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La storia infinita della cedolare secca

postato il 19 Gennaio 2011

La vicenda della introduzione della cedolare secca in Italia è esemplificativa di come si possano complicare inutilmente anche le cose più semplici.

L’Udc aveva proposto una cedolare secca al 20% come primo strumento per iniziare a sostenere le famiglie, infatti una cedolare a questi livelli avrebbe rappresentato un risparmio di circa un miliardo di euro per le famiglie; il governo aveva ipotizzato una cedolare secca al 25% che sarebbe stato un salasso per i piccoli redditi e non avrebbe aiutato per nulla le famiglie.

Oggi il Governo per agevolare il cammino del federalismo fiscale cerca di sostenere che i decreti attuattivi già contengono il sostegno alle famiglie e, nonostante l’on.le Galletti sostenga che ciò corrisponda al falso, il ministro Calderoli pensa di fare fessi tutti sdoppiando e complicando inutilmente la cedolare secca, con il risultato, invece, di aiutare solo i redditi alti.

Infatti, il nuovo impianto del Governo prevede due cedolari secche: una al 20% per i canoni concordati, e una al 23% per i canoni liberi. Se consideriamo questa ipotesi, allora osserviamo che solo solo i proprietari di immobili con un IRPEF sopra i 28.000 euro godranno di significativi risparmi fiscali, mentre sotto tale soglia i benefici economici si ridurranno e addirittura per le classi di reddito sotto i 15.000 euro l’applicazione della ”cedolare secca” comporterà un aumento di imposta, oscillante tra i 65 e gli 87 euro.

Per mascherare ciò il governo ha, come dicevamo, complicato le cose, infatti le due cedolari funzioneranno così: aliquota al 23% per i contratti a canone libero e aliquota al 20% per i canoni concordati con le associazioni sindacali di categoria; la differenza tra le due aliquote (23% la prima, 20% la seconda) dovrebbe servire a dare una detrazione del 3% per le famiglie degli inquilini con figli a carico.

Sembrerebbe quindi una cosa buona, ma nella realtà vi è un peggioramento, infatti secondo Bertolussi, segretario della CGIA di Mestre, aumentare del 3% l’aliquota a carico dei locatari per devolverla agli inquilini con una detrazione Irpef di pari importo, rischia di essere un’operazione inutile, perchè c’e’ il pericolo che questa novità non riservi agli inquilini nessun vantaggio economico ed è molto probabile che i proprietari recuperino questa maggiorazione di aliquota attraverso l’aumento del canone di affitto.

Proprio per questo motivo, quindi, sarebbe meglio ritornare al vecchio impianto suggerito dall’UDC, ovvero una cedolare del 20% che escluda i grossi patrimoni immobiliari, le società immobiliari e di costruzioni, favorendo invece le famiglie e i soggetti più deboli.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Caterina Catanese

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Mirafiori e la mancanza di progettualità della politica

postato il 18 Gennaio 2011

Fiumi di parole e d’inchiostro si sono spesi, giustamente, per la vicenda di Mirafiori tra chi sosteneva le ragioni della Fiom e chi celebrava l’astro Marchionne e il suo “metodo”. Eppure in questo turbine di parole e di pensieri è mancata quasi completamente la voce rassicurante della politica che invece ha preferito mantenere un basso profilo, rimanendo alla finestra forse temendo di essere stritolata tra i meccanismi della catena di montaggio. Ma il silenzio assordante della politica, a parte qualche timida dichiarazione o apparizione a Mirafiori, è un indice assolutamente negativo.

Ha argomentato acutamente questa latitanza della politica Enrico Cisnetto, che qualche giorno fa sul Il Foglio non ha solamente rilevato questa assenza della classe politica ma anche la mancanza di un piano di politica industriale e dunque di un più generale “piano Paese”. A tal proposito Cisnetto ha sfatato la comune equazione tra il cosiddetto “metodo Marchionne” e il modello di sviluppo tedesco che è ascrivibile unicamente ad una politica responsabile e coraggiosa che pur di salvare l’economia e lo sviluppo tedesco non ha avuto paura di scelte impopolari (che a Gerhard Schröder sono costati la poltrona di Cancelliere) e di mettere da parte interessi di bottega per lavorare unita (la Grande Coalizione tra Spd e Cdu) alla ripresa. Ad oggi la Germania di Angela Merkel, continua Cisnetto, ha messo le premesse, una volta passata la recessione, per diventare la prima economia europea. Mentre in Germania i cancellieri che si sono avvicendati e la politica tutta hanno lavorato alacremente per garantire un futuro a tutti i tedeschi, nella nostra Italia la classe politica non è solo afona rispetto a temi di capitale importanza, ma resta incomprensibilmente impantanata nei problemi politici e giudiziari del Presidente del Consiglio.

La politica in Italia non deve solamente tornare a parlare, ma deve soprattutto rimboccarsi le maniche cominciando, sempre che non sia troppo tardi, a delineare un vero e proprio “piano Paese” dove si ragioni e si guardi al futuro magari cominciando a liberalizzare il sistema dei servizi e a rafforzare l’infrastrutture materiali e immateriali (trasporti, logistica, centrali nucleari e banda larga in primis). E considerato che tutte queste cose costano, la politica, uscita finalmente dall’apofatismo, dovrebbe mettere mano seriamente alle riforme  e – pensioni, sanità, decentramento, intervento una tantum sul debito pubblico – che ci possono creare quei margini di spesa che oggi non abbiamo.

Il ritorno della politica, della progettualità della politica è l’unica risposta che c’è al declino ed è l’unico modo che la classe dirigente di questo Paese ha per tornare ad unire i lavoratori che a Mirafiori si sono divisi.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Tramonti africani e timori italiani

postato il 15 Gennaio 2011

In arabo la parola “Maghreb” significa tramonto e indicava i paesi più occidentali dei domini islamici, oggi questo nome si addice di più alla sorte dei regimi che governano gli stati africani mediterranei. Le cronache di questi giorni ci hanno raccontato il tramonto del presidente tunisino Ben Ali e come ogni tramonto, purtroppo, anche questo si è colorato di rosso, il rosso del sangue di tanti giovani tunisini.

In Italia e in Europa ciò che accade in Tunisia, e che rischia di contagiare l’Algeria e gli altri paesi limitrofi, sembra non destare interesse, forse perchè si è troppo concentrati su un’altra tristemente famosa figlia del Maghreb. Eppure l’Occidente ha delle responsabilità dall’altra parte del Mediterraneo e soprattutto l’Italia ha da imparare qualcosa da quanto sta accadendo in quelle società. L’Occidente è stato a lungo complice del fuggitivo e disprezzato Ben Ali e di tutti gli altri pseudo presidenti nordafricani, un po’ per convenienza (i ricchi affari delle imprese occidentali) e un po’ per quel calcolo politico che preferisce dittatori dal pugno di ferro capaci di sbarrare la strada ai partiti islamici anti-occidentali.

L’ipocrisia occidentale del parlare nei consessi internazionali e davanti ai media di diritti e libertà per poi sottobanco trattare affari con i tiranni locali chiudendo gli occhi su alternanza politica, diritti delle donne e delle minoranze religiose è ben presente nella coscienza del popolo tunisino e in quella degli altri paesi. Questo elemento non è da sottovalutare perché la rivolta tunisina è una moto provocato anche dal risentimento per l’imbroglio e la sopraffazione. In pochi analisti hanno infatti rilevato che una delle gocce  che hanno fatto traboccare il vaso sono le rivelazioni della vituperata Wikileaks che hanno reso pubbliche la corruzione e l’insaziabile fame di potere e denaro della famiglia di  Leila Trabelsi, una parrucchiera che il presidente Ben Ali ha sposato in seconde nozze nel 1992 e che pian piano ha scalato le vette del potere economico e politico. E’ importante sottolineare che la rivolta tunisina è stata una rivolta giovanile ed una rivolta 2.0. Non si è trattato di poveri straccioni che si sono sollevati contro l’oppressore, ma di giovani istruiti che utilizzano con dimestichezza internet e i suoi social network. Quando il 4 gennaio muore il giovane diplomato Mohamed Bouzid, che si era dato fuoco il 17 dicembre perché non aveva altra prospettiva che il suo chiosco di frutta, la notizia della sua morte comincia a circolare rapidamente su Facebook e Twitter ed è l’input per l’inizio della rivolta.

Da quel giorno la rivolta corre in rete che diventa non solo luogo di denuncia ma un vero e proprio strumento di resistenza ai colpi di coda, anche virtuali, del regime agonizzante. I giovani tunisini non sono esecrabili perchè tentano di riprendersi la loro libertà per far sì che il loro futuro non sia un chiosco di frutta o un barcone nelle acque del canale di Sicilia, per mettere fine all’ingiusto e crescente divario tra ricchi e poveri. L’Occidente e l’Italia possono ignorare questa rivolta? Possono rifiutarsi di apprendere qualcosa da quanto successo in Tunisia? Evidentemente no e ciò per due ordini di motivi. Americani ed europei non possono lavarsi le mani della crisi del Maghreb, non solo perché hanno grandi responsabilità (il sostegno alla scalata del potere e al mantenimento di questo da parte dei dittatori) ma perché l’instabilità politica di questi paesi avrà delle intuibili conseguenze politiche, economiche e sociali sull’Europa. Per capirlo è necessario vedere comparire ogni tipo di imbarcazione carica di immigrati sulle nostre coste o aspettare il tracollo di qualche impresa che ha investito da quelle parti? In secondo luogo è necessario imparare qualcosa dalla gioventù tunisina e chiedersi se in paesi come l’Italia si può continuare a imbrogliare, speculare e sopraffare le giovani generazioni. Fino a quando abuseremo della loro pazienza? C’è da augurarsi che in Italia gli stati di Facebook e i messaggi di Twitter continuino a raccontare una tranquilla quotidianità e un futuro migliore.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Per Marchionne? Per la Fiom? Per cosa si vota a Mirafiori

postato il 13 Gennaio 2011

Non ci si può esimere dall’esprimere una riflessione sul referendum di Mirafiori, un referendum che assume importanza non solo per la situazione contingente dei rapporti tra la Fiat e i lavoratori, ma in quanto spartiacque, un punto di volta, su cui si potrà innestare ogni futura discussione sul lavoro e sulle aziende.

Sgombro subito ogni equivoco: parlare di sviluppo e di investimenti in Italia è arduo, non solo perchè si va a trattare una materia per sua natura molto ampia e complessa (i rapporti industria-lavoratori vanno ad iscriversi all’interno del ben più ampio discorso sulla politica economica e sulle scelte che questa comporta), ma perchè l’Italia ha sempre pagato il dazio di non avere una vera politica in campo economico.

Il referendum di Mirafiori è importante perchè impone una seria riflessione: è indubbio che non si possono contestare e ledere i diritti dei lavoratori, e giustamente i sindacati devono tutelare ciò, ma non si può neanche permettere che la difesa di certi diritti, trasformi questi ultimi in privilegi e impunità. Si deve impostare il discorso, oggi, sulla produttività, perchè solo con la produttività si possono attirare investimenti in Italia: ormai le competenze tecniche non sono più un patrimonio esclusivo dell’occidente, il mondo è sempre più globale e con una competizione sempre più feroce.

E’ vero che gli stipendi in Germania sono più alti, ma è anche vero che la produttività dell’operaio tedesco è ben più alta di quella dell’operaio italiano. Rompere il vecchio sistema della contrattazione nazionale per dare spazio a quella aziendale direttamente con i lavoratori è il modo per avvicinare i lavoratori alle imprese, per instaurare un proficuo dialogo.

In Italia per troppo tempo si è evitato di affrontare il tema della produttività, mentre i nostri concorrenti lavorano con tassi di produttività molto superiori e con costi molto inferiori. Le stesse competenze, come ho avuto modo di dire, se prima erano specifiche di poche nazioni, ora sono facilmente replicabili ovunque, e il rischio concreto è che gli investimenti di Fiat, e questi posti di lavoro, vengano spostati all’estero, come stanno facendo molte altre aziende straniere ed italiane, piccole e grandi.

Vorrei che l’Italia per una volta si mettesse in discussione.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

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Non dimentichiamo i cristiani copti

postato il 12 Gennaio 2011

A meno di due settimane dal sanguinoso attacco contro la chiesa copta di Nagaa Hamadi le cronache tornano a raccontarci di attacchi contro i cristiani d’Egitto e di un incomprensibile irrigidimento delle autorità egiziane rispetto all’appello del Pontefice per la tutela delle minoranze cristiane in Medio Oriente.

Queste tristi circostanze permettono di riportare all’attenzione di un occidente secolarizzato e troppo distratto la situazione della minoranza cristiana in Egitto, vittima di una discriminazione che, nei secoli, si è inasprita o affievolita a seconda delle convenienze politiche dei governanti islamici. Attualmente i cristiani copti (la parola Copto significa “Egiziano” e deriva dal greco “Aigyptos” che a sua volta deriva dall’egiziano antico “Ha-Ka-Path” ossia la casa dello spirito di Ptah) rappresentano il 15% della popolazione egiziana e sono al 95% ortodossi mentre il resto si ripartisce tra le altre confessioni cristiane. Questa consistente e antica minoranza ad oggi non ha praticamente accesso ai vertici dello stato egiziano, da quando nel 1980 la legge islamica è divenuta “fonte principale del diritto”, così la carica presidenziale può essere ricoperta solo da un musulmano mentre se l’accesso alla carica di Premier e di governatore di una regione è formalmente garantito di fatto è molto difficile che ciò accada.

A ciò si aggiunga il fatto che non ci sono cristiani tra i rettori delle università, i responsabili dei sindacati, i vertici delle forze armate, i giudici di alto grado e in generale in tutti i centri di potere. Se la partecipazione alla vita politica e sociale del paese è quasi proibita, anche la quotidianità della comunità è sottoposta a difficoltà che non possiamo immaginare. Ad esempio costruire una chiesa è difficilissimo, ci sono tanti di quei vincoli (non può sorgere vicino a una moschea, su un terreno agricolo, vicino a monumenti…) che diventa quasi impossibile edificarne una, e non si può nemmeno pensare di celebrare il culto nelle proprie case perché si corre il rischio di una irruzione della polizia che arresterebbe i presenti con l’accusa di “riunione religiosa illegale”. Le poche chiese che resistono sono anche costrette a subire, oltre ai terribili attentati, costanti azioni di danneggiamento e saccheggio da parte di individui che godono di una scandalosa complicità della magistratura e della polizia. Inutile dire che ottenere le autorizzazioni per ristrutturare una chiesa è quasi impensabile. Se è difficile edificare una chiesa è quasi impossibile per un musulmano convertirsi al cristianesimo senza rischiare la vita, mentre non si possono calcolare le facilitazioni e i privilegi per quei cristiani che si convertono all’Islam. Anche nelle famiglie, particolarmente quelle miste, ci sono problemi e discriminazioni per i cristiani persino per i bambini che a scuola sono costretti a confrontarsi con una didattica filo-islamica che subdolamente li porta ad una “naturale” conversione.

Ricordare la situazione dei cristiani copti in Egitto e sollecitare il governo italiano e le istituzioni europee ed internazionali ad intervenire sul governo egiziano non è solo un atto doveroso ma è una prova minima di coraggio e solidarietà delle nostre società che amano definirsi libere e democratiche verso coloro che ogni domenica danno prova di fede e di coraggio andando a messa e rischiando di non tornare a casa.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Abbi coscienza di Te: Auguri Italia, 150!

postato il 9 Gennaio 2011

Tra le colline moreniche del Lago d’Iseo e i vigneti spumantini della Franciacorta sorge una villa nobiliare secentesca aperta al pubblico. E’ Palazzo Torri che animato dalla mecenate Paolina divenne un vero e proprio centro culturale e politico con feste, incontri, conferenze e dibattiti che hanno definito le linee guide dell’Italia postunitaria. Lo visitai in un pomeriggio d’estate, uno di quelli in cui fa piacere trascorrere la giornata in compagnia della Cultura e di una bella ragazza sottobraccio. Passeggiando sull’erba del giardino pensavo ai piedi che precedentemente l’avevano calcata: il poeta Giosuè Carducci, autore delle odi risorgimentali “Piemonte” e “Alle fonti del Clitunno”, lo scrittore Antonio Fogazzaro, che cercava di conciliare quel piccolo mondo antico di cui era stato testimone con il nuovo mondo venutosi a creare nel 1861, uomini di chiesa come monsignor Geremia Bonomelli voce del cattolicesimo bresciano e futuro cardinale di Cremona, uomini politici come il guardasigilli Zanardelli autore del codice civile promulgato nel 1890 che avrebbe abolito la pena di morte sul territorio italiano. Uomini e donne che avevano calcato i nostri stessi passi e abitato nei nostri paesi, uomini e donne che avevano fatto l’Italia, ognuno con il proprio contributo nel Risorgimento.

Risorgimento, che parolone… già dal nome suona molto enfatico e passionale, il sorgere di qualcosa che prima era stato spento, respinto, avversato, definito una “mera espressione geografica”, soffocato dal Congresso di Vienna e che ora trovava espressione come un sole pronto a rinascere e a inondare di luce. Enfatico e passionale, troppo. Forse è stato proprio questo il male della storia risorgimentale: essere trattata nella storiografia ufficiale con toni monumentali quasi mitologici e automaticamente inautentici. Una storiografia che parla di un Garibaldi eroe senza macchia partito alla testa di mille baldanzosi giovani pronti a morire o a fare l’Italia ma dimentica e silenti su episodi riprovevoli e ingiustificati come il massacro di Bronte o di Partinico. Una visione della storia che forse non ci ha dato la maturità necessaria per camminare insieme in questi 150 anni e che ha creato risentimento e revanscismo da ambo le parti. E’ facile da un lato proclamare che senza il Meridione saremmo la realtà economica più avanzata d’Europa e lamentarsi di essersi caricati sulle spalle una realtà arretrata e bloccata nel latifondo e nel brigantaggio. E facile dall’altra parta parlare di una Napoli lussureggiante capitale d’Europa e di un regno borbonico svenduto ai rozzi montanari sabaudi. Due atteggiamenti equivalenti e facili ma sbagliati.

Dal 7 febbraio a Reggio Emilia che nella battaglia di Montechiarugolo contro Napoleone diede i natali al vessillo tricolore simbolo dell’allora repubblica cispadana e che ancora oggi ci contraddistingue, sono partiti i festeggiamenti per ricordare il nostro anniversario, auguri Italia, 150 anni insieme!

Che dire se non augurare all’Italia di trovare la maturità storica di guardarsi alle spalle con spirito attento e critico, di riconoscere la forza morale dei propri padri ma anche i loro errori, tanti auguri all’Italia che con la riforma federalista ha la grande opportunità, da non sprecare e senza cadere in facili stereotipi e revanscismi, di istituzionalizzare il principio di Sussidiarietà, di valorizzare le entità locali, le amministrazioni regionali, i sistemi virtuosi nella sanità e nella scuola portati avanti da determinate regioni. La Germania ha una storia e una cronologia molto simile alla nostra: solo 10 anni dopo, nel 1871, fu unificata da Bismarck e dall’aristocrazia terriera degli junker e di nuovo divisa all’alba della guerra fredda, ha saputo con maturità crescere e unificarsi come Stato e come nazione divenendo una grande repubblica federale centro geografico, economico, politico, culturale d’Europa. “Deutschland uber alles”!

E noi abbiamo la maturità e il coraggio di dire “L’Italia prima di tutto” o siamo davvero come voleva Metternich una mera espressione geografica?

Viva L’Italia, tanti auguri a tutti gli italiani.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Jakob Panzeri

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Il quoziente familiare sul modello Parma e Roma

postato il 8 Gennaio 2011

Fare pagare meno tasse a chi ha più figli, in modo da allegerire la pressione fiscale per le famiglie numerose che maggiormente soffrono questo periodo di crisi è uno dei capisaldi, da sempre, dell’UDC.

A tal proposito, l’on.le Galletti è stato molto chiaro e in una sua recente intervista a Il Sole 24 ore, ha dichiarato che l’UDC potrebbe venire incontro al governo (senza entrare però nel governo, questo sia ben chiaro) se quest’ultimo inserisse il quoziente familiare nell’ambito dei provvedimenti del federalismo fiscale, andando a replicare i provvedimenti già presi a Roma e a Parma.

Ma come opera il quoziente familiare? Intanto chiariamo un concetto, esistono due modi di intendere il quoziente familiare. In maniera più estesa riguarda la creazione di un coefficiente che permette, alle famiglie con anziani a carico o molti figli, di avere uno “sconto” sia nei servizi comunali (ad esempio gli asili nido), ma anche nell’IRPEF.

Il quoziente familiare messo in atto in alcune realtà municipali, invece, riguarda solo i servizi comunali, come è stato fatto, appunto a Parma e a Roma: le famiglie numerose accedono ai servizi del Comune, usufruendo di uno sconto.

Nell’ambito del federalismo fiscale, e considerando la situazione delle Finanze pubbliche, al momento si può portare avanti solo la versione “municipale” del quoziente familiare, e qui si apre il confronto con la Lega.

Quest’ultima, mettendo in moto un gioco di specchi, afferma che nel Decreto sul federalismo, già è presente il quoziente familiare, ma questo “giochino” è facilmente smascherabile: in realtà il quoziente familiare non c’è. Infatti, se andiamo a leggere il testo del Disegno di Legge, osserviamo che, quello a cui si riferisce l’on.le Calderoli è un riferimento generale alla famiglia contenuto nel Disegno di Legge dell’IMU (la Imposta Municipale Unica che verrà introdotta dal governo Berlusconi), ma quello che bisogna stabilire ora non è un riferimento generale, ma i criteri concreti con cui dare attuazione al quoziente familiare.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Caterina Catanese

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Un’agenda digitale tricolore per connetterci al mondo

postato il 4 Gennaio 2011

Addio al 2010. Si è chiuso alle nostre spalle un anno appassionante e intenso, pieno di lotte e polemiche, in ogni campo, specialmente in quello della Libertà d’informazione, di stampa e di diffusione di Internet e della Rete. Proprio su questo blog, in tanti ci siamo spesi con diversi articoli sui vari temi: esprimendo tutta la nostra riprovazione nei confronti del DDL Intercettazioni, unendoci alla protesta degli utenti contro l’Ammazzablog, perorando la causa di liberalizzazione del Wi-Fi (con conseguente abolizione del medievale Decreto Pisanu).

Abbiamo criticato con forza la posizione ondivaga e confusa del Governo, che molto spesso ha dato l’impressione di non sapere nemmeno di cosa si stesse parlando; allo stesso modo, ora, accogliamo con favore l’abrogazione, dopo tante peripezie, dell’art.7 (o meglio dei commi 4 e 5) del decreto Pisanu. Finalmente, dall’1 gennaio gli esercizi pubblici (bar, ristoranti, alberghi ecc.) possono offrire connettività wi-fi (e via cavo) senza quelle complicate e assurde procedure burocratiche per loro e per gli utenti (come ad esempio l’archiviazione della fotocopia del documento di identità di chiunque acceda): rimane solo l’obbligo di richiedere la licenza al Questore per quegli esercizi pubblici che forniscono connettività internet come attività principale (gli internet point).

Questo vuol dire che anche la nostra Italia da oggi è un po’ più moderna, o meno arcaica, più in linea con gli altri Paesi evoluti del mondo.

Ma da qui a deporre le “armi” che abbiamo imbracciato in difesa della libertà, di strada ce n’è ancora tanta, forse troppa. Per questo ci auguriamo che questo 2011 possa aprirsi all’insegna di un’agenda digitale, di una serie di punti tesi ad ammodernare il rapporto che gli Italiani hanno con la Rete. In un post di qualche tempo fa, scrivevo che Internet – e quindi il libero accesso al suo utilizzo – rappresentano non solo una delle più alte espressioni della nostra libertà, ma soprattutto una nuova frontiera per lo sviluppo dell’economia e della società. Dare ai cittadini la possibilità di consultarlo in ogni momento e con ogni comodità, significa garantire un’apertura al mondo più moderna e tecnologicamente avanzata. Prendiamo il caso delle scuole: un istituto scolastico dotato di connessione Wi-Fi è considerato all’avanguardia, quasi offrisse un servizio fuori dal comune. E invece no. Perché ogni scuola, di qualsiasi ordine e grado, dovrebbe essere dotata di questo tipo di connessione. In fondo, quale mezzo migliore esiste per evitare che Internet diventi una perdita di tempo se non quello di insegnare, sin da piccoli, a integrarlo – in modo sapiente e costruttivo – nella propria vita? Dai libri alle ricerche, dallo svago allo studio.

Juan Carlos De Martin, su La Stampa, ha fatto il punto della situazione, analizzando nel dettaglio il grande ostacolo al libero sviluppo di Internet nella nostra nazione: un divario che è infrastrutturale, economico e culturale. Infrastrutturale, perché chi vorrebbe accedere a Internet non può per l’assenza della banda larga. Economico, perché quasi il 20% delle famiglie che non ha accesso a Internet trova troppo costoso il computer o l’accesso a Internet, o entrambe le cose. Culturale, perché il 23% di chi non accede a Internet la considera inutile e non interessante, mentre il 41% vorrebbe accedere, ma non ritiene di averne le capacità. Sono dati preoccupanti, perché ci mostrano un’Italia per certi versi assai arretrata e in fondo alle classifiche europee (davanti solo a Cipro, Grecia e Portogallo).

È necessario e indispensabile quindi agire con rapidità e decisione. Serve, per il 2011, un’agenda digitale che includa: grandi piani di investimenti con deduzioni fiscali per chi vorrebbe accedere alla rete ma non può permetterselo e contributi sostanziosi per le infrastrutture e la banda larga; programmi formativi e culturali per quanti si sentono intimoriti o non all’altezza dell’approccio alla Rete; un ampio e completo utilizzo delle immense possibilità offerte da Internet, con aggiornamento della normativa riguardante la proprietà intellettuale, informatizzazione delle pratiche amministrative e burocratiche e l’eliminazione dell’obbligo di registrazione per le testate online.

È con questi auguri che diamo il benvenuto al 2011, affinché sia un anno tecnologicamente più avanzato. Per quanto ci riguarda, il 2010 ci ha lasciato una consapevolezza che non dimenticheremo mai: il fatto che la Rete sia diventata il veicolo d’eccellenza per la parte migliore di quest’Italia, per quei cittadini che hanno ancora la forza e il coraggio di indignarsi e che, a forza di protestare, riescono ancora a ottenere qualcosa, a impedire che la nostra società diventi sempre peggio. È giunta l’ora di risalire la china.

Giuseppe Portonera

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Giovani, formazione e lavoro: ciò che non dovrebbe accadere (ed invece accade) in Lombardia

postato il 3 Gennaio 2011

Nella grande “trottola” del mondo della formazione, fatta di slogan evanescenti, santuari della precarietà, attese infinite ai call center, propongo il caso della mia amica “Francesca” che ho intervistato nel corso del mio lavoro presso la CISL. Sarò prolisso ma ci tenevo a non tralasciare nulla, di modo che potrete scoprire una selva di regole poco chiare, fondi inesistenti, ascoltare il calvario di una ex interinale poco più che ventenne e trarre spunti di vita reale, non poi cosi distanti dal recente messaggio di auguri del Presidente Napolitano.

 

Per combattere la crisi la Regione Lombardia ha approntato nel 2009 una misura finanziaria a favore del reinserimento lavorativo dei lavoratori disoccupati, stanziando un fondo che viene erogato per decreto “almeno” una volta all’anno: il “Sistema Doti”.

Sul sito della Regione si legge:

Contattando un centro accreditato da Regione Lombardia per i servizi al lavoro si trova un aiuto concreto per scegliere il percorso più adeguato alle proprie esigenze”.

Chi sono questi centri accreditati? Gli “Enti di formazione accreditati dalla Regione” , sono agenzie private e Centri per l’impiego pubblici che aderiscono al programma di riqualificazione organizzando corsi di formazione e “servizi al lavoro” per le categorie di disoccupati e inoccupati in possesso dei requisiti previsti dal bando.

Christian: Ma quanto è efficace questa misura?

Francesca: In possesso dei requisiti, ad aprile mi sono recata presso un Ente accreditato di Monza in cui l’operatrice, dopo avermi registrata, mi ha consigliato di registrarmi anche presso un Ente di Milano, in quanto i fondi si esauriscono molto rapidamente (in circa una settimana l’intero stanziamento erogato per tutto il territorio della Regione) e “prima vanno su Milano, mentre alle altre province arrivano le briciole”). Previsione sullo “sblocco” delle prossime doti:  “da metà a fine maggio”.

Nella stessa settimana ho preso quindi un appuntamento con un Ente di Milano che offriva un corso di formazione nell’area di mio interesse: operatore di asilo nido. L’operatore mi ha detto che nella settimana successiva sarei stata contattata da una collega che mi avrebbe fissato un appuntamento per la presentazione dei documenti necessari e l’invio telematico della Domanda di dote.

Al venerdì successivo ancora nessuno mi aveva contattata, e alla mia richiesta di informazioni lo stesso operatore mi ha ribadito di attendere la chiamata della collega. Nelle 2 settimane seguenti di attesa ho ottenuto sempre la medesima risposta. La tanto sospirata chiamata è arrivata circa 15 giorni più tardi e solo per aggiungere una beffa al disservizio: lo scopo era solo quello di stabilire in quale delle loro sedi avrei tenuto il colloquio! Mi hanno assicurato che quando pronti, mi avrebbero chiamata per concordare l’appuntamento.

Per fortuna il colloquio mi è stato dato “solo” una settimana più tardi. Credevo a quel punto di avere finito il mio calvario e speravo di raggiungere in breve un concreto risultato, e invece… Il colloquio atteso per circa un mese (ormai era giugno), è durato cinque minuti esatti.

La prima cosa che mi è stata precisata è: “Non siamo un’agenzia interinale, quindi non mettiamo in comunicazione domanda e offerta, ma eroghiamo servizi al lavoro quali consulenze, aiuto nella compilazione del cv, possibilità di mandare fax e fare telefonate dall’ufficio anziché a spese proprie”. (Tutto ciò mi sarà poi smentito nei fatti…)

La ragazza mi ha poi spiegato l’iter: le doti attese per maggio non erano state erogate e quindi si pensava già a settembre. Dopo l’eventuale  ottenimento della dote avrebbero aperto le iscrizioni ai corsi e al raggiungimento del minimo numero di iscritti avrebbero dato il via alle lezioni.

Relativamente al corso, mi ha consigliato di scegliere un corso di costo non superiore ai 1.500 euro perché su 3.000 euro di dote il costo dei servizi al lavoro da loro erogati era di 1.470 euro (in altri termini, la metà dei fondi destinati al lavoratore in realtà foraggiavano l’ente).

Mi promette poi che mi avrebbe richiamato per compilare la domanda di dote, documenti alla mano.  Delusissima e anche notevolmente irritata per avere sprecato un mese di tempo per niente, e senza la minima intenzione di dare ulteriormente retta alla stessa agenzia, decido di rivolgermi ad altri. Mi trovo quindi un altro corso, e mi rivolgo quindi per l’ennesima volta ad un nuovo ente, il terzo.

Christian: Una ricerca da fare da soli?

Francesca: Sul corso “destinato agli interinali” ho chiesto maggiori info, infatti sul sito della Regione non veniva fatta alcuna distinzione, né tantomeno esisteva un elenco con filtri.

Mi è stato risposto, con un tono grottescamente serio, che il “consiglio” che mi poteva dare era di selezionare tutti i corsi di mio interesse ed iniziare a chiamare uno per uno i vari enti. (e qui mi ricollego ai famosi servizi:”fare le telefonate dal nostro ufficio anziché a spese proprie”: un corno!).

Dopo avergli risposto che fino a quella soluzione ci arrivavo già benissimo da sola, la mia successiva domanda è stata: se loro per ipotesi il giorno seguente avessero ricevuto domanda per lo stesso corso da parte di un numero sufficiente di ex–interinali avrebbero fatto partire il corso? Risposta: SÌ.

La mia ultima osservazione è stata che come lo facevano loro, anche dagli altri enti sarebbe stata la stessa cosa.

Quello che ho ottenuto è stato un ultimatum, ossia che loro avrebbero tenuto in stand by la mia domanda per darmi la possibilità di trovare un nuovo ente, in caso contrario avrei potuto mantenerla da loro con l’unica speranza di poter fare il corso se si fossero iscritti altri ex interinali. Ultimatum ridicolmente stretto, infatti mi chiedeva di dargli la risposta il giorno dopo.

Il mio problema adesso era che entro il giorno dopo non avrei di sicuro avuto la risposta, perché mi dovevo cercare il corso, e l’indomani sarei partita per una settimana in Africa, non avrei certo fatto telefonate intercontinentali, specialmente avendo già saggiato la competenza degli interlocutori.

Adotto quindi l’unico sistema che mi consentiva di contattare a tappeto: le email. Dei vari enti contattati uno solo mi risponde positivamente, ossia che aveva corsi in partenza a cui potevano partecipare anche gli ex-interinali.  Tornata a casa, quindi, li contatto telefonicamente e spiego loro la mia situazione. A sentire che avevo in mano il foglio con il PIP, la ragazza si allarma e mi dice che se ho un foglio in mano significa che la domanda è stata inoltrata e che quindi non mi posso più iscrivere da loro.

Ormai decisamente irritata, ed a luglio, ho iniziato una serie di telefonate tra l’uno e l’altro ente (in quanto alle mie mail non ricevevo altra risposta se non la conferma di lettura), esattamente come il gioco dello “scemo in mezzo”.  Alla fine ho deciso di mettere un termine a questo rimbalzo di responsabilità dando credito all’ipotesi che meglio si adattava con la mia necessità. Prendo quindi per attendibile la campana dell’ente n. 3 – ossia domanda non inoltrata – e mi faccio dare un appuntamento definitivo dall’ente n. 4.

La signorina mi convoca per la settimana seguente, ripeto tutto l’iter che ormai conoscevo a memoria e finalmente vedo il momento cruciale dell’invio telematico della domanda.  Mi aspettavo che in quell’istante apparisse anche la Madonna, o perlomeno qualche Arcangelo, ma siccome tale miracolo non è successo evidentemente avrei dovuto intuire che non ero ancora alla fine del tunnel.

Mentre compila la pratica, l’operatrice mi rassicura dicendo che, anche se le richieste per il corso di mio interesse non raggiungevano ancora la soglia minima di certo sarebbero stati in grado di raccogliere il numero minimo di allievi per fare partire il corso a settembre, in quanto le doti per gli interinali erano aperte da novembre e “chissà per quanto tempo ancora andranno avanti”.

Mi comunica che ho diritto anche ad un’indennità di circa 600 euro, come calcolato dal terminale, poi improvvisamente ha un’espressione corrucciata. Dapprima mi chiede di aspettare un momento e chiede la consulenza di una collega per svelarmi quindi il motivo di tanta perplessità: il terminale ha comunicato che le doti sono esaurite!!!!!!!

La perplessità sta nel fatto che il calcolo dell’indennità viene fatto necessariamente dopo l’assegnazione della dote, stornando i costi del corso e dei servizi al lavoro.

Parte la telefonata alla Regione, con la solita attesa allietata dalla musica, e l’operatrice all’altro capo del cavo risponde che anche il giorno prima era capitata lo stesso problema ad un’altra persona e che poi era stato risolto. Avrebbero loro (Regione) informato l’ente circa la risoluzione.

L’operatrice quindi mi comunica che avrei dovuto tornare un altro giorno per la firma di un documento definitivo di cui tutt’ora ignoro la natura, e che mi avrebbe tempestivamente contattato non appena avesse avuto notizie dalla regione.

Mentre mi dirigo alla stazione sotto il solleone del luglio milanese mi suona il cellulare: è la stessa ragazza che mi comunica: “Le doti sono terminate questa mattina. Mi dispiace molto.”

Bisogna attendere il nuovo bando che dovrà uscire con le nuove doti, forse a settembre, e che fino a quel momento nessuno saprà nulla. Aggiunge anche che tutte le iscrizioni fatte presso tutti i vari enti non hanno alcun valore perché la mia domanda alla fine non è stata accolta e quindi è come se io non fossi mai passata né da loro né dagli altri.

RISULTATO:

Il sito della Regione sostiene che il sistema doti serve per favorire il reinserimento lavorativo dei disoccupati e inoccupati tramite la riqualificazione delle loro competenze.

Io ho iniziato ad iscrivermi presso gli enti accreditati ad aprile, ho trovato un’incompetenza totale che mi ha rimbalzato fino alla metà di luglio, quindi per tre mesi durante i quali non ho ricevuto il minimo servizio al lavoro, inteso perlomeno come le informazioni corrette e necessarie. Ho speso soldi miei in telefonate, biglietti del treno e del metrò. Solo per recarmi da ogni ente che ho visitato ho speso per ciascuno 8.20 euro in trasporti. Ho perso quattro pomeriggi presso le loro sedi, più un numero che non so quantificare a cercare informazioni e corsi sul sito della Regione.

A metà luglio mi vengono a dire che le doti sono terminate nella mattinata, quasi un rimprovero per essermi mossa tardi. Chi controlla l’operato di questi enti, visto che non ho un mezzo per dare un feedback negativo sull’attenzione che mi è stata rivolta? Probabilmente questi enti avranno un form di feedback sul corso erogato, ma sui loro servizi? O più specificamente si considerano solo i servizi che loro erogano a partire dal momento in cui il disoccupato ottiene la dote, alias loro vengono pagati?

Posto che nella dote non ci spero più, voglio deliziarvi con l’ultima perla: Per la cronaca, a me il corso serve per davvero e sebbene ne abbia cercato uno a pagamento di tasca mia i costi sono troppo elevati per le mie tasche (ma suppongo non solo per le mie, in pratica 120 ore mi costerebbero come un anno e mezzo di università pubblica). Visto che ormai l’unica cosa è aspettare il bando nuovo di settembre, in cui POTREBBE DARSI che venga abolita l’assurda discriminazione degli ex-interinali, ho contattato un quinto ente, tanto ormai avendo già perso tutto non ho più niente da perdere.

E qui la chicca: anziché essere loro a darmi info sui corsi, i bandi, le doti etc., ho dovuto dargliele io e… spiegargli pure cosa è un lavoratore interinale.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Christian Condemi

1 Commento

Le persecuzioni dei cristiani

postato il 2 Gennaio 2011

Perciò, per far cessare tale diceria, Nerone si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia, detestandoli a causa delle loro nefandezze, denominava cristiani. In un momento in cui milioni di nigeriani stanno celebrando le feste religiose, la Nigeria nei giorni di Natale è stata teatro di violenze che hanno colpito la popolazione di religione cristiana, funestando la festività con 41 morti, secondo ultime notizie ufficiali. Origine di questo nome era Cristo, il quale sotto l’impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; e, momentaneamente sopita, questa esiziale superstizione di nuovo si diffondeva, non solo per la Giudea, focolare di quel morbo, ma anche a Roma. Perciò, da principio vennero arrestati coloro che confessavano, quindi, dietro denuncia di questi, fu condannata una ingente moltitudine, non tanto per l’accusa dell’incendio, quanto per odio del genere umano. Esplosioni a catena nella regione dello Jos hanno provocato la morte di altri 34 cristiani e il ferimento di 74. Nel nord est del paese, a Maiduguri, una chiesa è stata data alle fiamme. Proseguono ancora scontri e feriti e decine di edifici sono stati consegnati alle fiamme. Il gruppo islamico Abu Sayaf ha fatto invece esplodere nelle Filippine il tetto di una chiesa cattolica nell’isola di Jolo. Inoltre, a quelli che andavano a morire si aggiungevano beffe: coperti di pelli ferine, perivano dilaniati dai cani, o venivano crocifissi oppure arsi vivi in guisa di torce, per servire da illuminazione notturna al calare della notte. Nerone aveva offerto i suoi giardini e celebrava giochi circensi, mescolato alla plebe in veste d’auriga o ritto sul cocchio” .


Duemila anni di storia, di vite vissute, di uomini passati sulla terra con i loro odi e i loro amori, con i loro credi e le loro passioni, dividono questi due brani. Il primo, in azzurro, è un passo fondamentale della storiografia di Publio Cornelio Tacito (Annales XV,44), il secondo in rosso è il resoconto di un articolo dell’Avvenire edito il 28 dicembre 2010. Duemila anni di storia e di nuovo incendi, dolore e morte. Aveva visto giusto colui che ci aveva avvisato: ” Non sono venuto a portare la pace, ma una spada in mezzo a voi, nel mio nome subirete dilazioni e persecuzioni, la spada, la separazione, la croce, il perdere la vita”. Mi soffermo a volte a pensare cosa faccia tanta paura del messaggio cristiano. Forse quello sguardo rivolto all’Umanità come quello espresso da Madre Teresa di Calcutta capace per la sua Fede motrice di umanità di sovvertire le regole sociali delle caste indiane, forse la fiducia in una Presenza che da infinita si è resa finita, che da divina si è incarnata nella nostra fragile e meravigliosa umanità. Ma non preoccupatevi, non voglio tediarvi, almeno non in quest’occasione, con qualche resoconto storico-filosofico, apologetico o fenomenologico. L’intento di questo articolo è informare dei fatti dell’attualità che spesso passano in sordina perché ci attraggono molto di più gli ultimi gossip di qualche starletta o di un Sanremo piuttosto che i nostri fatti di attualità e umanità.

La storia dovrebbe insegnarci che in tutto il corso dell’esistenza dell’essere umano c’è stato nel nome della religione, da ogni parte, spargimento di sangue, lotte intestine, persecuzioni e condanne. Io non credo assolutamente come afferma John Lennon nella sua celebre Imagine che la pace possa essere garantita da un mondo senza nazioni, senza religioni. L’appartenenza a un sostrato culturale e quindi nell’ordine, a uno Stato , a una nazione, a una civiltà, e viceversa il senso del sacro e della fede sono elementi essenziali dell’espressione di ogni essere umano, imprescindibili e immodificabili, elementi vitali che guidano la libertà e la dignità dell’uomo.

Una sola parola, anzi due: rispetto e dialogo. E’ ciò che il pontefice Benedetto XVI ha espresso nel suo messaggio per Giornata Mondiale della Pace , è quanto il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon ha richiesto esprimendo il proprio cordoglio per le persecuzioni anticristiane.

Nessun trattato storico filosofico, non sono qui a fare apologetica. Semplicemente una cosa (interpello quanti si ritengono credenti) : pensiamo a noi che spesso rifiutiamo di andare in Chiesa perché piove, perché riteniamo di aver altro da fare, perché c’è la partita in televisione, perché vogliamo dormire e pensiamo a quanti non possono esprimere il loro credo e le loro funzioni o, peggio, non sanno se potranno tornare più a casa: Pensiamoci.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Jakob Panzeri

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