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L’Italia e la vespa: sogno di una favola moderna

postato il 22 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Marta Romano


Immagino Te, Italia mia, come una Vespa, una di quelle Vespe rosse fiammanti che hanno fatto la storia del nostro Paese nel dopoguerra, quel Paese che cresceva senza sosta, mosso da entusiasmo e voglia di fare, dalla gioia di tornare a vivere. Quella Vespa correva, sfrecciava col vento di cambiamento che investiva l’Europa intera, correva senza fermarsi, neanche davanti ai dossi e alle salite, che allora erano già molto ripide. Correva veloce perché la guidavano mani abili, di persone premurose, che tenevano all’incolumità di quella Vespa rosso fuoco più della loro stessa vita e che per questo, nel loro viaggio in sella a quel veicolo, hanno fatto di tutto per evitare pozzanghere, fango e breccia, per farla sfrecciare senza incidenti.

Purtroppo, però, Paese mio, cara Vespetta, sei stata sfortunata: hai subito troppi passaggi di proprietà. Ben presto gli autisti sono diventati più incauti, si sono divertiti a fare manovre spericolate e, troppo fiduciosi della tua carrozeria, non hanno evitato le buche, che poi sono diventati crateri: ci sono finiti dentro, hanno sfiaccato gli ammortizzatori di quel veicolo che sembrava così forte, così imbattibile. Ma non si sono arresi.

Ti hanno svenduta ai migliori offerenti. Ti hanno svenduta a chi  non aveva neanche la patente per guidarti, a chi aveva promesso di renderti più bella, di ridarti lucentezza e che, invece, ne ha approfittato per portarti attraverso sentieri paludosi, sporchi e maleodoranti, attraverso  “Rione degli Spot” , “Viale del Clientelismo” e  “Via della Corruzione”. Attraverso le strade lerce e pericolose della città più brutta di sempre “MalaPoliticopoli”.

Eppure Tu sei forte, Vespetta-Italia, sei forte. Sei ancora viva, il tuo motore va più lento, perché nessuno l’ha mai ripulito, ma corre ancora. La tua carrozzeria è diventata scura, nera di polvere e di fango, ma sotto quella coltre fumosa si vede ancora il ruggito di quel rosso fiammante. C’è qualche graffio qui è lì, ma sei ancora in piedi. Hai rischiato di cadere, ma sei ancora lì.

Ora, però, quel cavalletto così forte, che ha retto il peso di tanti anni di difficoltà, è stremato. Italia mia, mai come adesso hai bisogno di mani forti che ti tengano ben salda, che ti riportino a correre e sfrecciare, per non lasciarti ancora ferma, col rischio di cadere giù e renderti un rottame da demolire.

E allora, adesso tocca a noi, a noi tutti: riverniciamo insieme la nostra Vespa, il nostro Paese, diamole nuovo lustro. E per farlo ripartiamo dal Sud, da quel Sud che può essere il motore di questa nuovo veicolo. Rimettiamolo in sesto, puliamo il carburatore dalle ortiche che lo ostruiscono e ripartiamo alla velocità della luce. Facciamo urlare ancora quel motore, ascoltiamo insieme il suo boato, corriamo insieme a lei, alla nostra Vespa, col vento tra i capelli. Ripartiamo insieme e, perché no, ripartiamo dal Sud.

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Partecipazione, la scommessa per il futuro

postato il 21 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Carlo Lazzeroni

Il tema della “partecipazione” mi affascina molto da quando, ormai dieci anni fa, frequentando il Master in Analisi Politiche Pubbliche ho avuto la fortuna di conoscere quel filone di studio e di “pratica” della forma di democrazia, definita deliberativa / partecipativa e il suo massimo esponente in Italia, il prof. Luigi Bobbio. A queste teorie e pratiche io mi riferisco quando si parla oggi di partecipazione alle scelte pubbliche, seguendo appunto quanto già sperimentato da tempo negli Stati Uniti (dove questa metodologia è nata) e in molti altri paesi anglosassoni e del Nord Europa, dove di fronte a delle scelte pubbliche, si avviano processi di inclusione dei cittadini e/o dei vari attori portatori di interesse, per arrivare a decisioni più ampiamente dibattute e condivise.

Questo nuovo e maturo “approccio” democratico nella gestione della cosa pubblica, mi pare ancora più utile nel nostro paese per tre motivi: – il crescente movimento di cittadini e comitati frutto della sindrome Nimby (dall’inglese Not In My Back Yard, che significa “Non nel mio cortile”), di fronte ad ogni tipo di opera proposta sul territorio; – una classe politica sempre meno autorevole e all’altezza di guidare democrazie sempre più complesse; – un crescente interesse dei cittadini, specialmente i più giovani che, con la rivoluzione tecnologica godono di un accesso di informazioni molto più elevato rispetto al passato, vogliono sempre più essere protagonisti delle scelte che riguardano il bene comune e la società, anche quando non direttamente “nel proprio giardino”. E’ infatti assodato che nelle nostre democrazie, ogni intervento di un certo impatto economico, ambientale o sociale che sia, provoca scontenti e potenziali “conflitti” sul territorio coinvolto. E se un tempo era relativamente facile assolutizzare l’interesse generale dichiarando, per esempio, una certa opera «di interesse nazionale» e troncare così le possibili opposizioni, liquidandole come espressioni localistiche, particolaristiche o miopi, oggi questa operazione risulta molto più complicata.

Di fronte a tutto questo sicuramente non basta più lo slogan “Sono stato eletto e devo governare!”, così come insufficiente appare l’approccio tradizionale: io Autorità decido una cosa (ad esempio il sito di un impianto di smaltimento dei rifiuti o il passaggio di una autostrada) con criteri tecnici e poi cerco di mostrare la bontà di questa scelta alle comunità locali e ai cittadini. Questi quasi sicuramente daranno vita a comitati che protestano, si oppongono e bloccano l’opera. Da lì si cercherà di negoziare e correre ai ripari, ma ormai è troppo tardi. L’approccio della democrazia partecipativa invece si basa sullo “Svegliar il can che dorme”, cioè non nascondere le criticità di un progetto, coinvolgendo direttamente e fin dall’inizio le comunità locali, gli attori più coinvolti e i cittadini nei criteri di scelta. La regola principe dovrebbe essere: non mettere più la gente di fronte a una soluzione, metterla di fronte al problema, espresso bene da uno studioso del tema con queste parole: “Guardate che il problema in questi casi, non è quello di trovare un sito, come luogo fisico, bensì una comunità che sia disposta ad accoglierlo”.

Questi concetti stanno dentro un principio che dovrebbe essere fondamentale nelle nostre società moderne e cioè che i cittadini che subiscono degli impatti (ambientali, sociali, economici) dovrebbero essere rappresentati nei processi decisionali. “Nessun impatto senza rappresentanza” che, in fondo, è una parafrasi del principio: no taxation without representation, all’origine del parlamentarismo moderno. Anche in Italia ormai dalla fine degli anni ’90 ci sono stati diverse sperimentazioni e applicazioni di queste teorie. E’ la Toscana però la prima regione in Italia e al Mondo che ha deciso addirittura di dotarsi di un’apposita legge, la 69 del 2007. Legge che, attraverso la costituzione di un’Autorità regionale per la partecipazione (indipendente) mira a promuovere sia in generale, sia su tematiche specifiche e locali, il coinvolgimento dei cittadini nelle politiche pubbliche. Io avevo mostrato delle perplessità sulla necessità di un’apposita norma in materia. A distanza di quattro anni e di un bel po’ di esperienze e progetti finanziati dalla legge (86 di fronte a 164 richieste pervenute), si deve però riconoscere che la nostra regione può a buon diritto rivendicare l’esperienza più avanzata in Italia e una delle più avanzate in Europa in questo tipo di “approccio” democratico.

Rimane però un punto critico secondo me molto importante: la pratica partecipativa come l’abbiamo finora intesa non è stata ancora sperimentata in nessun progetto a forte criticità e rilevanza sul territorio. E se è vero che ogni progetto di partecipazione messo in piedi arricchisce comunque il capitale sociale di un territorio e quindi della società, credo che molto della sfida futura della democrazia partecipativa (e della stessa sopravvivenza della legge) si giocherà sulla riuscita applicazione del processo partecipativo su qualche opera importante, anche per superare le evidenti difficoltà, come dicevo prima, della “democrazia rappresentativa”. Che non è e non dovrebbe sentirsi in contrapposizione con questo “nuovo” approccio, visto che quasi sempre è proprio la politica e gli amministratori a rimanere protagonisti, perché sono loro a scegliere, su un certo tema, di dare vita ad un percorso di maggiore inclusione della popolazione.

L’ha capito bene il sindaco di Firenze, Matteo Renzi che, pur avendo un profilo di politico decisionista da “uomo del fare”, con le due edizioni dell’iniziativa “100 luoghi”, ha dato vita contemporaneamente a cento assemblee strutturate per ascoltare e coinvolgere i cittadini, su cento spazi della città da trasformare, immaginare e costruire. Quella di Renzi è un’iniziativa che mette in campo principi e metodi della “partecipazione”, seppure in forma estemporanea (una giornata) e con effetti un po’ da spot (non a caso non è uno dei progetti finanziati dalla legge regionale), ma al confronto con gli altri amministratori, il sindaco di Firenze appare un rivoluzionario. Tornando alla legge regionale sulla partecipazione, credo invece che il percorso intrapreso in questi mesi per la costruzione di una Moschea a Firenze, faccia parte di uno di quei progetti che potrebbero essere di “svolta” sul futuro della legge. Se infatti, come credo, attraverso questo percorso “difficile” si arriverà ad una scelta condivisa, o comunque si avrà una percezione positiva sul cammino intrapreso da parte dei cittadini e di tutti gli attori coinvolti, ci saranno degli innegabili effetti positivi, utili anche per convincere i politici più scettici (quasi tutti, anche coloro che hanno proposto e voluto la legge) ad utilizzare ed investire su questo tipo di metodi democratici. Altrimenti credo che la legge sia a rischio (visto che essendo innovativa, si è data anche una scadenza naturale, il 2012, a meno di nuove scelte legislative) e questo sarebbe una sconfitta. La Moschea allora ci salverà?

 

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Il difficile rapporto tra politica e archeologia

postato il 20 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Davide Delfino

Fin dai suoi esordi l’archeologia ha potuto contare su forti appoggi da parte della politica e delle ideologie. Si possono citare brevemente: l’incoraggiamento, in funzione nazionalista, di Napoleone III per le antichitá celtiche; l’incentivare, tra il XIX e il XX secolo, scavi nel Vicino Oriente e nell’Egeo da parte di Inghilterra, Francia, Germania e Italia, volto a rafforzare la presenza politica e l’egemonia culturale di questi Paesi; l’interesse dei nazisti per le ricerche della Forschungsgemeinschaft Deutsches Ahnenerbe finalizzate a trovare le tracce dell’ancestrale popolo ariano; l’appoggio del governo di Mussolini alle ricerche sulle antichitá romane; il proliferare nell’ Unione Sovietica del dopoguerra delle ricerche sui sistemi di produzione antichi, nell’ottica di dar risalto al lavoro operaio nel corso della storia.

Spesso la ricerca archeologica ebbe, quindi, supporto da parte dei poteri forti perché serviva, direttamente o indirettamente, per degli scopi politici, ideologici, geostrategici. Ora, nel tempo da molti considerato come periodo post ideologico, quale puó essere l’interesse della politca per l’archeologia e lo studio della storia dell’uomo in generale? Bisogna, prima, premettere due punti: 1) in passato le Scienze Archeologiche servirono per finalitá anche di basso profilo etico, basta scorrere alcuni degli esempi citati poc’anzi; 2) si intenderá in questa sede la parola politica non come lotta o dibattito tra partiti, ma nel suo significato piú ampio e genuino, ovvero: politica come comunitá di cittadini responsabili che direttamente o indirettamente prendono parte alla gestione della Stato, o meglio, nel senso aristotelico, “politica come amministrazione dello Stato per il bene di tutti”. (Aristotele: Politica)

Da un recente dibattito su “Politica e Archeologia” occorso durante il recente XVI Congresso dell’ Unione Intrenazionale di Scienze Presistoriche e Protostoriche (U.I.S.P.P.) tenutosi a Florianopolis in Brasile e co-coordinato dallo scrivente assieme a colleghi sud americani, é emerso che la politica, sia intesa come comunitá di cittadini che come Governi, ha bisogno dell’archeologia, soprattutto come motore di aggregazione sociale e di rilancio economico. Un esempio per chiarire. In Portogallo nel 1994 ci fu una forte battaglia civica in difesa delle migliaia di incisioni rupestri nella Valle del fiume Côa: in quell’occasione, quello che poi sarebbe diventato un patrimonio protetto dall’ U.N.E.S.C.O. rischiava di finire sotto le acque di un bacino idrico artificiale in progetto; si mossero comitati civici e singoli cittadini per salvare le incisioni, che risalgono in gran parte a 30.000/15.000 anni fa, e in questo frangente gli archeologi furono un agente determinante e il patrimonio archeologico un potente fattore di aggregazione sociale.

Per le “politiche” di oggi qual’ é l’utilitá dell’ archeologia e degli archeologi? A livello globale, piú strategico, un archeologo ha una visione panoramica su molteplici problemi che i governanti d’oggi si trovano ad affrontare, in quanto egli si dedica ad una disciplina che é multidisciplinare: non fraintendiamo, l’archeologo non é specialista in tutto. Ma lavora a fianco di geologi, antropologi, chimici, fisici, biologi, e anche storici, teorici dell’economia, artisti e talvolta filosofi. Avendo un contatto professionale con questi esponenti di vari discipline, riesce ad avere una panoramica di differenti visioni, approcci e saperi. Per esempio i problemi della gestione delle risorse naturali, oggi cosí attuali nella progressiva desertificazione di molte aree o nella carenza di forme di energia rinnovabili, sono, un motivo molto forte nello studio dei periodi antichi. E non solo usando i metodi che tutti conoscono e legano alla figura di “Indiana Jones”: si lavora bensí anche con la paleobotanica, lo studio dei suoli, l’antropologia, la geografia fisica, l’archeologia della produzione (che implica lo studio dell’uso e della gestione dei materiali). Un altro esempio illuminante é lo studio del paleoclima: non é una novitá per gli archeologi che l’uomo, nel corso della sua storia fin dall’ultima glaciazione (110.000-12.000 anni fa), ha sempre dovuto adattarsi all’ambiente circostante per sopravvivere: innovare le tecnologie che non erano redditize, mantenere quelle che garantivano il massimo risultato con il minimo costo, cambiare stile di vita e, spesso, territorio a seconda delle possibilitá di sopravvivenza.

Queste esperienze di lavoro multidisciplinari e applicate a periodi storici e preistorici, danno all’archeologo la capacitá di avere una visione pluridirezionale, stereoscopica delle cose e, nel contempo, di trasmettere alla comunitá, alla politica odierna, insegnamenti per gestire la”cosa pubblica” traendo spunto dalle scelte, ma anche dagli errori, dei nostri antenati.

In periodi di “crisi” come quello che viviamo ora, é quanto mai importante la gestione territoriale: 1)avere la capacitá di interpretare le necessitá e le potenzialitá nascoste di un territorio conoscendo la sua storia, le attivitá che l’ hanno costruita, le comunitá umane che l’hanno popolato fin dai tempi piú antichi 2) riuscire in base a questa analisi a trovare la soluzione migliore per coordinare delle azioni che possano rilanciare l’economia locale, soprattutto portando persone su quel territorio. Probabilmente in tutto ció la figura di un archeologo puó avere una parte importante e, forse, anche indispensabile

Che cosa puó dare la politica all’ archeologia? Sarebbe troppo banale dire finanziamenti. Forse é piú originale, concreto e fattibile dire: 1)appoggio a livello istituzionale; 2) piú spazio nei luoghi di gestione territoriale; 3)aiutare la visibilitá mediatica non dei novelli “Indiana Jones” degli archeoclub, ma dei professionisti che tutti i giorni lavorano sui cantieri, fanno formazione nelle Universitá (non solo i professori, ma i ricercatori che tengono i corsi senza ricevere un euro), realizzano incontri nazionali ed internazionali dove si dibatte sui grandi temi del passato che interessano anche il presente e il futuro, cercano di valorizzare il patrimonio archeologico e la ricerca sul campo sul territorio ( e con questo indirettamente contribuiscono al rilancio delle piccole economie locali); 4) facilitare un’azione educativa verso le nuove generazioni affinché comprendano che la conoscenza e la curiositá per il passato puó aiutare a gestire meglio il presente e pianificare in modo piú consapevole i futuro.

Infine, per tornare alla storia della disciplina, molti tra i piú noti archeologi ed epigrafisti italiani del “periodo d’oro” delle ricerche ( tra la fine del XIX secolo e gli anni ’20 del XX) sono stati senatori, legati quindi direttamente alla gestione dello Stato: Luigi Pigorini (1842-1925), Paolo Orsi (1859-1935), Domenico Comparetti ( 1835-1927), Giacomo Boni (1859-1925), Angelo Mosso (1846-1910). Ció non significa che l’archeologia italiana debba avere dei propri rappresentanti in Parlamento; ma se chi vi si trova avesse maggiore attenzione per la carenza di visibilitá istituzionale e la potenzialitá che ha l’archeologia e hanno gli archeologi per il futuro del Paese, sicuramente si avrebbe lo stesso un fondamentale contributo.

 

 

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Quale sviluppo senza soldi?

postato il 19 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Berlusconi da giorni annuncia per questa settimana un Decreto Sviluppo che dovrebbe dare una sferzata all’economia. Francamente questa affermazione mi fa tremare i polsi, visti i magri -se non pessimi- risultati ottenuti a gennaio scorso con la “frustata all’economia”.

Finalmente Berlusconi getta la maschera e ammette che “non ci sono i soldi”, un decreto che nasce monco. Nel frattempo tutto il popolo italiano chiede un intervento deciso e strutturale, e anzi oggi si è saputo dell’ultimo appello lanciato in una nuova lettera inviata al premier Silvio Berlusconi da Abi, Confindustria, Rete imprese Italia, Ania e Alleanza cooperative per affrontare la crisi con misure «concrete e credibili» nel dl Sviluppo, perché ormai «il tempo è scaduto». Che il tempo sia scaduto, lo sappiamo tutti. Lo sanno le famiglie che fanno la spesa, gli italiani senza lavoro, le imprese che faticano a tenere il passo con la concorrenza, anche il resto del mondo sa che per l’Italia il tempo dei temporeggiamenti e delle furbizie è scaduto. Eppure, Berlusconi continua a mostrare la sua noncuranza, sfiorando l’incoscienza, quando dice che soldi per lo Sviluppo non ce ne sono, ma che non ha fretta di presentare questo Decreto; anzi lo presenterà solo quando sarà sicuro. Sicuro di cosa? Non si sa.

Se il problema sono i soldi, allora spero che l’on.le Berlusconi ci legga, perché stavolta glielo scriverò a lettere maiuscole, visto che da questa estate lo ripetiamo e non riesce a comprenderlo: VENDA LE 6 FREQUENZE DIGITALI TELVISIVE CEH HA REGALATO A MEDIASET E RAI; HANNO UN VALORE DI CIRCA 3 MILIARDI DI EURO.

Dopo che abbiamo incamerato questi soldi, li usi per finanziare la banda larga in Italia, visto che il pieno sviluppo di questo strumento, poterebbe risparmi per 40 miliardi di euro e una crescita del PIL di circa 60 miliardi di euro, come abbiamo detto alcune settimane fa.

Come vedete, le idee ci sono, e i metodi per ottenere soldi senza spremere gli italiani pure; basterebbe ad esempio una lotta seria all’evasione, che sottrae ogni anno circa 250 miliardi di euro all’Italia. Questa lotta si dovrebbe fare distinguendo tra grandi evasori e chi è incorso nelle sanzioni, perché ridotto in miseria da questa crisi: nel primo caso sanzionare senza pietà (chi ha i grossi capitali deve pagare, non può evadere); per il secondo caso, la sanzione dovrebbe essere diluita e rateizzata nel tempo per non essere penalizzante.

Queste proposte, sono state portate avanti a più riprese dall’UDC, anche tramite emendamenti e ordini del giorno regolarmente rifiutati dalla maggioranza che dimostra una arroganza che rasenta la follia e l’incoscienza, oltre a produrre perdite enormi per lo Stato italiano, come nel caso della privatizzazione della Tirrenia che costerà allo stato più di quanto incasserà, ovvero a fronte di un incasso di 380 milioni, il governo si è impegnato a restituire agli acquirenti ben 576 milioni di euro (arrivando a perderci circa 200 milioni di euro).

L’ultimo caso di arroganza è legato al Ponte sullo Stretto di Messina: l’Unione Europea ha ritirato i fondi, ma il governo fa sapere che realizzerà lo stesso il Ponte, usando soldi pubblici e capitali dei privati. Ma siamo sicuri che i privati vorranno investire sul Ponte? Domanda legittima alla luce della situazione economica attuale, e soprattutto alla luce di alcune particolarità che esporrò in un successivo articolo.

Intanto il governo annuncia che a breve si saprà il nome del nuovo governatore della Banca d’Italia, che, a mio avviso, sarà quasi sicuramente Bini Smaghi, nome che il premier sta tirando fuori ora, ma che già era noto, visto che, per fare andare Draghi alla BCE, era necessario che Bini Smaghi si dimettesse e, all’epoca (parliamo di pochi mesi fa), il premier gli promise la carica di Governatore di Bankitalia.

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Dove sta la differenza tra indignazione e delinquenza

postato il 16 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera.

Quello che è successo oggi a Roma è terribile, incredibile e inammissibile. Una città devastata dalla furia cieca e irrazionale di un gruppo di black bloc che hanno ancora una volta dato dimostrazione della loro meschinità, della loro violenza, della loro ignoranza: la giornata di oggi resterà come una ferita profonda nella nostra storia e nella nostra memoria collettiva. Come lo sono stati gli anni 70, come lo è stato il G8 di Genova. È andata male, ma poteva andare anche peggio.

Ora che la situazione sembra essere stata riportata sui binari della normalità, restano tante domande e tanti interrogativi a cui qualcuno dovrà dare risposta (uno su tutti: come è possibile che una città come Roma possa essere messa in ginocchio da dei simili criminali?). E resta un’amara consapevolezza: che la nostra società si sta disgregando rapidamente, stretta com’è tra populismi vari e demagogie di sorta. Personalmente, non ho mai condiviso la protesta dei cosiddetti indignados, mi hanno sempre convinto pochissimo, perché ho avuto modo di ascoltare attentamente le loro proposte economiche, che, onestamente, come cura mi sembrano ben peggiore del (presunto) male che vorrebbero curare: ma mi dispiace che la loro protesta sia stata inficiata dalle azioni violente dei BB. Perché il diritto ad esprimere in libertà la propria opinione va sempre salvaguardato, stando sempre attenti a distinguere tra cittadini e delinquenti, su come vadano difesi i primi e su dove vadano sistemati i secondi.

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Niente dimissioni, non siamo inglesi.

postato il 15 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

«Ho colpevolmente permesso che venissero sorpassati i confini che separano gli interessi personali dalle attività del governo». Queste parole, purtroppo, non sono di Silvio Berlusconi madel ministro della difesadel Regno Unito Liam Fox che ha ritenuto opportuno lasciare la guida del dicastero dopo essere stato messo sotto accusa dalla stampa – soprattutto dal Guardian – per via del ruolo controverso ricoperto dal suo amico e testimone di nozze Adam Werritty negli affari del ministero. Il povero Fox ha avuto solo la sfortuna di nascere in Inghilterra, perché se fosse nato in Italia non solo avrebbe potuto portarsi in giro il suo amico come un qualsiasi Lavitola, ma in caso di necessità avrebbe potuto perorare presso i commissariati di polizia la causa di presunte nipoti dell’ex rais egiziano Mubarak e sarebbe stato salvato dal Parlamento dalle grinfie di magistrati e giornalisti brutti, sporchi e cattivi. Ma a Londra l’aria è diversa e così Fox è stato costretto alle dimissioni. Se a Londra la volpe viene impagliata a Roma il lupo perde il pelo ma non il vizio e così dopo l’ennesimo rocambolesco voto di fiducia, non si parla assolutamente di dimissioni, anzi Silvio Berlusconi, l’uomo che fa sembrare Liam Fox soltanto un bambino birichino, ha pensato bene di premiare ancora una volta quanti si sono prontamente impegnati, non sempre limpidamente, per garantire la sopravvivenza dell’esecutivo. I beneficiati con posti di viceministro sono l’ex finiana Catia Polidori, che il 14 dicembre fu determinante con il suo cambio di casacca per salvare il governo, e Aurelio Misiti ex Idv ed ex Mpa che aveva votato contro la perquisizione negli uffici del ragioniere di fiducia del Cavaliere. A questi si aggiunge Pino Galati che diventa sottosegretario grazie ai “mal di pancia” di Mario Baccini. Niente dimissioni, non siamo inglesi verrebbe da dire e ci sarebbe anche da ridere confrontando le nostre infornate ministeriali con le dimissioni di Fox se nello stesso Consiglio dei ministri che ha lanciato nell’empireo del potere altri peones non si fosse approvato il ddl stabilità con una incredibile  pioggia di tagli: alla polizia (60 milioni in meno tra il 2012 e il 2013), alle spese di vitto per guardia di finanza e carabinieri (tre milioni in meno), ai monopoli di Stato (50 milioni in meno a partire dal prossimo anno), agli istituti di previdenza come Inps, Inpdap e Inail, e ancora nel settore della scuola, dove i distacchi, i permessi e le aspettative saranno ridotti del 15%, e si taglia la figura del dirigente scolastico per quegli istituti autonomi al di sotto dei 300 studenti. Ciliegina sulla torta: un miliardo di euro in meno anche alla voce destinata all’edilizia sanitaria, cioè agli ospedali. E mentre si tagliava di qua e di là il ministro Romani è riuscito anche a perdere i fondi per la banda larga. L’ultima versione della legge di stabilità uscita dal consiglio dei ministri conferma che le telecomunicazioni perdono la quota dell’extragettito dell’asta per le frequenze che invece era inizialmente destinata al settore.Non vi allarmate però se questi tagli vi mettono in difficoltà, in fondo qualche altro posto da sottosegretario ci potrebbe scappare e potete anche portare tranquillamente un vostro amico. Mica siamo inglesi.

 

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Miopia strategica tagliare i fondi alla banda larga

postato il 14 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Roberto Dal Pan

Ennesimo voltafaccia, ennesimo dietrofront o forse ennesima conferma che, in materia economica, il ministro Tremonti non ha alcuna intenzione di condividere fette del suo potere decisionale con chicchessia: dalla bozza del testo della legge di stabilità che dovrebbe venire approvata dal Consiglio dei Ministri nelle prossime ore sono spariti gli 800 milioni di euro derivanti dall’asta delle frequenze 4G ed originariamente destinati allo sviluppo della banda larga come da assicurazioni del ministro Romani, tale somma verrebbe invece destinata al Tesoro per il fondo ammortamento titoli.

Una prima considerazione da fare riguarda l’evidente miopia strategica di un taglio del genere: è noto infatti che gli investimenti fatti nei settori delle telecomunicazioni sono tra quelli che generano il maggior risultato in termini di ritorno di interessi sia sul fronte economico che occupazionale e di tale caratteristica è ben conscio anche lo stesso ministro Romani che anzi in più riprese ha citato fonti OSCE per fissare al valore di 1,45 il rapporto investimenti/ricavi nel settore delle TLC. Come noto, la situazione delle infrastrutture della rete Internet in Italia è tra le peggiori in Europa tanto che da più parti si definisce la situazione del nostro Paese come un “medioevo digitale”; ciò è in aperta contraddizione con la necessità – chiara a molti ma evidentemente non al Governo – di porre in essere in brevissimo tempo idonee strategie per rimettere in moto l’economia italiana. Il settore dell’ICT, a detta di molti esperti, può costituire il volano da cui attingere quell’energia necessaria a far ripartire anche altri settori economici e favorire profondi cambiamenti nello stesso tessuto produttivo.

Una seconda considerazione che sorge spontanea dalla vicenda dei fondi destinati alla banda larga è invece di tipo più squisitamente politico e la pone bene in evidenza l’on. Roberto RAO dell’UDC quando si chiede “Qual’è dunque il ruolo del Ministro dello Sviluppo Economico?”. La domanda, che è evidentemente provocatoria, ha però in sé una questione di grande importanza e serve a farci riflettere sui compiti del superministro dell’Economia e delle Finanze che dalla riforma del 2001 accorpa le funzioni che fin dalla nascita della Repubblica erano divise tra i Ministeri delle Finanze e del Tesoro (e del Bilancio e della Programmazione Economica).

Già nel 1947 l’allora Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, pur favorevole all’idea dell’accorpamento, dovette decidere di lasciare separate le attribuzioni del Ministero delle Finanze (con compiti di vigilanza sulle entrate dello Stato) e del Ministero del Tesoro (con compiti di gestione delle spese dello Stato e di programmazione economica) dopo l’esperienza del gabinetto De Gasperi III in quanto evidentemente ritenne non opportuna una tale somma di poteri nelle meni di un’unica persona. Oggi questa scalcagnata Seconda Repubblica si trova alle prese con un Ministero dell’Economia e delle Finanze sulla carta onnipotente ma che dal lato delle Entrate non trova di meglio che incidere con la leva fiscale sulle solite categorie (lavoratori dipendenti, partite IVA, pensionati) senza andare minimamente ad attaccare la grande evasione/elusione fiscale ed i grandi patrimoni mentre dal lato della programmazione economica si limita a navigare a vista e senza un chiaro programma sul lungo periodo, come dimostrano tutti i più recenti provvedimenti legislativi.

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Il compito dei cattolici in politica: ricercare e chiedere la sapienza

postato il 13 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Rocco Gumina

In queste ultime settimane alcuni interventi, in diverse circostanze, di Benedetto XVI, del Cardinale Angelo Bagnasco, di Mons. Mariano Crociata hanno permesso alla comunità ecclesiale italiana, all’intera società, una riflessione sui valori fondanti dell’agire politico per il servizio degli uomini, della città. Il Sommo Pontefice nel suo discorso al Bundestag (Parlamento tedesco) ha richiamato la figura del giovane re Salomone, il quale dinanzi alla possibilità di chiedere a Dio qualsiasi cosa, desidera ricevere, possedere la sapienza per poter rendere giustizia al popolo d’Israele e sapere distinguere il bene dal male. Nella nostra storia, con la nostra condizione socio-politica occorre chiedersi con fermezza quale valore possa avere questo racconto biblico: cosa significa per un politico a qualsiasi livello operi? Cosa significa questo per un cittadino? E per un credente che senso ha la scelta di Salomone? Certamente nell’Italia, nell’Europa di questo nostro tempo non ci sono più imperatori o governanti che possono ostacolare o addirittura vietare la professione della fede o più laicamente lo sviluppo integrale dell’uomo e delle comunità umane, magari minacciando la condanna a morte o la detenzione, come accadeva nei primi secoli ai cristiani. Ma forse è presente nei palazzi del potere e in diversi strati della società quella tendenza, consapevole o meno consapevole, a non colpire direttamente, ma a uccidere con i soldi, con la gestione del denaro, con la capacità di trovare in qualsiasi situazione il compromesso, il ricatto morale, il gioco al ribasso. Chiedere e ricercare la sapienza, per un politico e per un cittadino credente o non, vuol dire promuovere la giustizia, ricercare il bene comune, agire con responsabilità nei confronti degli altri e delle cose di cui si è guida o rappresentante, sostenere l’educazione integrale delle future generazioni, dare impulso alla legalità. Solo così, per dirla con La Pira, possiamo ricomprendere e vivere l’impegno politico, nei partiti o da cittadini, come un sforzo a radunare prudenza, fortezza, giustizia e carità: solo e radicalmente così possiamo ritenere che la politica non sia una cosa brutta o non seria. La politica è una cosa serissima poiché si occupa dell’uomo in vista dell’uomo. Capiamo bene, dunque, che la capacità di sapere discernere tra il bene e il male e la possibilità di promuovere la giustizia per la propria gente sono realtà molto gravi e urgenti in tutti i tempi, specialmente in questa ora.

Ecco perché il Cardinale Angelo Bagnasco afferma, all’apertura dell’ultimo consiglio permanente della CEI, che c’è bisogno di purificare l’aria, di dare la scossa, di imprimere il cambiamento in un contesto che appare come uno stagno dove l’acqua è immobile e puzza. Ovviamente il “solo” riscontrare lo stato delle cose non sostiene la svolta, ma aiuta a capire che c’è un’Italia che vuole tornare a faticare, a chiedere la sapienza, a credere al futuro della nostra splendida penisola, mettendo da parte lo scontro e un linguaggio e dei modi da società incivile, per reggere nel futuro e nel presente riscoprendo l’austerità, la sensibilità per la verità, la moderazione, l’equilibrio, la forza e dei partiti (che vanno riformati e dunque rinnovati dall’interno) e dei movimenti civici (i quali non possono e non devono supplire al ruolo dei partiti nella nostra società), delle associazioni laiche e cattoliche.

I cattolici impegnati sia nella politica che nella società sono, quindi, interpellati per continuare a servire la nostra Italia con sapienza e con la capacità di distinguere il bene dal male, potendo sostenere un’idea di centro intesa non come luogo politico equidistante da destra e sinistra, ma come area in grado di avere una rinnovata visione per lo sviluppo del nostro Paese basandosi sulla Dottrina sociale della Chiesa, in grado di ritrovarsi insieme non solamente per le “battaglie” di natura etica, ma anche per molto altro, in grado di non essere autoreferenziale, ma capace di attrarre altre e diverse forze politiche e sociali. Cattolici che devono cominciare o tornare ad essere portatori di quella verità politica che continua ad esistere anche se un voto a maggioranza neghi l’evidenza, poiché la verità, anche se sconfitta per qualche voto, continua a svolgere la sua funzione. E bene ha fatto mons,. Mariano Crociata, nella conferenza finale del consiglio permanente della CEI, a ribadire che i vescovi italiani non hanno alcuna intenzione di sfiduciare questo governo per promuoverne altri, ma hanno invece la più radicale convinzione di sorreggere un cammino di rinnovamento morale nella società e quindi anche nella politica in Italia.

La crisi economica, accentuatasi maggiormente nei mesi estivi, ci ha mostrato ancora una volta che i problemi si possono risolvere con una buona politica, e che oggi nel nostro Paese abbiamo disperatamente bisogno di vera politica che guardi con attenzione ai giovani e alle famiglie, che eviti le improvvisazioni e i tentativi, solo giornalistici, di spallata o di cambiamento. Abbiamo bisogno di uomini e di donne, di cittadini italiani, di credenti e non, i quali osino chiedere e ricercare la sapienza per ben servire la comunità con giustizia.

 

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Quando si vende l’anima e ci si rinchiude nel “cerchio magico”

postato il 13 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Stefano Barbero

Di questi tempi la Lega non se la passa di certo bene: tra mal di pancia nella base e instabilità governativa il movimento padano mostra i muscoli con meno disinvoltura. L’imbarazzo c’è ed è tanto: il Carroccio ha mantenuto poche delle promesse fatte al suo “popolo” negli anni scorsi, l’abbraccio con il Cavaliere sta diventando mortale, tanta parte della Lega non vuole essere trascinata da Berlusconi con il suo governo pericolante.

La cartina di tornasole della salute dei partiti spesso è rappresentata, si sa, dai rapporti di forza locali, dalle dinamiche delle sedi periferiche. E quanto più le crepe si vedono nei feudi elettorali, tanto più la crisi è profonda ed evidente. Accade in via Bellerio, dove la lotta intestina per la successione (al capo – formalmente – indiscusso) continua a spaccare il partito. Il congresso provinciale di Varese, culla del movimento, terra del suo padre-padrone, ha confermato una situazione che i cervelli leghisti hanno cercato in tutti i modi di ridimensionare o derubricare a “dialettica interna” (di questi tempi è particolarmente di moda, nel lessico partitico). A Varese gli sfidanti del candidato di stretta osservanza bossiana si sono ritirati, in nome dell’”unità”. Un partito è forte se si mostra tale, devono aver pensato. Così ha vinto a tavolino il candidato unitario, tale Maurilio Canton del giro di Bossi: la Lega dorme sonni tranquilli e i giornalisti affamati rimangono a bocca asciutta. Ma a riaccendere i riflettori sulle agitate acque del Carroccio ci hanno pensato loro, gli stessi elettori, gli stessi iscritti, la “base”, che non hanno digerito l’imposizione di un segretario provinciale non gradito. Ormai la fazione maggioritaria è quella che fa capo al ministro dell’Interno Maroni, sempre più interprete di una Lega che vuole voltare pagina e se possibile smarcarsi da un premier che trascina ideali e voto popolare nel pozzo degli scandali e dell’immobilismo parlamentare. Così quel popolo verde che non sta zitto ha piazzato un bello striscione impossibile da non vedere fuori dalla segreteria della Lega Nord di Varese, con l’evocativo messaggio “Canton segretario di nessuno”. Più chiaro di così.

Intervenuta per l’ennesima volta la censura del “cerchio magico”, la foto aveva ormai fatto il giro del web. La Lega da struttura monolitica, militare, compatta si ritrova a fare l’imitazione di quel PD che a ogni elezione mette in discussione il vincitore. Ultimamente al Carroccio capita così, Bossi (e la Lega ufficiale) perdente – Valcamonica, Brescia i casi più eclatanti – e l’erede, le faccia istituzionale, più rassicurante prosegue la sua ascesa, forte del sostegno della maggioranza degli energici elettori leghisti, che a poco a poco si allontanano dal senatùr, ostaggio, si dice, della ristretta cerchia che lo circonda.

Non entriamo nel merito delle diatribe di un partito che ha, come tutti i partiti, una sua vita, fatta di alti e bassi. Vogliamo solo svolgere questa piccola considerazione: i leghisti che hanno creduto in quella Lega che illo tempore sventolava il vessillo della libertà e dell’indipendenza non si trovano a disagio nel vedere che il movimento cui appartengono è quello che mette la sordina a tutte le voci dissenzienti, che scomunica Flavio Tosi per le sue uscite moderate, che zittisce i sindaci che legittimamente protestano per i tagli? Forse è arrivato il momento di fare chiarezza e trarre le conclusioni: scegliere tra Bossi e Maroni, e soprattutto decidere sul proprio futuro. Berlusconi non è eterno.

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Seguite il vostro cuore e il vostro intuito: l’insegnamento dei premi Nobel

postato il 11 Ottobre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Jakob Panzeri

Ellen Johnson Sirleaf (nella foto) ha 72 anni ed è la prima donna presidente dell’Africa. Eletta nel 2005 in Liberia dopo un impegnativo confronto con l’ex calciatore del Milan George Weah e l’ex signore della guerra Prince Johnson – famoso per un video in cui beve birra mentre sotto i suoi occhi i suoi accoliti tagliano le orecchie al presidente dittatore Samuel Doe – è stata insignita del premio Nobel per la Pace 2011. La sua attività si concentrò da subito sulla riabilitazione materiale ed economica di un paese dilaniato da anni di guerra civile e sui diritti delle donne, che erano stati al centro della sua agenda politica fin da quando, giovanissima, si era separata dal marito che era stata costretta a sposare a 17 anni. Con lei sono state insignite dell’onorificenza anche la compatriota Leymah Gbowee, una militante pacifista che costrinse il vecchio regime militare liberiano a un tavolo di trattativa di pace con un’idea antica che già ritroviamo nella “Lisistrata” di Aristofane: lo sciopero del sesso. A completare la terna delle donne premiate è Tawakkol Karman, l’attivista yemenita leader della protesta contro il regime di Abdullah Saleh, 32 anni come gli anni del presidente al potere. Questo Premio Nobel è davvero un riconoscimento a un continente che negli anni più recenti continua a ribellarsi alle catene che ne imprigionano il cuore in una lunga rivoluzione in cui le donne svolgono un ruolo da vere protagoniste: è il caso della Primavera Araba, dove l’egiziana Esdraa Abdel Fattah ha avuto un ruolo fondamentale su facebook e twitter nella gestione del movimento 6 aprile corso in piazza Tahir a chiedere le dimissione del governo Mubarak nella terra dei faraoni dove un’altra donna, l’attivista Bothaina Kamel, aspira a governare il suo paese, la primadopo Cleopatra . E’ il caso dell’Arabia Saudita dove le donne – che per legge non possono muoversi senza l’autorizzazione del marito o del parente maschio più prossimo e non hanno diritto di prendere la patente – si sono messe alla guida per le strade di Riad. E’ il caso di Wangaari Mathai, la prima donna centrafricana a laurearsi, la biologa fondatrice del Green Belt Moviment per lo sviluppo sostenibile e la difesa ambientale, di cui ricordiamo la recente scomparsa.

Lunedì, con il riconoscimento in campo economico, si chiuderà la settimana dei Nobel. Per me, anche se in diverse occasioni più o meno recenti mi è capitato di restare perplesso e interdetto per alcune scelte degli accademici, la settimana dei Nobel corrisponde a una scarica di adrenalina pura in cui volgere gli occhi a quanto di grande e bello può scoprire e costruire l’ingegno umano.

Mi commuovo con Tomas Transtromer,lo psicologo che continua a scrivere e a suonare il pianoforte nonostante la mano destra immobilizzata dall’ictus. Un simbolo dell’ermetismo svedese e del suo silenzio nordico, mistico e versatile e un grande amico del nostro Mario Luzi.

Volo trascinato dalla fantasia nei campi della mente grazie al chimico israeliano Daniel Shechtman e a suoi quasi-cristalli, mosaici affascinanti riprodotti a livello degli atomi che non si ripetono mai periodicamente , reticoli geometrici che la mente umana e i limiti della matematica definiva impossibili ma che ora sono stati rintracciati non solo in laboratorio ma anche in natura. Spalanco le mie ali del pensiero ancora più in alto grazie ai fisici Perlmutter, Riess e Schimidt e i loro studi cosmologici sull’entropia e l’espansione dell’universo.

Penso a un futuro migliore grazie ai dottori Beutler, Hoffman e Steinman e ai loro studi sull’interazione tra sistema nervoso e immunologico che aprono allo sviluppo di una nuova generazione di vaccini basati non più sugli anticorpi ma sulle cellule stesse.

Questi uomini e queste donne, ognuno impegnandosi nel suo campo, hanno in comune una cosa: lo stupore e la contemplazione della realtà, la capacità di volgere la mente e il cuore in un universo dalle mille forze e dalle mille bellezze per migliorare ed educare l’uomo e quindi aiutarlo ad entrare nella sua umanità spesso dimenticata. Uomini che hanno dedicato anni della loro vita spesso con grandi sacrifici personali alla ricerca e al loro ingegno e che hanno lasciato un segno nell’umanità. Uomini come Steve Jobs.

Il vostro tempo è limitato, quindi non sprecatelo vivendo la vita di qualcun altro. Non lasciatevi intrappolare dai dogmi – che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altri. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui lasci affogare la vostra voce interiore. E, cosa più importante, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore ed il vostro intuito. Loro sanno già quello che voi volete veramente diventare. Tutto il resto è secondario. Siate affamati. Siate folli.  (Steve Jobs).

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