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Nigeria: Il sangue dei martiri linfa per una possibile convivenza

postato il 29 Dicembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Jakob Panzeri

Ogni cinque minuti un cristiano viene ucciso a causa della sua fede. Nel 2011 si stimano 105.000 vittime della persecuzione contro i cristiani. Tra il 2000 e il 2010 le vittime sono state 160 mila all’anno. La libertà religiosa, come respiro profondo e autentico dell’uomo per aprirsi all’Infinito, e che comprende anche la libertà di essere a-religiosi, deve essere tutelato come uno dei diritti più fondamentali- Dati dell’Osservatorio contro il razzismo e la xenofobia dell’Osce, organizzazione europea per la sicurezza e per la collaborazione.

“Alcuni  giovani hanno creato dei posti di controllo alle due entrate della strada che conduce alla chiesa di Santa Teresa. L’auto dell’attentatore ha rifiutato di fermarsi. I ragazzi l’hanno seguita fino di fronte alla facciata della chiesa, riuscendo a bloccarla. Mentre stavano discutendo con il guidatore, questi ha fatto esplodere la bomba. Si è quindi trattato di un attentato suicida. Tra le vittime vi  è uno dei nostri giovani della sorveglianza, e almeno 3 membri delle forze dell’ordine, tra cui un musulmano”. A parlare è l’arcivescovo di Abuja mons. Onaiyekan che a Santo Stefano ha incontrato  il  Ministro dell’Interno, per lanciare un forte appello tramite la stampa locale ai musulmani della Nigeria per fare qualcosa. L’obiettivo è sconfiggere le divisioni  alimentate da gruppi estremisti  come la Boko Haram che desiderano imporre la Sharia nel Paese: la convivenza pacifica è possibile :” ”Non e’ il tempo di dire se siamo musulmani o cristiani, dobbiamo affrontare il problema insieme come nigeriani che vivono tutti sotto la minaccia di questa gente. Fra i morti vi erano pure musulmani. Voi siete i veri musulmani, non loro ” La chiesa di Santa Teresa è solo uno dei luoghi di culto preso di mira il giorno di Natale che ha causato circa un centinaio di morti in tutto il paese. Purtroppo non è stato l’unico Natale di sangue, da circa un decennio ci sono contrasti tra cristiani e musulmani, il più grave nella primavera dell’anno scorso in cui la tribù nomade dei fulani nella regione dello Jos uccisero circa 500 persone in tre villaggi cristiani ai piedi delle montagne.

Ad aggravare la frattura fra cristiani e musulmani c’è anche la situazione politica. Proprio in questi giorni la Corte Suprema nigeriana ha confermato la vittoria alle presidenziali di aprile di Goodluck Jonathan, cristiano del Sud, respingendo il ricorso del principale partito moderato musulmano che aveva denunciato brogli. E ora anche associazioni cristiani come l’Alleanza Pentecostale non escludono l’uso delle armi per difendere le proprie comunità e fa scricchiolare ancor più la precaria terza repubblica nigeriana che si sta ancora riprendendo dalla tragedia del Biafra, la guerra civile in cui fu massacrata l’etnia Igbo che chiedeva l’indipendenza, un paese che  ha speso la maggior parte dei proventi del petrolio del Delta del Niger per la ricostruzione. Un paese avviato alla repubblica da  Obasanjo nel 1999 che affogava nella stagnazione economica e nel deterioramento delle istituzioni dopo 16 anni di regime militare. Ma la convivenza è possibile, devono rimanerci nelle orecchie e nel cuore le parole dell’arcivescovo che invita a superare l’odio e la violenza. Perché cristiani e musulmani possono vivere insieme e costruire con ugual contributo la nuova Nigeria.

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Se questa è una “democrazia sospesa”…

postato il 27 Dicembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Edoardo Marangoni

“Governo tecnico”, periodo di “democrazia sospesa”: sono queste 2 locuzioni che paiono essere ultimamente molto gradite a giornalisti, studiosi, ascoltatori di tg e lettori di giornali.
Sembrano queste le 2 “formule magiche” con cui rapidamente e, dico io, semplicisticamente definire in un lampo e precisamente come e dove collocare il Governo Monti.
Che si tratti di un unicum quanto alla nostra esperienza costituzionale è cosa non certo sicura. Altri sono stati, chiamiamoli così, gli “esperimenti presidenziali” tentati e andati a buon fine, basti ricordare Spadolini, Ciampi e Dini.
Ma ciò che più mi preme di esprimere non è tanto cosa sia il Governo Monti –questo credo spetti ad autorevole Dottrina-, quanto manifestare un pizzico di fastidio per chi usa espressioni che con il Diritto Costituzionale e la nostra Costituzione sono in contraddizione.
Se è vero come è vero, che un Governo per essere tale deve avere la fiducia del Parlamento (Art.94 Cotituzione), che è espressione diretta della volontà popolare(artt.56 e 57Costituzione), allora, visti proprio i numeri straordinari della Fiducia ottenuta il 17 e il 18 novembre scorso, mi sento di poter dire con serenità e fermezza ad un tempo che il Governo Monti è un Governo “Politico” (se mai quest’espressione vuol dire qualcosa, costituzionalmente parlando).
Va concesso a chi sostiene la tesi del “governo tecnico” che tutti i Ministri, Presidente del Consiglio incluso, siano uomini esperti e competenti in una certa materia, senza previa esperienza politico-partitica parlamentare. (Il caso del Ministro Giarda mi pare marginale e per così dire “border-line”).
Non mi pare però nemmeno che siano uomini che han vissuto fino a metà novembre rinchiusi nelle loro “torri d’avorio”, ma ben radicati nel tessuto sociale, economico e politico in senso lato del nostro Paese.
Ma credo che, tutto sommato, anche qui la disputa, benché per me appassionante, lasci un poco il tempo che trova.
Il vero punto, il nodo centrale, a mio avviso, è l’uso dispregiativo (come altro valutarlo?!) dell’espressione “democrazia sospesa”.
Se ne parla come se vi fosse stata un’imposizione dall’alto, extra-ordinem, fuori e contro le garanzie costituzionali, quasi perfino di tipo sovversivo, non solo della democrazia, ma proprio del nostro Stato.
Vorrei tranquillizzare tutti gli animi inquieti: non è così.
E’ nelle piene facoltà del Presidente della Repubblica nominare Primo Ministro “qualsiasi” persona goda della sua fiducia…e del Parlamento! Questo punto è importante, e già ne abbiamo accennato.
E’ certo vero che Monti (e la sua compagine ministeriale) non hanno ricevuto alcun mandato elettorale. Ma a quello scopo esiste il Parlamento. E’ il Parlamento il responsabile presso i cittadini, presso gli elettori delle sorti della Legislatura. Il Popolo elegge il Parlamento, non il Governo.
Ma provo ora ad elevarmi un poco, a “viaggiare” tra i ricordi di tutti noi attraverso i secoli, tentando di rimembrare quel che diceva con intuito geniale Montesquieu.
Ricordiamo tutti la formula dei “3 poteri”: Legislativo, Esecutivo, Giudiziario. Ben separati, al punto da permettere all’uno di vigilare sugli altri vicendevolmente.
Fermiamoci un attimo e proviamo a scordarci di quel che tv e giornali ripetono insistentemente.
Abbiamo noi in Italia una Magistratura indipendente dagli altri 2 poteri? Sì. Taluni poi dicono anche troppo, quindi ad adiuvandum in questo caso.
L’attuale Parlamento è stato eletto direttamente e liberamente dal popolo sovrano? Sì, nel 2008.
E il Governo, l’Esecutivo, non è forse avulso da ogni logica giudiziaria e politica-partitica-parlamentare? Sì, certamente, tutti lo dicono ed anzi evidenziano. Ha forse questo Governo dei legami più o meno diretti con la Magistratura e/o il Parlamento? No, per bacco! Il Governo Monti non è espressione né della Magistratura né tantomeno ha in sé esponenti Parlamentari!…
Oh, perdindirindina! Vorremo mica dire che con il Governo Monti vediamo oggi realizzata compiutamente in Italia la dottrina dei 3 poteri di Montesquieu?! Direi proprio di sì!
Ecco perché, di fronte all’espressione “democrazia sospesa” io proprio non resisto dall’alzarmi in piedi e dire la mia.
Potrà non piacere questa realizzazione, potrà non essere apprezzata la compagine governativa, si potrà dubitare sull’efficacia del suo lavoro, ma di certo non si può affermare –se un minimo periti ed onesti intellettualmente- che oggi la situazione politica determini una “sospensione della democrazia”.
Al contrario, oggi abbiamo nel nostro Paese quello che per Montesquieu era un sogno, un’utopia verso cui tendere idealmente.
Ma di questo non ringraziamo questo o quell’altro o noi stessi, ringraziamo il solo vero ingegnere costituzionale, anagraficamente vecchio ma ancora il più frizzante d’ingegno, artefice del miracolo politico: il Presidente della Repubblica.
Credo che noi Giovani, nonostante la confusione politica, costituzionale, sociale ed economica in cui siamo immersi, pieni di speranze ed entusiasmo e altrettanto stufi di questa classe politica incapace di risultati efficace e produttivi nel lungo periodo, dobbiamo sempre ricordarci che per essere dei buoni allievi dobbiamo saper sceglierci dei buoni maestri.

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Tifare per Monti

postato il 23 Dicembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Carlo Lazzeroni

La pesante manovra del governo Monti ha ben presto modificato l’idillio istituzionale e sociale, venutosi a creare con la caduta di Berlusconi. E del resto non poteva essere altrimenti, visto che Monti è stato deliberatamente chiamato per fare cose che la politica non è stata e non è in grado di fare.

E così l’Italia dei Valori è passata all’opposizione; i sindacati sono scesi in piazza; le caste, le lobby e i partiti, anche quelli che lo appoggiano il governo hanno provato a mettere i primi ostacoli all’azione del governo.

La manovra è, inutile nasconderlo, molto più orientata sull’aumento delle tasse, rispetto ad una riduzione delle spese. E questo, non può lasciare soddisfatti. Ma dobbiamo considerare che siamo di fronte ad una situazione di emergenza tale che ha portato il Governo a non poter fare altrimenti, per mettere in sicurezza i nostri conti, di fronte ad un rischio default del paese. Rischio che in tanti continuano a sottovalutare.

Nella manovra di questo governo c’è comunque una prima riforma strutturale, fondamentale per il nostro paese: quella previdenziale che, nonostante inevitabili forme di durezza e ingiustizia nei confronti di qualcuno, sicuramente va incontro a quell’esigenza di equità verso le generazioni future, troppe volte dimenticate da una politica incapace di guardare al di là delle prossime elezioni.

Per una riforma fatta però, purtroppo nella manovra ne mancano almeno due, di fondamentale importanza: le cosiddette liberalizzazioni/privatizzazioni e la riforma del mercato del lavoro. Sulle prime, il Governo ha dovuto soccombere alle pressioni delle varie corporazioni e delle forze politiche che le hanno tutelate. E così su alcuni interventi del pacchetto liberalizzazioni prima si è deciso di rinviare di un anno (come se lo sviluppo aspettasse i tempi della nostra politica), poi di tenere comunque fuori le licenze dei taxi e poi di “tagliare” un po’ quelle delle farmacie, togliendo dalla vendita i farmaci di fascia C. Per non parlare delle riforme degli ordini professionali. Credo che il prof. Monti, che in Europa ha costruito il proprio prestigio proprio attraverso le battaglie contro i monopoli e le rendite di posizione, a favore del mercato e della concorrenza, ci riproverà presto, speriamo con fortune migliori. Anche perchè sul versante delle riforme liberali, al di là dei provvedimenti citati, che sono un buon inizio, molto di più di può incidere per creare un sistema più aperto e concorrenziale: snellire la burocrazia, vendere il patrimonio dello Stato improduttivo, combattere i grandi monopoli pubblici e privati, promuovendo la libera concorrenza in tutti i servizi pubblici.

L’altro tassello fondamentale sta in una riforma complessiva del mercato del lavoro, con l’obbiettivo di dare le opportune tutele ai troppi che oggi non ne hanno alcuna. Dopo gli anni in cui è stato utile fare entrare nuove persone dentro il mercato del lavoro con contratti atipici per dare una certa flessibilità, è giunto il momento di riforme tese a dare più equità tra lavoratori. Ed estendere maggiori tutele, attraverso ad esempio la trasformazione dei vari contratti atipici in contratti a tempo indeterminato, condizionata a forme di flessibilità in uscita, anche nei licenziamenti, credo sia un compromesso accettabile. Arroccarsi su posizione di autodifesa a tutela di alcune minoranze già iper-protette, sarebbe intollerabile nei confronti di un’intera generazione di lavoratori precari, spesso laureata, che si trova dopo decenni di lavoro senza una vera prospettiva di stabilità e crescita. Se il Governo Monti, e i partiti che lo appoggiano, riuscisse a portare a casa queste due riforme, ci troveremmo veramente ad una svolta epocale; perché sarebbe riuscito, anche attraverso scelte impopolari, nell’impresa di rendere il nostro sistema un po’ meno ingiusto, corporativo, bloccato, con scarsa mobilità sociale (nel senso che chi nasce qui da noi in una famiglia umile, ha molte meno opportunità di crescere economicamente e socialmente rispetto ad una persona che nasce in un altro paese tra quelli sviluppati).

Per chiudere: in questi giorni abbiamo assistito all’efficace lavoro di caste, lobby e corporazioni, così come agli scioperi dei sindacati. Niente di male: fanno il loro mestiere, spesso molto bene. Forse però è giunto il momento di uno scatto di reni anche da parte della “nuova maggioranza silenziosa”. Fatta di tutti i cittadini, che in quanto consumatori avrebbero dei benefici in un paese più aperto e competitivo dalle liberalizzazioni, e delle nuove generazioni di precari, degli studenti e dei senza lavoro, oltre a quelli che voce non hanno alcuna perché ancora non ci sono: con la riforma delle pensioni e del lavoro tutti questi potranno avere qualche opportunità in più. Non chiedo di fare barricate per le strade, magari proclamando “rivoluzioni generazionali”; ma almeno di “tifare” per Monti, quello sì! Sapendo che è l’unico governo che può spezzare un po’ di privilegi acquisiti. “Lasciarlo solo” sarebbe un vero suicidio per chi crede nel cambiamento di un paese come il nostro, che non riesce a cambiare mai.

 


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Carceri, uscire dal Male.

postato il 21 Dicembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Jakob Panzeri

“Perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi” (Cesare Beccaria, Dei delitti e delle Pene)


Oggi abbiamo la fortuna di vivere in un’epoca in cui la maggior parte degli stati democratici rifiuta la pena capitale e la tortura, infame crogiuolo della verità, eppure se il marchese di Beccaria potesse volgere il suo sguardo illuminato dall’alto dei suoi tre secoli, non sarebbe ancora soddisfatto. Nelle carceri italiane sono oltre 88.000 i detenuti a fronte di una capienza massima di circa 43.000 persone e le pene alternative concesse oggi sono solo un terzo di quelle concesse cinque anni fa. Ma al di là dei numeri spesso siamo noi stessi a voler dimenticare una verità che può sembrarci scomoda: il carcere prima di essere un luogo di punizione è, o meglio dovrebbe essere, un luogo di riabilitazione. Pensate che la parola più antica che si avvicina a questo concetto è l’aramaico carcar che significa “calare”. Ne troviamo, infatti, già menzione nella Bibbia, libro della Genesi, quando Giuseppe, figlio di Giacobbe, “arrestato” dai fratelli, fu calato in una cisterna in attesa di essere venduto schiavo al ministro del faraone. E’ verosimile pensare da un punto di vista storico e antropologico che i primi carceri siano sorti proprio con l’inizio della città e quindi della storia umana con la funzione di allontanare dalla vita sociale individui che nuocevano e portavano danno alla comunità per rieducarli alla vita civile. Ma a volte questa verità ci sfugge, forse abbiamo bisogno di vedere proiettati mostri, reali o fittizi che siano, e con passione desideriamo vederli soffrire ed essere puniti quando il diritto non ha fatto ancora il suo corso e la cronaca nera diventa trash degna di ascolti da capogiro. A volte anche noi preferiamo unirci al coro degli abitanti di Colono che gridano a Edipo che per lui può esistere solo “l’esilio o la morte”. Questi atteggiamenti ci allontanano dalla Giustizia. No, Beccaria non sarebbe proprio contento di vedere la giustizia italiana moderna, troppo spesso incapace di garantire la regolarità di un processo e la garanzia di una pena, e di vedere l’istituzione carceraria priva in questo stato della sua funzione educatrice e costruttrice ridotta a una topaia in cui ammassare uomini che privati della loro libertà perdono totalmente anche la loro umanità. Quali soluzione allora? Costruire nuove carceri? Non ci sono soldi. Una nuovo indulto? Assolutamente no. L’indulto del governo Prodi è stato una vera debacle, in meno di due anni siamo tornati al punto di inizio, tutto esaurito. La società non è stata in grado di rieducare e riassorbire molti detenuti che sono stati costretti dalla loro indigenza a perdurare sulla loro strada di rovina e delinquenza. E’ indubbiamente un positivo punto d’inizio il pacchetto di misure del ministro della Giustizia Paola Severino approvato dal Consiglio dei Ministri: scontare ai domiciliari gli ultimi 18 mesi di pena ed evitare la reclusione breve di chi deve essere processato per direttissima, ricorrendo all’uso di camere di sicurezza nei commissariati. Sono misure giuste ma non risolvono il problema.

Nel 2009 al Meeting di Rimini ho assistito a uno spettacolo umano straordinario. L’incontro di alcuni detenuti del carcere di Padova all’interno della mostra “Libertà va cercando ch’è sì cara” ha lasciato un segno indelebile che ha commosso migliaia persone. Come la storia di Maurizio, padre di famiglia italiano, che prepara di giorno in uno stand soufflé al limone e dolci al cioccolato per tornare di notte dietro alle sbarre. Ha incontrato in carcere una cooperativa, il consorzio Rebus, che gli ha insegnato il mestiere di pasticciere, e un sacerdote, don Eugenio Nembrini, che lo ha invitato a non smarrire le tracce della propria umanità e a cogliere l’aspetto coercitivo e punitivo del carcere come una sfida personale, ad aprirsi all’infinito e a farsi aiutare dalla società a ri-entrare nella propria umanità. Perché senza un percorso di ri-educazione, senza questo spicchio aperto all’infinito, non può esserci l’uscita interiore da un male, dal Male, il superamento di quella sottile linea che come dice Solzenitsy attraversa il cuore dell’uomo.

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Raddrizziamo le storture del mercato del lavoro: l’esempio della Spagna

postato il 20 Dicembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Un paio di mesi fa ho parlato dell’esperienza spagnola nel campo della flessibilità lavorativa e sono ancora dell’idea che in Italia il mercato del lavoro è sufficientemente flessibile, ma che anzi bisogna intervenire per evitare che la flessibilità si trasformi in una morsa mortale per i lavoratori. Sono favorevole alle idee di Ichino, quando parla di maggiore libertà negoziale tra le aziende e i lavoratori (sul mondo sindacale, che a mio avviso necessita di una riforma, mi riservo di intervenire in un secondo momento), ma bisogna anche considerare che maggiore libertà nei licenziamenti non implica maggiore produttività, ma maggiori rischi per quegli italiani che si trovano nella fascia d’età tra i 35 e i 60 anni. Io non sono più un giovane; conosco molti miei coetanei che, come me, lavorano con contratti a progetto o finte partite iva o altri trucchetti. A questa generazione, chi ci pensa? Capisco che non facciamo notizia come “i giovani”, ma anche le persone “non più tanto giovani” dovrebbero avere delle tutele: all’estero anzi spesso sono i lavoratori più ricercati, proprio perché la loro esperienza li rende più produttivi.

Intendiamoci: chi non lavora deve essere licenziato, questo sia chiaro a tutti; ma non si può pensare di rivolgersi ai giovani e al precariato per tenere bassi i costi di una azienda: la soluzione è migliorare la produttività, non raschiare il fondo del barile. Proprio per questo motivo, nella mia proposta, credo che bisogna mettere dei paletti nella legislazione e nell’uso dei contratti a progetto e nelle altre forme di lavoro a tempo determinato: credo che tutti concordiamo sul fatto che se una azienda mantiene al lavoro una persona per, ipotizziamo, due anni, questa persona è formata e produttiva, quindi l’azienda dovrebbe passare ad una forma di contratto a tempo indeterminato.

La mia considerazione nasce anche dall’osservazione del mondo spagnolo, paese con un’alta disoccupazione (la media ufficiale della Spagna è di circa il 23% di disoccupati), alto ricorso ai contratti a tempo determinato (circa il 30% degli occupati spagnoli, lavorano con il nostro equivalente dei contratti a progetto), e che ha introdotto le stesse liberalizzazioni in tema di licenziamento, di cui si parla quando si vuole riformare l’articolo 18 senza ottenere effetti tangibili sul lato delle nuove assunzioni.

Le nuove assunzioni, l’aumento delle proposte di lavoro, nascono tutte se aumentano gli investimenti e si creano le condizioni ideali perché le aziende possano investire crando strutture produttive, e per fare ciò, a mio avviso, spingere sulla flessibilità “spinta” non è la soluzione ideale (come dimostra l’esempio della Spagna). Il contratto a tempo determinato deve servire per mettere alla prova il lavoratore o se l’azienda ha momentanee esigenze di aumentare la propria forza lavoro; ma se questo aumento deve essere strutturale, allora non si può ricorrere alle forme di precariato.

Sostanzialmente bisogna evitare che il contratto a progetto sia una forma di assunzione “mascherata”, e questo lo si ottiene con la trasformazione in indeterminato di un rapporto temporaneo quando si raggiunge una durata determinata, che è il presupposto per stabilire se l’azienda ha bisogno “strutturalmente” di un lavoratore.

A mio avviso, tale limite di tempo può fissarsi in 24 mesi cumulativi di lavoro nell’arco di complessivi 36 mesi: in tal modo, non basterà, per azzerare i conteggi dei mesi, che l’azienda tenga scoperto il posto di lavoro per uno o due mesi (come è accaduto fino ad ora).

Si tratta , in definitiva, di evitare la nota pratica consistente nel fatto che parte dei posti di lavoro di un’impresa siano permanentemente occupati da lavoratori precari , disponendo l’azienda di un organico fisso inferiore a quello necessario per affrontare la sua normale attività produttiva.

Questa norma sicuramente servirebbe a garantire e proteggere l’abuso da parte delle aziende dei contratti a tempo, inoltre è ovvio che il conto dei 24 mesi avviene anche se tra un contratto e l’altro vi è una interruzione breve (che potremmo quantificare in 3-6 mesi). In altre parole, al conteggio non si sfuggirebbe neanche se l’azienda tra i vari contratti mettesse delle interruzioni brevi.

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Riforma del lavoro, facciamo vincere i figli

postato il 19 Dicembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

Ieri, il Ministro del Lavoro e del Welfare, Elsa Fornero, ha rilasciato una lunga intervista a Enrico Marro del Corriere della Sera, in cui ha rilanciato una delle priorità del governo Monti: la riforma del mercato del lavoro, da approntare da gennaio in poi, e che rappresenti il trait d’union con la riforma del sistema previdenziale, al fine di ridurre gli squilibri tra le nuove e le vecchie generazioni. La Fornero ha ricordato che «sono abbastanza anziana per ricordare quello che disse una volta il leader della Cgil, Luciano Lama: “Non voglio vincere contro mia figlia”. Noi, purtroppo, in un certo senso abbiamo vinto contro i nostri figli. Ora non voglio dire che ci sia una ricetta unica precostituita, ma anche che non ci sono totem e quindi invito i sindacati a fare discussioni intellettualmente oneste e aperte». Da parte nostra non abbiamo mai mancato di elogiare quello che consideriamo un tratto caratterizzante delle proposte del Ministro e cioè il volgere lo sguardo al futuro, il voler riformare non per aggiustare momentaneamente una brutta situazione, ma per disegnare scenari completamente nuovi e sicuramente più sostenibili. Per farlo, quindi, è necessario mettere da parte ogni preconcetto e superare ogni pregiudizio: non si può pensare di affrontare con serietà un tema del genere, se le varie parti in causa cominciano ad erigere totem o barriere varie. L’articolo 18, per dire, che rappresenta una tutela importante per le azienda con oltre 15 dipendenti, è ormai largamente insufficiente per rispondere all’esigenze del momento e non si può pensare, quindi, di agitarlo come discrimine per ogni tipo di riforma (del resto, come ha anche ricordato Casini, “è inaccettabile che la messa in discussione di quest’articolo, che è perfettibile, sia di per sé motivo di scontro”).

Sempre nell’intervista di ieri, il Ministro Fornero ha confermato il proprio personale orientamento al sostegno del cosiddetto “pacchetto Ichino” (o a quello “Boeri-Garibaldi”), a quelle proposte – cioè – elaborate dal giuslavorista Pietro Ichino, senatore democratico, ispirate alla flexsecurity danese, che fino a poco tempo fa erano rimaste confinate in una specie di ghettizzazione forzata all’interno del PD, ma che adesso hanno trovato molti sostenitori (in primis proprio noi del Terzo Polo, in discussione alla Camera c’è una proposta targata Dalla Vedova-Raisi molto interessante) e una posizione centrale nella piattaforma programmatica del Governo. In sostanza, una riforma che va in questa direzione dovrebbe riuscire a fermare la polverizzazione dei contratti, ad introdurre un contratto unico (con maggiore flessibilità, non solo in uscita ma anche in entrata) e un sistema universale di unemployment benefit e aprire a politiche attive maggiormente efficaci. Il tutto per cercare di superare il vero vulnus del nostro mercato occupazionale, che non consiste tanto nella contrapposizione tra chi lavora e chi no, ma tra i garantiti e i non garantiti, tra chi ormai è fin troppo tutelato e chi invece è totalmente privo di paracadute in caso di disoccupazione. La flexsecurity non potrà certo essere la soluzione a tutti i mali, ma – come dimostra uno studio del Ceps – rappresenterebbe un’occasione di incremento dell’occupazione, di cui beneficerebbero in misura maggiore giovani, donne e lavoratori maturi: secondo queste stime, un aumento del 10% dell’indicatore di flexsecurity in Europa, garantirebbe un incremento medio stimato del 3% del tasso di occupazione giovanile, del 2,5% di quello femminile e del 2% di quello dei lavoratori anziani (al top del ranking europeo c’è la Danimarca, mentre gli ultimi due posti sono occupati, guarda caso, da Italia e Grecia). Una riforma in tal senso, che si applicherebbe solo ai rapporti lavorativi che si costituiranno solo d’ora in avanti, garantirebbe a tutti i nuovi lavoratori contratti a tempo indeterminato, con tutte le protezioni essenziali, ma senza l’inamovibilità; e a chi perde il posto di lavoro, un robusto sostegno economico e investimento sulla sua professionalità, in funzione della rioccupazione più rapida possibile.

Ecco, in sostanza, il perché del nostro sostegno al progetto della flexsecurity. Perché siamo stanchi di avere lavoratori di serie A e lavoratori di serie B e perché – al contrario, evidentemente, di altri – non possiamo sopportare l’idea di veder vincere le ragioni del passato su quelle del presente (e del futuro).

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Havel, il sorriso della democrazia

postato il 19 Dicembre 2011

 

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

In rete e sui giornali ci sono tantissimi ritratti di Vaclav Havel, tutti straordinariamente belli, non solo per merito delle penne che li hanno firmati ma forse perché è proprio la figura del primo presidente della Cecoslovacchia libera ad essere straordinariamente bella. Di Havel ci sarebbe tanto da dire, ma forse è sufficiente tornare un attimo al suo sorriso; è tutto lì l’uomo Havel ed anche il politico nel suo sorriso placido, nella sua calma e nella sua ironia. Havel ci ha insegnato che un sorriso può vincere un cupo regime, che la cultura è più forte dei carri armati e che i personaggi del teatro sono sempre meglio di certi tristi attori della storia. Quella di Havel è una lezione di libertà e democrazia che l’Europa non deve dimenticare e che può e deve necessariamente insegnare a chi nel mondo patisce ancora sotto una dittatura.

Dobrý cestovní, mr. Havel.

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Stop all’aggio di Equitalia: finalmente un risparmio per i cittadini

postato il 15 Dicembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

In questi mesi di Equitalia è stato detto e scritto molto, e tutti erano concordi che bisognava intervenire, quanto meno per mitigare certe azioni di Equitalia (cui l’ente non poteva sottrarsi, ricordiamolo, in quanto “obbligato” per legge).
Oggi possiamo dire che oggi finalmente abbiamo delle notizie positive per i cittadini, infatti Equitalia non farà più pagare un aggio del 9% ai contribuenti a cui devono riscuotere i tributi; sarà invece lo Stato a stabilire l’entità dei costi di riscossione a carico dei debitori, che dovranno comunque essere inferiori a quelli attuali. E’ quanto prevede uno degli emendamenti alla manovra dei relatori, Maurizio Leo e Pier Paolo Baretta, approvate ieri sera dalle commissioni Bilancio e Finanze della Camera.
Ma cosa significa questo emendamento? Con la finanziaria 2009, Tremonti stabilì che l’attività degli agenti della riscossione fosse remunerata con un aggio (ovvero una integrazione del tributo iscritto a ruolo) pari al 9% delle somme iscritte a ruolo riscosse e dei relativi interessi di mora, una somma a carico del debitore. Dopo numerosi ricorsi alle varie commissioni Tributarie, la manovra recepisce le richieste di riforma delle modalità di pagamento dell’attività di riscossione di Equitalia. Il testo afferma che ”gli agenti della riscossione hanno diritto al rimborso dei costi fissi risultanti dal bilancio certificato da determinare annualmente, in misura percentuale delle somme iscritte a ruolo riscosse e dei relativi interessi di mora”.
Tali costi saranno determinati da un decreto del Ministero del Tesoro che terrà conto ”dei carichi annui affidati, dell’andamento delle riscossioni coattive e del processo di ottimizzazione, efficientamento e riduzione dei costi del gruppo Equitalia Spa”.
In pratica si ribadisce che gli agenti della riscossione hanno diritto al rimborso dei costi fissi in proporzione, ma la novità è che il decreto del ministero che dovrà stabilire i rimborsi a Equitalia, dovrà in ogni caso prevedere oneri sensibilmente minori rispetto a quelli odierni.
In pratica non si pagherà più il 9% ma una cifra inferiore, stabilita dal ministero; a questo risparmio se ne può aggiungere uno ulteriore: se il contribuente paga entro 60 giorni dalla notifica della cartella, il cittadino pagherà solo il 51%, mentre la restante parte è a carico dell’ente.

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Un governo che parla il linguaggio della verità

postato il 14 Dicembre 2011

Mario Monti presentando la manovra in commissione ha detto qualcosa di assolutamente banale e scontato ma di tremendamente vero: il governo dei professori deve parlare il linguaggio della verità. E’ un’affermazione quella di Monti che implica necessariamente, in una sorta di sillogismo implacabile, il fatto che i governi precedenti e  in generale la politica tutta non sono stati sinceri, non hanno detto la verità. E qual era la verità da dire a questo Paese? Era la verità dura ma necessaria delle riforme, dei provvedimenti urgenti più volte rinviati, era la verità di un sistema bipolare “ad alta concentrazione di conflitto”, o “muscolare” come lo definì a suo tempo Casini, incapace di governare l’Italia. Oggi, e fa una certa impressione dirlo, abbiamo un governo che parla il linguaggio della verità che dice a chiare lettere che è finita la ricreazione, che non è più tempo di prendere in giro se stessi e il Paese. Il governo dei tecnici non è una sospensione della politica, ma è un rimedio all’incapacità del sistema politico messo sotto accusa da quel “perché non le avete fatte voi queste cose?” di Mario Monti; può anche diventare, se le forze politiche continuano in questo slancio coraggioso, l’occasione per il rilancio della politica, una politica in cui, secondo l’auspicio di Monti, “gli eletti sappiano guardare abbastanza lontano per fare le cose che servono al futuro del Paese”. Questa rifondazione della politica può cominciare da subito: approfittando della “pax montiana” è possibile, se non doveroso, discutere della riforma della legge elettorale, che non è altro che un modo per ricostruire il rapporto perduto tra cittadini e politica, dove quest’ultima, come ha sottolineato Monti, è fatta da eletti e non da nominati.

Adriano Frinchi

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Liberalizzazioni cercansi. Urgentemente.

postato il 13 Dicembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

L’Italia è un Paese di Caste e di Castine, in cui poteri pubblici e interessi privati sono sempre andati a braccetto e in cui le rendite di posizione sono sempre state considerate alla stregua di beni primari. L’Italia è un Paese che vanta una classe politica strapagata, ma largamente insufficiente ad espletare i suoi compiti, e gran parte del resto della popolazione che si impegna caparbiamente – almeno, chi ha l’opportunità di farlo – nella difesa ad oltranza del proprio orticello e che è pronta a riciclare gli slogan contro i privilegi della “Casta dei politici che ruba”, ma che si indigna stizzita quando qualcuno prova a mettere naso negli affari che li riguardano. Con tutti i macroscopici privilegi che hanno i pezzi grossi in Italia, dicono, proprio quelli dei tassisti o dei farmacisti, dei notai o degli avvocati dovete venire a discutere? Uh, figurarsi. Guai a chi, impavido o piuttosto ingenuo, proverà ad modificare questa incresciosa situazione, tirando fuori dal cassetto le celebri (o si dice “fantomatiche”?) liberalizzazioni. Si vedrà costretto a soccombere di fronte alla ferma e ferrea opposizione delle corporazioni dei mestieri, di quelle categorie di settore che anziché essere, come nel resto d’Europa, libere associazioni di lavoratori, sono piuttosto l’ultimo regalo lasciatoci in eredità dell’economia fascista: “tutela di tutti gli interessi che armonizzano con quelli della produzione e della nazione”. Simona Bonfante, quest’estate, lo aveva spiegato molto chiaramente: “nel nostro defascistizzato paese dove non si può – per carità – manco evocarlo il Duce, si può, invece, ed anzi è titolo di merito, mantenerne in vita le infrastrutture liberticide e gridare allo scandalo quando solo se ne ipotizza la chiusura, ovvero l’apertura alla plurale, libera concorrenza dei meriti professionali”. Queste infrastrutture liberticide hanno i nomi più disparati e vanno dai vari ordini professionali alle altrettanto varie confederazioni del lavoro, tutti con caratteri comuni: difesa più intransigente della loro struttura chiusa e conservatrice e avversione più decisa a ogni provvedimento che provi a rendere finalmente libero il mercato in cui operano (per l’appunto, le liberalizzazioni).

Personalmente sono sempre stato un fan della concorrenza e perciò ho sempre visto di cattivo occhio ogni ostacolo al libero mercato: per questo quando il Premier Mario Monti ha licenziato la manovra economica, che pure è pesante e rischia di essere perfino recessiva, ho gioito alla vista delle liberalizzazioni inserite nel testo. Che forse non avrebbero avuto immediati effetti sulla crescita e sulla competitività, ma che comunque avrebbe imposto alle imprese italiane produttive, commerciali e di servizi di adeguare la loro offerta e di migliorare la loro competitività (a vantaggio loro, dei loro dipendenti e di noi consumatori). Nel decreto c’erano nuove tasse, ok, ma c’era anche il via a un cammino improntato a politiche pro-crescita. E invece la portata innovativa della manovra del governo si è schiantata contro l’orgoglio corporativo di questa parte del popolo italiano, che ha reagito con vigore alle prime due, importanti liberalizzazioni: la libera vendita dei farmaci di fascia C nei supermercati e l’apertura alla concorrenza per le licenze dei taxi (notare, poi, come in Parlamento, l’opposizione a questi due provvedimenti sia andata di pari passo a quella sui tagli ai costi della politica). Le corporazioni hanno potuto più dei sindacati, in fondo: la minaccia di chiudere e sabotare tutto ha potuto più di uno sciopero congiunto di CGIL, CSIL e UIL.

Tutto questo è inaccettabile. Qui lo si è sempre sostenuto: il compito del Governo Monti non è solo quello di traghettare l’Italia in mezzo a un mare in tempesta; c’è bisogno di riforme strutturali e profonde, che non investano solo le pensioni o il mercato del lavoro, ma che contemplino, per l’appunto, le liberalizzazioni e le privatizzazioni. Perché se non si riusciranno a piegare davvero le assurde pretese di queste corporazioni, il duro sacrificio economico chiesto agli Italiani sarà davvero iniquo e impossibile da digerire. Per questo, Presidente Monti, qui bisogna dire no a questo ricatto e aprire la porte al futuro (al libero mercato, cioè). Proprio come Lei ci ha giustamente spiegato tempo addietro.

 

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