-4 generazioni e vada a fare il disoccupato in “città”. Il Governo attende una possibile ripresa interna dei consumi, una nuova politica economica dall’Unione Europea, un rilancio delle esportazioni, un’annata climatica decente. Forse il Governo attende che il mercato faccia la sua parte e che la regola del più forte prevalga anche in agricoltura: pesce grande mangia pesce piccolo.
Gli onorevoli Libè e Galletti chiedono al Governo di investire risorse e tempo nel settore bieticolo-saccarifero, ormai allo stremo dopo anni di completa distruzione attuata dalla Comunità Europea. Io mi chiedo: perché continuare con lo stato comatoso in cui persistono le aziende agricole del comparto bieticolo-saccarifero? I soldi ci sono solo per rottamare le attrezzature delle aziende del settore e per la riconversione di tutte le strutture industriali e produttive che lavorano le barbabietole. Se si tratta di un settore vitale per l’economia locale e per le migliaia di lavoratori che vi sono impiegati, perché riconvertirlo ad altre produzioni, che poi faranno la stessa fine del settore bieticolo-saccarifero tra qualche anno? Perché un settore di 10 mila aziende agricole, in 11 regioni italiane, con 62 mila ettari che riforniscono 4 stabilimenti industriali produttori di zucchero completamente consumato dal mercato italiano, occupando il 30% del mercato nazionale, deve essere dismesso? Perché questo suicidio? Perché i costi superano i ricavi e allora c’è bisogno di soldi pubblici per reggere a galla la barca: contributi, premi, finanziamenti, ecc.
Possibile che la Grande Europa non riesca a trovare un equilibrio ai settori agroalimentari? Possibile che non riesca a difendere le produzioni locali, le produzioni nazionali, le produzioni autoctone? Possibile che non sappia fare altro che concedere a destra e a manca indicazioni di origine protetta e denominazione di origine controllata e altre sigle varie? E bene si: i tanti governi dell’Europa unita non riescono a governare i mercati internazionali di materie prime. L’unico modo sarebbe reintrodurre dazi doganali degni di tale nome e portare ad un aumento consistente del prezzo dei prodotti di consumo alimentare, spostando i problemi dal produttore al consumatore, senza penalizzare i livelli intermedi. Quale la via da intraprendere? Anche l’Europa aspetta. Attende i mercati, la fine della crisi, la ripresa dell’economia. Ma forse attende ancor più il 2013, anno della scadenza dell’attuale Pac (politica agricola comunitaria), per iniziare a discutere di una nuova Pac più equa, meno spendacciona, più mirata alle vere esigenze del settore, più sana. Insomma tutti attendono.
Il Decreto Pisanu è superato per una serie di diversi motivi. Primo, perché fu pensato come argine per il rischio di terrorismo informatico, forma di terrorismo mai avvenuta sul nostro territorio. Secondo, perché l’Italia è un Paese fortemente tecnologizzato, ma con un handicap fortissimo, quello di non avere lo Stato dalla propria parte. Da noi ci sono infatti 4.806 punti di accesso Wi-Fi (in maggioranza privati), mentre in Francia ce ne sono 5 (cinque) volte di più. Prova ne è il fatto che se negli altri Paesi mezzi come I-Pod, I-Pad o Smartphone sono esclusivamente Wi-Fi, da noi sono in maggioranza Edge (dato che non ci sono punti di accesso). Terzo, perché frenare l’espansione del Wi-Fi libero è controproducente per l’economia e la nascita di nuove forme di investimento.
Senza dubbio il grande male del decreto Pisanu è contenuto nel suo primo comma (che impone la richiesta di un’autorizzazione al questore per condividere un po’ di connettività tra gli avventori del proprio esercizio commerciale) e nel quarto (il quale sancisce il famigerato obbligo di identificazione a mezzo carta d’identità nonché di logging della clientela). In parole semplici, il gestore che offre il servizio deve registrare l’utenza che ne usufruisce: se quindi mi connetto ad Internet tramite un punto di accesso Wifi, vengo automaticamente schedato. Un vero e proprio abominio dal punto di vista intellettuale e sociale. Un inutile e dannoso adempimento burocratico dal punto di vista giuridico. Scorrendo le varie statistiche, ci si può bene rendere conto di come l’Italia sia sistematicamente tra gli ultimi Paesi in Europa, a fianco di Romania e Bulgaria, per tutto quanto riguarda Internet e informatica. Ciò che più colpisce è la fotografia sociale che ne risulta: metà dei nostri cittadini non ha mai usato un computer (a fronte di un’altra metà, quella più giovane, che però è più che al passo con i tempi); sono indietro anche le imprese, che investono decisamente meno di quelle tedesche o inglesi in tecnologie dell’informazione (e qui ne paga chiaramente il nostro livello di concorrenza); è complessivamente indietro la pubblica amministrazione, nonostante i periodici annunci di rivoluzioni digitali (vero Ministro Brunetta?). Il tutto, perché, non ci sono leggi che valorizzino e supportino un uso sapiente e costruttivo di Internet nella vita di ciascuno di noi. E qual è, secondo voi, la madre di questa mancanza? Proprio il Decreto Pisanu, che – nel 2005 – rappresentò un tipo di risposta sbagliata (perché generalizzata e superficiale) a un serio problema come quello del terrorismo. Perché non è certo chiudendo le porte ad Internet che si impediscono gli attentati.
Altro punto, molto interessante, che a nostro avviso merita di essere portato all’attenzione di tutti il prima possibile è il fatto che il Governo italiano non abbia ancora liberato le frequenze necessarie per ampliare le reti mobili, cosi che navigare in Internet con le chiavette internet è sempre più difficile. Eppure, come spiega un rapporto realizzato dalla School of Management del Politecnico di Milano, gli italiani che navigano attraverso la rete mobile sono saliti alla fine dell’estate a 12 milioni, il doppio dei sei milioni di inizio 2009. Questo significa che, per gli operatori, vendere l’accesso a Internet attraverso la rete mobile sta diventando un business, stimato a fine 2009 in circa 1,24 miliardi di euro (più 30 per cento rispetto al 2008). Una miniera d’oro, che però non viene adeguatamente sfruttata, per il discorso di cui sopra: a fronte di pochissime frequenze, il traffico sta diventando eccessivo. Il rischio di collasso è dietro la porta. Inoltre è chiaro a tutti che le tariffe italiane sono tra le più salate d’Europa, mentre la velocità effettiva di navigazione è circa un quinto di quella promessa. In Austria e Finlandia bastano 10 euro al mese e si naviga quanto si vuole, ovunque; in Germania e in Spagna bastano 17 euro. Un sogno per gli utenti del nostro Paese.
Ecco perché l’on. Roberto Rao non ha tutti i torti a dichiarare inutile e dannoso il Decreto Pisanu. Perché, finalmente, avremo la possibilità di liberarci di uno di quei fastidiosissimi e retrogradi laccioli burocratici che frenano il lavoro, lo svago e l’impegno di cittadini moderni, attivi e ben informati.
“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera
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A seguire la trascrizione stenografica del question time odierno
Interrogazione a risposta immediata sulla liberta della rete wi-fi
Illustrata dall’On Roberto Rao
PRESIDENTE. L’onorevole Rao ha facoltà di illustrare la sua interrogazione n. 3-01274 concernente gli intendimenti del Governo in merito alla proroga dell’efficacia dei limiti previsti dall’articolo 7 del decreto-legge n. 144 del 2005 in materia di accesso senza fili alla rete Internet
ROBERTO RAO. Signor Presidente, signor Ministro – come lei ben ricorda – all’indomani degli attentati di Londra e Madrid, sanguinosi, nelle metropolitane, il nostro Paese – come tanti altri – assunse una serie di misure di contrasto al terrorismo, tra cui il cosiddetto decreto Pisanu. Un decreto che ha posto dei limiti severi – parliamo di adempimenti burocratici pesantissimi – per l’accesso alla rete Internet senza fili (la cosiddetta rete wi-fi). Si tratta di una norma che non ha eguali in altri Paesi occidentali e secondo la quale i gestori dei pubblici servizi per utilizzare questo sistema, ancora oggi, sono obbligati a chiedere una specifica licenza al questore, a identificare con documento coloro che vogliono accedere alla rete, e a conservare i dati cartacei in un apposito archivio. Gli stessi proponenti hanno ammesso che questa misura si è rivelata poco utile per il contrasto al terrorismo, ma molto gravosa per la diffusione del libero accesso ad Internet, e dunque estremamente dannosa per lo sviluppo del nostro Paese. Concludo, signor Presidente, facendo una richiesta al Ministro: visto che su iniziativa degli onorevoli Lanzillotta e Gentiloni, insieme al collega Barbareschi, abbiamo presentato una proposta di legge per abrogare o per modificare questa norma, vorrei sapere il parere del Governo su questa questione.
PRESIDENTE. Il Ministro per i rapporti con il Parlamento, Elio Vito, ha facoltà di rispondere.
ELIO VITO, Ministro per i rapporti con il Parlamento. Signor Presidente, rispondo all’onorevole Rao sulla base degli elementi che sono stati forniti dal Ministero dell’interno. Come lei ha ricordato, l’articolo 7 del decreto-legge n. 144 del 2005 fa parte di un gruppo di disposizioni volte a controllare attività sensibili, in particolare gli Internet point e gli altri esercizi nei quali sono offerti servizi di comunicazione anche telematica, in relazione a possibili minacce terroristiche. Questa disposizione risponde quindi a esigenze di sicurezza dello Stato. Va evidenziato che l’applicazione della normativa, di straordinaria importanza, ha consentito attività investigative di assoluto rilievo per il contrasto del terrorismo sia nazionale che internazionale, nonché per il contrasto del grave fenomeno della pedopornografia on line. Le richieste di semplificazione e di liberalizzazione poste alla base della sua interrogazione, onorevole Rao, unitamente all’esigenza di non pregiudicare la sicurezza dello Stato (e quindi la sicurezza dei cittadini), le posso assicurare, sono pertanto all’attenta valutazione del Governo e del Ministero dell’interno.
PRESIDENTE. L’onorevole Rao ha facoltà di replicare.
ROBERTO RAO. Signor Presidente, ringrazio il signor Ministro, e mi dispiace che abbiano scomodato lei, nel senso che la mia richiesta poteva anche essere rivolta al Ministro Romani, o al Ministro Calderoli (che è competente per la semplificazione). Con grande cortesia lei ha interpretato, invece, il pensiero del Ministro dell’interno che chiaramente ha come primo interesse quello della tutela dei nostri cittadini rispetto agli attacchi e in materia di sicurezza anche internazionale, ma è lo stesso pensiero che abbiamo noi. Ovviamente la sicurezza nazionale viene al primo posto, ma questa norma a nostro giudizio – lei ha citato alcuni fatti, ma la risposta era anche necessariamente sintetica e generica, sui grandi risultati cha ha dato questa norma in termini di contrasto al terrorismo e questa è la prima volta che ne sentiamo parlare, e sarà il caso di approfondire la questione in sede di dibattito parlamentare – senza dubbio complica la vita dei cittadini, quindi ci saremmo aspettati un intervento che lasciasse presupporre un’iniziativa un po’ più forte per abrogarla. È una questione che non riguarda soltanto la sicurezza dei cittadini. Internet rappresenta per noi l’ultima frontiera della libertà, ma anche un volano determinante per lo sviluppo dell’economia. L’abrogazione o la modifica del decreto Pisanu presenta un interesse trasversale. Lei lo sa, anche nei vertici della Commissione Trasporti abbiamo trovato una grande attenzione. Si possono trovare anche soluzioni intermedie (forse quelle che lei ha auspicato), ma si deve assolutamente cancellare l’obbligo per i gestori di conservare un archivio cartaceo di chi si connette, altrimenti siamo veramente agli antipodi. Del resto, se un terrorista ha in animo di commettere un attentato non gli sarà certo difficile falsificare un documento in modo da ingannare il gestore di un locale pubblico. Inoltre, corriamo l’ulteriore rischio che questa norma venga ancora una volta prorogata con il mille proroghe che sarà approvato da qui a breve. E così, di anno in anno, di proroga in proroga, il decreto Pisanu potrebbe diventare come le accise sulla benzina introdotte per la guerra d’Abissinia, rinnovate ciclicamente fino ad assumere un’impropria stabilità. In altre parole, si rischia di prorogare una norma sbagliata solo perché non si trova il tempo di occuparsi della questione.
L’Italia ha un quinto dei punti di accesso wi-fi della Francia, è agli ultimi posti in Europa – e che tristezza queste classifiche – a fianco di Romania e Bulgaria. In altri Paesi che si impegnano come noi e forse anche più di noi nella lotta al terrorismo non ci sono regole simili. Per quanto riguarda lo sviluppo di Internet noi saremo in prima linea, anche al fianco di iniziative come quella che abbiamo presentato noi o di analoghe del Governo. Se vogliamo crescere e svilupparci dobbiamo colmare questo grave ritardo.
Pubblicato da Pier Ferdinando Casini | su: Facebook
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