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Le promesse mancate del Governo sono ormai un capitolo in continuo aggiornamento: web radio e alluvionati

postato il 14 Novembre 2010

Il governo Berlusconi ormai ci ha abituati a cambi di rotta che lasciano sconcertati e sinceramente non credevo fosse possibile andare oltre, eppure c’è riuscito. Lo ha fatto su due questioni su cui si era espresso a favore: rendere più libero e fruibile il web e gli aiuti al Veneto allagato.

Ma andiamo con ordine.

Tutti sanno che è possibile farsi una propria emittente radio che trasmetta su Internet a costi praticamente nulli. Quel che non tutti sanno è che l’AGCOM, l’autorità garante delle comunicazioni, si appresta a rendere molto più difficile e oneroso potere fare la propria “stazione radio”: chi vorrà aprire una radio web dovrà prima di tutto fare una dichiarazione di inizio attività, poi pagare una autorizzazione pari a 750 euro (cifra che raddoppia arrivando a 1.500 per le web tv lineari, quelle cioè con palinsesto). Tutto questo grazie ad un provvedimento approvato dall’Agcom (Autorità garante delle comunicazioni), che deve trasformare in regolamento attuativo il decreto Romani sui servizi media audiovisivi.

Ma non si fermano solo a questo, perché l’AGCOM sta anche valutando nuove misure anti pirateria, che sono di una ferocia inaudita e che di fatto bloccheranno il peer to peer. Intendiamoci, la pirateria deve essere stroncata, ma non si può neanche bloccare la rete e la libertà solo per zittire alcuni, si passa così da un estremo all’altro. Ciò che non torna è che il Governo, che pure aveva garantito di sbloccare il web per renderlo più fruibile, aveva previsto nella bozza orginaria una imposta di 3000 euro e la richiesta di una autorizzazione alla AGCOM che doveva essere data da quest’ultima entro 60 giorni dalla richiesta. In pratica si parla di provvedimenti assurdi, che nessun altro paese ha.

Sull’argomento, l’on.le Rao (UDC) ha dichiarato che “nonostante gli annunci del Ministro Maroni, ancora non c’è nessun atto concreto del governo che vada nella direzione del superamento dell’art 7 del decreto Pisanu. Nel frattempo l’Agcom sta elaborando il regolamento attuativo del decreto Romani sui servizi media audiovisivi, e nella sua prima stesura prevede l’introduzione di una serie di passaggi burocratici e oneri finanziari capaci di frenare lo sviluppo delle radio web libere, oltre ad una serie di assurdi tecnicismi e filtri inapplicabili nella rete, a meno di non ipotizzarne il suo spegnimento. Nel nostro paese si conferma una questione che è generazionale e culturale al tempo stesso: molti di coloro che sono deputati a prendere decisioni nel campo delle comunicazioni e dello sviluppo tecnologico sembrano avere timore di uno strumento potente, sempre on-line, libero e gratuito come è internet, non comprendendo che proprio questi tre fattori rappresentano un volano di sviluppo sociale ed economico di enormi dimensioni”.

L’altra promessa mancata potrebbe essere quella di aiutare il Veneto allagato.

Sembra assurdo, ma pare che sia così. E quel che è peggio, pare che la bocciatura sia avvenuta con l’imprimatur della Lega. Possibile?
Secondo il Corriere parrebbe di sì. Si apprende infatti che in Commissione bilancio, proprio con i voti determinanti dei deputati leghisti, è stata bocciata una mozione che prevedeva il congelamento del pagamento delle imposte per gli alluvionati.

Sembra incredibile, ma pare che sia così. La proposta prevedeva il congelamento fino al 30 giugno prossimo le imposte per gli alluvionati del Veneto, ma stranamente la Lega si è opposta. I maligni potrebbero pensare che questo è funzionale alle ipotetiche future elezioni, visto che la Lega da sempre è di lotta e di governo, ma sinceramente non credo che i deputati leghisti siano così cinici, e preferisco pensare che la bocciatura sia dovuta o per incomprensione o perchè preferiscono un provvedimento organico.

Certo, l’approvazione di quel provvedimento sarebbe stata una prima risposta alle richieste di aiuti dei veneti che si sentono abbandonati dallo Stato.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Caterina Catanese

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Caro Telese, è ora di buonsenso

postato il 13 Novembre 2010

Giovedì, come tanti, ho visto la puntata di Annozero e come tanti mi sono preoccupato e indignato per lo sfruttamento e le condizioni miserabili di quei poveri immigrati che protestano in cima alla gru. Mi sono perfino infervorato quando Luca Telese ha difeso con enfasi e con poesia la protesta degli immigrati rispetto alla presunta “tiepidezza” di don Mario Toffari, responsabile per la diocesi di Brescia della pastorale dei migranti, e del leader dell’Udc Pierferdinando Casini.

Questo entusiasmo per le parole di Telese si è però raffreddato il giorno successivo, quando dalle colonne de “il Fatto quotidiano” il buon Luca Telese ha riproposto, in un articolo dal sapore un po’ auto celebrativo, la sua invettiva contro i tiepidi, che per vigore faceva impallidire anche l’Apocalisse di San Giovanni, dove notoriamente i tiepidi non sono trattati proprio bene. Perché l’entusiasmo si è raffreddato? Perché gli immigrati sono ancora su quella gru e le parti sembrano sempre più irrigidite. Le parole di Telese, che stimo davvero, non hanno aiutato gli immigrati, hanno strappato applausi fragorosi e lodi sperticate e forse rinfrancato il fronte della protesta, ma, diciamocelo sinceramente, di applausi e di lodi quei poveri cristi in cima ad una gru non se ne fanno un bel niente.

Sappiamo che ci troviamo davanti ad una ingiustizia, sappiamo anche che è giusto e doveroso protestare, ma dobbiamo anche ricordare che in una comunità civile e democratica in questi casi tutti gli sforzi devono convergere per trovare una soluzione che rispetti le persone e le leggi. La rabbia e lo sdegno per l’ingiustizia sono buoni nella misura in cui non ci fanno dimenticare il buonsenso, quel buonsenso che hanno tentato di esprimere don Toffari e Casini e che dovrebbe caratterizzare anche le istituzioni, quel buonsenso che ci ha ricordato  il senegalese Diaw Alboury, che ha convinto il figlio Papa ad abbandonare la gru con la sua struggente supplica e che nel suo appello al figlio e ai suoi compagni ha ricordato che «solo attraverso il rispetto delle leggi del paese ospitante ed il reciproco riconoscimento del valore di persona si possa avviare un percorso di vera integrazione».

Caro Telese anche io mi indigno e grido contro le ingiustizie e l’oppressione dei deboli, ma c’è un tempo per protestare e gridare e un tempo per ragionare e per trovare soluzioni. E’ giunto il tempo del buonsenso, per chi protesta e soprattutto per chi governa questo Paese e ha il compito di trovare soluzioni.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Pompei, Ruby e Avetrana: metafore dell’Italia

postato il 13 Novembre 2010

Non basteranno sonetti o preghiere lungo la via dell’Abbondanza dell’antica Pompei per far risorgere la “Schola Armaturarum Juventis Pompeiani”, ossia la famosa Domus dei gladiatori, storico luogo di allenamento dei vigorosi atleti romani, crollata l’altro giorno, si dice, per colpa di un’infiltrazione d’acqua.

Il crollo di un importante monumento in uno dei siti archeologici più grandi e prestigiosi del mondo non rappresenta certamente una bella pubblicità per il nostro Paese. Ma di chi è la colpa? Del buco dell’ozono? Dello scioglimento dei ghiacciai? Della camorra? Di Bertolaso? Di Bondi? Di Berlusconi? Di Ruby? Di Fede? Di Sabrina Misseri? Della strega di Topolino?

La pratica di chiara derivazione italiana dello “scarica barile” è appena incominciata. Il Presidente della Repubblica Napolitano ha immediatamente sollevato la questione, sottolineando che quello che è successo “E’ una vergogna”, e ha aggiunto: “Chi deve dare spiegazioni le dia subito, senza ipocrisie”. Senza ipocrisie? Ma l’illustrissimo Presidente lo sa che siamo in Italia?

Secondo il sindaco di Pompei Claudio D’Alessio, il cedimento dell’edificio era un crollo annunciato: “Succede quando non c’è la dovuta attenzione e cura”. Il Partito Democratico parla addirittura di disastro da incuria, e invita Il Ministro dei Beni culturali Sandro Bondi a riferire in Parlamento oppure a dimettersi. E la risposta del ministro-poeta è giunta immediata: “Se avessi responsabilità per ciò che è accaduto sarebbe giusto chiedere le mie dimissioni, anzi le avrei date io. Se invece facciamo prevalere serietà, obiettività e misura, allora sarebbe giusto riconoscere che i problemi di Pompei, come le situazioni in cui versa il nostro patrimonio artistico si trascinano da decenni senza che nessuno sia riuscito a risolverli definitivamente e a impostare una strategia efficace”.

Ma diciamo la verità. Diciamo le cose come stanno realmente. La colpa è di tutti e di nessuno, nel senso che è pacifico che servono numerose risorse umane ed economiche per amministrare e gestire in modo dignitoso le emergenze naturali e non. Dalle alluvioni ai terremoti, servono i soldi. Tanti soldi. E l’ultima finanziaria condotta dal ministro dell’economia e delle finanze Giulio Tremonti ha tagliato i fondi dappertutto. E’ inutile dire che non è una questione di soldi, e che questi “non fanno la felicità”. I soldi oggi rappresentano un bisogno di garanzie, una necessità per un Paese che ha il debito pubblico tra i più elevati al mondo e che sta affrontando una eccezionale crisi economica.

Secondo me occorre orientare l’attenzione su queste problematiche, sulla conservazione e protezione dei beni culturali, sulle riforme, e non perderci in chiacchiere da gossip inutili come la storia di una escort marocchina o il caso di Avetrana. Quest’ultimo in particolare, è diventato l’unico argomento giornalistico degli ultimi mesi, che ha trasformato un killer in una star mondiale, un avvocato d’ufficio in personaggio televisivo (tra poco lo vedremo ospite anche dalla De Filippi), e un inviato delle reti Mediaset come Remo Croci (trasferitosi ad Avetrana da due mesi) in una vittima sacrificale. Basta. Non se ne può più. Non mi meraviglierei se creassero un gruppo su facebook, dal titolo: “Remo torna a casa!”.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Daniele Urciuolo

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Libero accesso WiFi? C’è ancora molto da fare

postato il 11 Novembre 2010

Partiamo dal principio, per non perderci nulla. Dunque, viviamo in un Paese, l’Italia, che ha trascorso beatamente un sacco di tempo con una norma retrograda e assolutamente inutile (una delle tante, direte voi: avete ragione) che è stata in grado di bloccare sul nascere la nascita di una Rete libera, indipendente e facilmente accessibile anche da noi. Ricordarvi di quale legge stiamo parlando, è finanche eccessivo, ma tant’è, fatto trenta facciamo trentuno: si tratta dell’ormai celeberrimo Decreto Pisanu, famoso – suo malgrado – per aver impedito all’Italia di essere al pari dei propri cugini europei in materia di accessi wireless ad Internet. Con i disastrosi effetti che ben conosciamo: se il Wi-fi fosse stato liberalizzato molto tempo fa, probabilmente oggi vedremmo, davanti ai tavolini dei bar, giovani che avrebbero la possibilità di restare connessi semplicemente con un portatile e con zero fili. Una vera e propria rivoluzione culturale, perché l’aver confinato Internet nelle abitazioni ha reso la Rete un mezzo esclusivamente privato, da utilizzare solo – magari – per chattare e controllare la posta.

E invece no, perché il World Wide Web è ben altro: è un mezzo di emancipazione sociale, una delle più alte conquiste democratiche della nostra storia; non luogo di solo svago, ma di vita attiva. Ma volete mettere la possibilità di poter conoscere le ultime notizie in tempo – veramente – reale, di poter leggere i giornali quando e come ci pare, di poter stare “on-line” 24 ore su 24?

Succede, però, che a un certo punto – dopo una lunga e serrata protesta da parte degli esperti e una proposta di legge targata Api-Fli-Pd-Udc (ne abbiamo parlato qui) – dalle parti del Governo ci sia reso conto che avanti così, proprio non si poteva andare. E così si è corsi ai ripari: dopo un iniziale gioco dello scaricabarile tra Vito, Brunetta e Maroni, alla fine il CDM si è deciso di “abrogare” il Decreto Pisanu. Cioè, un attimo: “abrogare” è una parolona grossa. Infatti, come ci spiegano bene Fabio Chiusi sul Nichilista, Massimo Mantellini su Il Post e Guido Scorza sul blog de Il Fatto, il tutto potrebbe rivelarsi un gigantesco bluff.

L’articolo 7 del Decreto Pisanu prevedeva tre obblighi per chi intendesse fornire un collegamento Wi Fi o collegarsi a una rete WiFi in Italia:

  1. l’obbligo di chiedere “la licenza al questore” (comma 1)
  2. l’obbligo di monitorare “le operazioni dell’utente” e “l’archiviazione dei relativi dati” (comma 4)
  3. l’obbligo di attivare “misure di preventiva acquisizione di dati anagrafici riportati su un documento di identità” (comma 4)

Ora, dei tre punti soltanto il primo è a scadenza (nel decreto è indicata la data 31 dicembre 2007, poi prorogata di anno in anno). Per gli altri due, e lo afferma il deputato del Pdl Roberto Cassinelli, sarà invece «necessaria una nuova legge che vada a modificare la singola disposizione». Inoltre (come spiega laconicamente il sito del Governo), da oggi in poi “pur mantenendo adeguati standard di sicurezza, è previsto il superamento delle restrizioni al libero accesso alla rete WiFi”. Ora, domandina semplice semplice: in che modo si vogliono mantenere “adeguati” questi standard di sicurezza? L’ipotesi più probabile pare sia l’introduzione di un sistema di identificazione via sms: l’utente immette on line il proprio numero di cellulare e a quel punto riceve una password con cui può accedere alla Rete. È vero, già l’abolizione di alcune parti del Decreto Pisanu permetterà di sburocratizzare e facilitare l’accesso ad Internet, ma che senso ha mantenere validi sempre laccioli e legacci vari? Mi sembrano assolutamente inutili e fuori luogo e dello stesso parere è Alessandro Giglioli, che scrive“Curioso tuttavia che queste «esigenze di identificazione», motivate con ragioni di prevenzione antiterrorismo, non vengano avvertite in tutti gli altri Stati occidentali dove la navigazione senza fili è libera, sebbene ci siano stati casi molto significativi di attentati, a partire dagli Stati Uniti”. Curioso, eh? In sostanza, il Governo ha avviato l’iter di “liberalizzazione” della Rete, ma si tratta ancora solo di un timidissimo passo. Resta ancora moltissimo da fare e prima che dall’emendare le leggi, bisognerebbe partire dal rivoluzionare la cultura di alcuni di noi. Per far capire, finalmente, che Internet non morde. Anzi.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

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Immigrati, il Governo nella trappola libica

postato il 11 Novembre 2010

Corsi e ricorsi storici sulle sabbie dei deserti libici. Sembra non far eccezione questo esecutivo, che come tanti altri ha avuto a che fare con problemi legati a quella terra.

Lunedì, nel corso di un voto alla Camera sulla ratifica del Trattato di amicizia italo-libico, la maggioranza è stata battuta dal voto dell’opposizione. La mozione rimarcava ciò che l’UDC chiede a gran voce da oltre due anni, da quando cioè è stato siglato il patto tra i Roma e Tripoli: maggiori garanzie sui diritti umani dei rifugiati.

Il governo ha dapprima acconsentito, in seguito con un inspiegabile passo indietro, si è rifiutato di riconoscere l’estensione della tutela ai migranti nei confronti degli abusi libici. Sono note le vicende dei migranti che oltrepassano il confine libico da sud, per dirigersi verso la costa: coloro che scampano alle terribili condizioni ambientali del deserto, si trovano catapultati in quelle quasi peggiori dei campi di prigionia.

Nel caso degli eritrei, oltre al rimpatrio, si aggiunge la consapevolezza che il regime di Asmara ha già provveduto a punire anche i congiunti. Persino il costo economico, non solo quello umano dell’accordo è esorbitante: 180 milioni di Euro all’anno per 18 anni.

La crisi di governo si acuisce quindi su un tema fondamentale quali sono i diritti umani e che, a quanto pare, agli occhi del PDL e della Lega, non sono temi così assodati.

Anche la sponda opposta del Mediterraneo non sembra essere immune a crisi politiche. E’ in corso da tempo una battaglia politica tra ciò che è definibile la vecchia e la nuova guardia del regime: da una parte l’establishment che fa capo al primo ministro Baghdadi Ali al-Mahmudi, interessato a conservare l’attuale struttura di potere; dall’altra il figlio del leader stesso, Seifulislam Gheddafi, che con questa mossa tenta di ipotecare il potere per sé nel momento in cui si dovesse aprire la successione.

Lo scontro ha raggiunto il suo acme venerdì, quando per ordine del primo ministro, 20 giornalisti del quotidiano “al-Ghad”, critico nei confronti dell’operato del governo al punto da accusarlo di corruzione, sono stati tratti in arresto sino a domenica. Solo l’intervento di Gheddafi in persona ha sbloccato la situazione.

Suo figlio Seifulislam sponsorizza Jallud, già capo dell’esecutivo dal 1972 al 1977 ed allontanato dalla vita politica nel 1988 in seguito a dei contrasti nati con il Colonnello in occasione della strage di Lockerbie. Le ripercussioni politiche internazionali di questa lotta di potere potrebbero essere nel breve periodo irrilevanti: la struttura è infatti saldamente nelle mani della famiglia Gheddafi, che con l’esclusione di al-Mahmudi accentrerebbe ulteriormente nelle proprie mani il controllo del paese, con scarse possibilità di assistere ad un cambiamento sostanziale di politica, anche in materia di rispetto dei diritti umani.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Federico Poggianti

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Università italiana, codice rosso

postato il 10 Novembre 2010

La classifica stilata dal settimanale inglese “The” (Times higher education, costola del quotidiano “The Times”) non lascia dubbi: tra i primi duecento atenei del mondo nessuno di questi è italiano. Probabilmente per chi lavora in ambito universitario e si trova quotidianamente a combattere una vera e propria lotta per la sopravvivenza questa classifica non dice nulla di nuovo, ma per tutti gli altri, governo in primis, dovrebbe rappresentare un tremendo campanello d’allarme.

I 78 atenei italiani (pubblici e privati) risultano surclassati non solo da prestigiose istituzioni accademiche come Harvard, Oxford, Cambridge o il Politecnico francese ma anche da minuscoli atenei come quello della città di Bergen (Norvegia) che conta 250 mila abitanti e dalle università cinesi, egiziane e turche.

La classifica redatta dal settimanale inglese ha tenuto conto della ricerca prodotta nei singoli dipartimenti, della qualità della didattica, degli stimoli creati dall’ambiente accademico ed anche del livello di retribuzione di docenti e ricercatori, e ha il fine dichiarato di orientare i giovani per le future scelte accademiche. Cosa faranno i giovani italiani davanti a questa terribile classifica? Si consoleranno con un’altra ricerca di Qs, gruppo leader dell’Mba Tour, che nella sua top 200 vede l’università di Bologna (176° posto) e La Sapienza di Roma (190° posto), oppure, molto più probabilmente, faranno carte false per lasciare questo Paese? I più, probabilmente, si accontenteranno di riuscire a strappare una misera laurea nella giungla universitaria italiana da appendere al muro per correre a lavorare nel call center.

Tutto ciò a patto che gli studenti trovino ancora i cancelli delle università aperti:  è di questi giorni infatti l’allarme dei rettori degli atenei del meridione riuniti a Palermo che hanno paventato la scomparsa delle università del sud a causa dei tagli e del federalismo. Il rettore dell’Università di Palermo, Roberto Lagalla, ha denunciato non solo la contrattura delle risorse per scuola e università ma anche la differenza tra quanto avviene in Italia e nel resto d’Europa dove, nonostante la crisi, si continua ad investire su scuola, università e ricerca.

Del gap in materia di scuola e università tra Italia e resto d’Europa ci aveva già avvertito a settembre il rapporto OCSE sull’istruzione secondo il quale il nostro Paese spende solo il 4,5% del Pil nelle istituzioni scolastiche contro una media europea del 5,7%. A rimetterci molto sono le università. Sul rapporto infatti si legge che la spesa media per studente inclusa l’attività di ricerca è 8.600 dollari contro i quasi tredici mila Ocse. In generale risulta dunque che l’Italia investe ancora poco e male nell’istruzione con un contraccolpo importante per lo sviluppo economico. Lo stesso Segretario generale dell’organizzazione Angel Gurria, durante la presentazione del rapporto, ha sottolineato come “ l’istruzione, mentre siamo alle prese con una recessione mondiale che continua a pesare sull’occupazione, costituisce un investimento essenziale per rispondere alle evoluzioni tecnologiche e demografiche che ridisegnano il mercato del lavoro”.

Questi dati, in un paese normale, allarmerebbero anche un bidello figurarsi il capo del governo o il ministro dell’istruzione e dell’università, ma qui siamo in Italia e non ci si scompone nemmeno se Pompei va in macerie. Figuriamoci l’Università.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Polo chimico di Pioltello: una storia infinita, un danno per il territorio, un costo per l’Italia

postato il 7 Novembre 2010

La storia del polo chimico di Pioltello sta facendo sempre più notizia anche sui network nazionali. L’importanza e la delicatezza del tema sono sotto gli occhi di tutti. Ma forse non tutti hanno capito bene quale sia il problema esistente sul territorio dei comuni di Rodano e Pioltello. Nel 2004 l’Unione Europea aveva ingiunto al Governo italiano di ripulire le tre discariche della ex Sisas di Rodano – Pioltello, considerate “una minaccia per l’aria e le acque locali“.  Nel 2006 il Governo italiano che aveva in Romano Prodi il presidente del consiglio, avviò la procedura che portò all’Accordo di Programma tra Ministero, Regione e Comuni di Rodano e Pioltello, con l’affidamento della bonifica ad una società dell’ormai famoso “re delle bonifiche” Giuseppe Grossi.

Nell’estate di quest’anno, dopo la rinuncia di Grossi (che chiedeva indietro i soldi spesi fino a quel giorno), il Governo Berlusconi ha nominato un Commissario straordinario alla bonifica, Luigi Pelaggi, con l’incarico di terminare la bonifica dell’area in tempo utile per evitare l’incombente multa europea.

Grossi avanzava la richiesta di riavere indietro i 29 milioni di euro (di cui 4 per l’acquisto dell’area, e 25 per le bonifiche effettuate prima di rinunciare alla pulizia totale dell’area). Il commissario Pelaggi invece ha deciso di rivalersi su Grossi per cercare di recuperare i 36 milioni di euro (soldi pubblici) spesi per completare la bonifica. Facendo due semplici conti, per liberarsi della faccenda e mantenere la proprietà dell’area Grossi dovrà restituire allo Stato italiano circa 11 milioni di euro (derivanti dalla sottrazione 36 – 25= 11), oppure versare 7 milioni di euro cedendo l’intera area alla proprietà pubblica.

Lo Stato inoltre rischia di avere altri danni derivanti dal mai avvenuto versamento di una fideiussione di 60 milioni di euro, cifra che Grossi avrebbe dovuto consegnare alla Regione come garanzia dei lavori, che però non sono mai stati versati.

Poche settimane fa Pelaggi, in una intervista lasciava trasparire la speranza che l’Unione Europea sospendesse l’ultimatum del 31 dicembre 2010 visto che la pulizia di una delle tre discariche era terminata; mentre per la seconda si è passato il 50% della pulizia e la terza sarà svuotata entro il 31 marzo 2011.

Pochi giorni fa, il 28 ottobre 2010, la Commissione Europea ha rinviato l’Italia davanti alla Corte di Giustizia Europea per il mancato rispetto della sentenza del 2004, chiedendo di applicare le sanzioni retrodatate, appunto al 2004, per un totale di circa 400 milioni di euro.

Dal 1 gennaio 2010 si accumuleranno 200.000 euro di multa al giorno Se la Corte comminerà davvero la multa nella sua interezza, l’Italia dovrà versare all’Europa una cifra pari a circa cinque volte il costo della bonifica.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Tommaso Da Dalt e Andrea Galimberti (Gruppo GxP)

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Caro Cav., serve un po’ di fosforo?

postato il 6 Novembre 2010

Come capita ormai da molti mesi il Cav. alterna alle polemiche con l’opposizione ed in particolare con l’UDC, inviti ad entrare in maggioranza. Per fare il punto su questo e chiarirci un pò le idee è necessario fare un passo indietro, al 2008, e ricordare in che clima, alla vigilia delle elezioni politiche, era vissuta la vicenda politica italiana.
Vi cito alcuni titoli dei giornali di allora:
La RepubblicaVotare l’U.D.C. è votare Veltroni, Berlusconi attacca l’ex alleato” marzo 2008;
Il Giornale“Sondaggio: l’U.D.C.da sola si ferma al 2,9 % Marzo 2008;
La Repubblica“Berlusconi non fa sconti all’U.D.C.: Venga nel P.D.L., non ha storia 13/02/2008;
Il Sole 24 ore: “Scudo crociato con il P.D.L., U.D.C.: E’ una truffa” febbraio 2008;
L’Unità: “L’ordine è: Distruggere l’U.D.C.” 02/03/2008;
La Stampa: “Berlusconi: Sicilia presa e l’U.D.C. non farà il quorum” 07/04/2008;
Ma la chicca finale è questa:
Il Giornale“Berlusconi: Vinceremo e stavolta senza l’U.D.C. sarà un’altra musica,  04/04/2008.
Come si può notare la ricerca ha spaziato tra testate giornalistiche di varia area politica, ma basta ascoltare anche come la pensava in occasione delle scorse regionali.
Venendo al dunque, mi chiedo: chi abbiamo come Presidente del Consiglio?
Sicuramente abbiamo a che fare con uno smemorato.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Paolo D’Addario

ps: lasciate tra i commenti altre segnalazioni di ottima memoria.

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A voi la rassegna stampa, buona lettura!

postato il 5 Novembre 2010

Cari lettori,

avrete sicuramente notato che da qualche settimana a questa parte il nostro blog si è arricchito di una “nuova” rassegna stampa quotidiana: ogni giorno, infatti, potrete trovare una miscellanea degli articoli più interessanti e utili tratti dai giornali cartacei o online. Politica, attualità, economia, tecnologia e società: tutto ciò che serve per farsi un’idea e un’opinione di quello che accade intorno a noi.

Ovviamente, il tutto è ancora in fase sperimentale: ci perdonerete quindi piccoli errori o sviste iniziali. Vi promettiamo che faremo di tutto per migliorarci, giorno dopo giorno, con il vostro aiuto: aspettiamo (numerosi) i vostri commenti e i vostri consigli (e perché no, anche i vostri appunti!). E mi raccomando, sotto ogni post troverete i tasti di sharing: facciamo girare su Internet la nostra rassegna stampa “ragionata”! Leggete, commentate e condividete! Do you like it?

Giuseppe Portonera

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Geopolitica: La Tigre ed il Dragone.

postato il 4 Novembre 2010

Il nuovo secolo molto probabilmente aprirà una pagina inedita nella storia dell’Umanità. Per la prima volta infatti, l’epicentro politico, economico e militare di un mondo dove i confini sono sempre più labili, non si troverà in una capitale europea o nordamericana, ma in Asia. E’ arrivato il momento degli astri nascenti orientali.

I presupposti per una leadership indo-cinese si stanno manifestando tutti, proporzionalmente allo sviluppo dei due colossi. Entrambi i paesi possiedono l’arma atomica: la Cina dal 1964 mentre l’India nel 1974. Mentre la Bomba cinese traeva la propria origine dalla logica imposta dalla Guerra Fredda, in qualità di alleata di Mosca, l’atomica indiana traeva la propria legittimazione dapprima dalla volontà di supremazia strategica, in seguito nella mera deterrenza del confinante Pakistan.

L’India, infatti, si dotò di armi atomiche prima del Pakistan con l’intento strategico di imporre al paese confinante una sfera di influenza coperta dal proprio ombrello atomico. Ma il programma atomico segreto pakistano mandò all’aria i piani di Delhi, poiché già nel 1982 il Pakistan possedeva cinque testate atomiche. La supremazia indiana si trasformò in deterrenza.

Lo sviluppo atomico cinese fu dettato da esigenze diverse: nei tardi anni ’50 la Cina era ancora in stretti rapporti con l’Unione Sovietica. I rapporti andarono progressivamente deteriorandosi, sino alla rottura definitiva tra maoismo e comunismo sovietico. E’ in un’ottica di affermazione della propria sfera geopolitica che nasce il programma nucleare cinese.

Oggi, la capacità atomica dei due paesi a confronto è ben differente: la Cina ha sviluppato circa 400 testate nucleari, contro le “modeste” 65 indiane; ciò peraltro riflette le differenti necessità per cui sono state sviluppate dei rispettivi governi. La convivenza dei due colossi non è stata sempre pacifica, e, a dire il vero, considerarla tale anche al giorno d’oggi è un errore.

I due paesi sono pervenuti ad una guerra aperta nel 1962, passata alla Storia come Guerra Sino-Indiana, per la demarcazione di confini ereditati dall’Impero Britannico e mai definitivamente consolidati, complice anche l’aspro territorio che separa i due stati. Le ostilità scoppiarono per il controllo dell’Aksai Chin, un altopiano desertico sito a 7000 metri d’altezza e praticamente disabitato. In ballo c’era però ben altro: lo stato federato indiano dell’Arunachal Pradesh, che confina con la Cina e che i cinesi considerano come Tibet meridionale.

La pace non è mai stata siglata, si è giunti solo ad un armistizio. Dal 2004 i cinesi hanno ripreso a premere sulla frontiera indiana di nord-est, complice anche il ritrovato feeling tra Nuova Delhi e Washington nella Guerra al terrorismo voluta dalla presidenza Bush.

Cina ed India, hanno storicamente esercitato una influenza determinante sugli innumerevoli stati di piccole dimensioni che li attorniavano. Il Paese del Drago, estende più o meno direttamente la propria influenza su tutta l’area dell’Estremo Oriente. Il caso più eclatante di questa influenza è rappresentato dalla Corea del Nord, il regime comunista al potere nel paese dal 1948, è il più fedele alleato di Pechino. Isolato dalla comunità internazionale, con un’economia al collasso ed una popolazione che risente ancora della carestia che dal 1995 ha messo il paese in ginocchio, la Cina rappresenta una sorta di “fratello maggiore” per la nomenklatura ed il popolo nord-coreano. La scheletrica economia nordcoreana si basa praticamente solo sugli aiuti che pervengono dall’estero, principalmente da Pechino. Sono proprio questi aiuti che permettono all’establishment politico, militare e burocratico di reggersi in piedi a fronte di una situazione interna che Amnesty International ed Human Right Watch giudicano tra le peggiori al mondo. In cambio, il regime nordcoreano garantisce una lealtà unica al Fratello Maggiore, arrivando a modellare il proprio interesse nazionale su quello cinese.

Altri paesi che risentono dell’espansione cinese sono quelli che storicamente si ponevano come baluardo occidentale in Estremo Oriente: Giappone, Taiwan e Corea del Sud. Il Paese del Sol Levante ha negli ultimi anni iniziato un lento ma inesorabile riavvicinamento alla Cina. Nonostante dallo scorso settembre i rapporti tra i due paesi si siano raffreddati a seguito di un incidente in acque contese, il Giappone prosegue nella direzione di voler migliorare i rapporti tra due giganti economici, affrancandosi progressivamente dall’influenza statunitense che nell’ultimo mezzo secolo ha garantito ai nipponici uno sviluppo economico a cifre doppie apparentemente inarrestabile, al prezzo di una limitazione effettiva della propria presenza geopolitica nell’area.

Con la Corea del Sud e Taiwan i rapporti restano invece più complessi: la prima infatti non ha mai siglato la pace con la Corea del Nord, mentre Taiwan (ufficialmente Repubblica di Cina), non è riconosciuta dalla Repubblica Popolare Cinese come uno stato indipendente, ma come una mera provincia ribelle. Taiwan, al termine della Lunga Marcia che portò i comunisti al potere in tutta la Cina continentale, divenne il rifugio dei nazionalisti. Sotto la protezione occidentale, ed in particolare statunitense, il governo nazionalista cinese si proclamò come unico legittimo, aprendo una crisi che prende le mosse dal 1949.

La tensione giunse al culmine allorquando i cinesi comunisti tentarono di forzare militarmente Taiwan nel 1958, non vi riuscirono, grazie in particolar modo all’aiuto militare americano.

Nel 1970, tuttavia, la Cina registrò una importante vittoria: il seggio di membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sino ad allora ricoperto da Taiwan, le fu ceduto. Oggi, sono pochi gli stati al mondo che intrattengono relazioni diplomatiche con la Cina insulare: la quasi totalità della comunità internazionale riconosce ormai come legittimo interlocutore Pechino. E’ importante però notare come gli ultimi paesi in ordine cronologico a discostarsi da Taiwan, chiudendo le relazioni diplomatiche, siano paesi in via di sviluppo, dove l’interesse per i capitali cinesi è così forte da spingere a questa scelta.

La sfera d’influenza indiana invece sembra concentrarsi sui propri confini: stati himalayani come il Nepal o il Bhutan, sono perfettamente incastonati nella corona montuosa di Nuova Delhi. Il Bhutan, piccolo regno montuoso, deve il 37% del proprio PIL agli aiuti economici indiani.

A sud, principale punto di focalizzazione dell’interesse politico è lo Sri Lanka. Dilaniato da anni di lotte civili che vedevano da una parte il governo e dall’altra i guerriglieri socialisti indipendentisti conosciuti come Tigri Tamil, il conflitto, iniziato nel 1970, è terminato con la vittoria governativa nel 2009, dopo una violenta offensiva militare che ha posto fine al controllo delle Tigri nel nord dell’isola. E’ impensabile che ciò sia potuto accadere senza un tacito accordo indiano, che vede nella guerriglia maoista particolarmente forte nello stato del Bengala Occidentale, uno dei peggiori nemici alla stabilità del paese.

Le tensioni interne che si manifestano regolarmente tanto in India quanto in Cina non sono altro che il prezzo di una crescita economica forsennata che crea inevitabilmente terribili squilibri sociali. La Cina, il cui tasso di crescita si attesta intorno al 9%, riesce ad arginare le tensioni sociali a patto che riesca a garantire una crescita annua notevole.

Ma un altro tipo di tensione cova sotto la cenere, quella etnica. Sono trascorsi due anni dall’esplosione di violenza in Tibet, seguita da quella nello Xinjiang ad opera della minoranza uigura. Pechino teme che il riconoscimento troppo ampio di culture estranee a quella Han, la maggioritaria, possa provocare un indebolimento inarrestabile del potere centrale del Partito.

In India invece, la situazione è diversa. La millenaria cultura indiana prevede una divisione sociale rigidissima, per caste. L’odierna democrazia indiana, ha acquisito questo elemento, integrandolo. Il voto è ancora diviso per caste, ma oggi, nonostante permanga la struttura, il sistema si è evoluto. La Costituzione indiana, pur tutelando fortemente i diritti delle classi più deboli, come i dalit (o intoccabili), prevedendo quote riservate ad essi in materie come l’istruzione, il lavoro ed i seggi parlamentari, ad oggi non è pienamente applicata.

Anche l’India, inoltre, non è esente da tensioni etniche e religiose: tra queste vale la pena ricordare la lotta dei seguaci sikh che ha portato all’assassinio del primo ministro Indira Ghandi nel 1984 come rappresaglia per l’operazione condotta dall’esercito indiano contro i militanti asserragliati nel luogo più sacro a questa confessione: il Tempio d’Oro. Da non dimenticare infine, le conseguenze della crescita economica. Le stime danno il PIL indiano in crescita tra il 2010 ed il 2011 dell’ 8,5%. Per alimentare una macchina che brucia tanta energia, sono necessarie enormi quantità di materie prime.

La devastazione ambientale, che ha messo in ginocchio intere popolazioni, sommandosi ai fenomeni di squilibrio sociale tipico delle economie in ascesa, hanno dato vita a tensioni in molti stati indiani. Gli slums, quartieri composti di baracche che si estendono a perdita d’occhio nelle periferie delle megalopoli indiane, sono la cicatrice che lo sviluppo incontrollato lascia sulla faccia dell’India. A poche decine di chilometri, i centri di sviluppo delle maggiori aziende hi-tech mondiali, che in questo paese trovano giovani laureati competenti ed un costo del lavoro competitivo.

Ecco il grande motore dell’India: accanto alla onnipresente Tata, che oltre a fabbricare auto, investe con l’aiuto del governo in comparti strategici come l’energia, ci sono le ditte occidentali e l’hi-tech.

Oggi, sembra che Cina ed India stiano vivendo uno sviluppo senza controllo né direzione. Vale la pena ricordare che i due paesi rappresentano 1/3 della popolazione mondiale e che si stanno affacciando alla ribalta di un mondo mai così globalizzato prima d’ora. La penetrazione cinese in Africa è la dimostrazione di quanto la necessità di approvvigionarsi di materie prime unitamente a quella di trovare nuovi mercati alternativi ad un Occidente sempre più coperto dai debiti, spingeranno i due colossi ad una gara senza tregua.

Il potenziale militare, oggi ancora secondario, assumerà presto una valenza primaria, concentrando definitivamente l’egemonia economica e militare in mano a dei paesi geograficamente e culturalmente lontani da quello che da quasi due millenni è stato considerato il centro del mondo: l’Europa. C’è da giurare che la Tigre ed il Dragone tireranno fuori di nuovo le zanne, una volta che il mondo sarà diventato troppo piccolo per contenerle entrambe.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Federico Poggianti

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Abbiamo voluto dar vita ad una serie di post riguardanti la politica estera. I motivi di questa volontà di approfondimento li trovate qui, nel post introduttivo.

Allego alcuni siti internet che trattano di politica internazionale e di geopolitica in maniera completa, affinché i lettori possano approfondire:

In lingua italiana, uno dei più completi:

http://temi.repubblica.it/limes/

In lingua inglese, si tratta di due periodici statunitensi specializzati in geopolitica.

Entrambi estremamente interessanti e completi:

http://www.foreignaffairs.com/

http://www.foreignpolicy.com/

Sempre in lingua inglese, il settimanale britannico di economia più famoso al mondo.

Con un occhio di riguardo allo sviluppo delle potenze emergenti:

http://www.economist.com/

In lingua francese, mensile di geopolitica del giornale Le Monde.

Si tratta di un giornale di sinistra, ma che propone sempre spunti di riflessione interessanti e profondi:

http://www.monde-diplomatique.fr/

Buona lettura!

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