Tutti i post della categoria: In evidenza

Un governo che parla il linguaggio della verità

postato il 14 Dicembre 2011

Mario Monti presentando la manovra in commissione ha detto qualcosa di assolutamente banale e scontato ma di tremendamente vero: il governo dei professori deve parlare il linguaggio della verità. E’ un’affermazione quella di Monti che implica necessariamente, in una sorta di sillogismo implacabile, il fatto che i governi precedenti e  in generale la politica tutta non sono stati sinceri, non hanno detto la verità. E qual era la verità da dire a questo Paese? Era la verità dura ma necessaria delle riforme, dei provvedimenti urgenti più volte rinviati, era la verità di un sistema bipolare “ad alta concentrazione di conflitto”, o “muscolare” come lo definì a suo tempo Casini, incapace di governare l’Italia. Oggi, e fa una certa impressione dirlo, abbiamo un governo che parla il linguaggio della verità che dice a chiare lettere che è finita la ricreazione, che non è più tempo di prendere in giro se stessi e il Paese. Il governo dei tecnici non è una sospensione della politica, ma è un rimedio all’incapacità del sistema politico messo sotto accusa da quel “perché non le avete fatte voi queste cose?” di Mario Monti; può anche diventare, se le forze politiche continuano in questo slancio coraggioso, l’occasione per il rilancio della politica, una politica in cui, secondo l’auspicio di Monti, “gli eletti sappiano guardare abbastanza lontano per fare le cose che servono al futuro del Paese”. Questa rifondazione della politica può cominciare da subito: approfittando della “pax montiana” è possibile, se non doveroso, discutere della riforma della legge elettorale, che non è altro che un modo per ricostruire il rapporto perduto tra cittadini e politica, dove quest’ultima, come ha sottolineato Monti, è fatta da eletti e non da nominati.

Adriano Frinchi

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Liberalizzazioni cercansi. Urgentemente.

postato il 13 Dicembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Giuseppe Portonera

L’Italia è un Paese di Caste e di Castine, in cui poteri pubblici e interessi privati sono sempre andati a braccetto e in cui le rendite di posizione sono sempre state considerate alla stregua di beni primari. L’Italia è un Paese che vanta una classe politica strapagata, ma largamente insufficiente ad espletare i suoi compiti, e gran parte del resto della popolazione che si impegna caparbiamente – almeno, chi ha l’opportunità di farlo – nella difesa ad oltranza del proprio orticello e che è pronta a riciclare gli slogan contro i privilegi della “Casta dei politici che ruba”, ma che si indigna stizzita quando qualcuno prova a mettere naso negli affari che li riguardano. Con tutti i macroscopici privilegi che hanno i pezzi grossi in Italia, dicono, proprio quelli dei tassisti o dei farmacisti, dei notai o degli avvocati dovete venire a discutere? Uh, figurarsi. Guai a chi, impavido o piuttosto ingenuo, proverà ad modificare questa incresciosa situazione, tirando fuori dal cassetto le celebri (o si dice “fantomatiche”?) liberalizzazioni. Si vedrà costretto a soccombere di fronte alla ferma e ferrea opposizione delle corporazioni dei mestieri, di quelle categorie di settore che anziché essere, come nel resto d’Europa, libere associazioni di lavoratori, sono piuttosto l’ultimo regalo lasciatoci in eredità dell’economia fascista: “tutela di tutti gli interessi che armonizzano con quelli della produzione e della nazione”. Simona Bonfante, quest’estate, lo aveva spiegato molto chiaramente: “nel nostro defascistizzato paese dove non si può – per carità – manco evocarlo il Duce, si può, invece, ed anzi è titolo di merito, mantenerne in vita le infrastrutture liberticide e gridare allo scandalo quando solo se ne ipotizza la chiusura, ovvero l’apertura alla plurale, libera concorrenza dei meriti professionali”. Queste infrastrutture liberticide hanno i nomi più disparati e vanno dai vari ordini professionali alle altrettanto varie confederazioni del lavoro, tutti con caratteri comuni: difesa più intransigente della loro struttura chiusa e conservatrice e avversione più decisa a ogni provvedimento che provi a rendere finalmente libero il mercato in cui operano (per l’appunto, le liberalizzazioni).

Personalmente sono sempre stato un fan della concorrenza e perciò ho sempre visto di cattivo occhio ogni ostacolo al libero mercato: per questo quando il Premier Mario Monti ha licenziato la manovra economica, che pure è pesante e rischia di essere perfino recessiva, ho gioito alla vista delle liberalizzazioni inserite nel testo. Che forse non avrebbero avuto immediati effetti sulla crescita e sulla competitività, ma che comunque avrebbe imposto alle imprese italiane produttive, commerciali e di servizi di adeguare la loro offerta e di migliorare la loro competitività (a vantaggio loro, dei loro dipendenti e di noi consumatori). Nel decreto c’erano nuove tasse, ok, ma c’era anche il via a un cammino improntato a politiche pro-crescita. E invece la portata innovativa della manovra del governo si è schiantata contro l’orgoglio corporativo di questa parte del popolo italiano, che ha reagito con vigore alle prime due, importanti liberalizzazioni: la libera vendita dei farmaci di fascia C nei supermercati e l’apertura alla concorrenza per le licenze dei taxi (notare, poi, come in Parlamento, l’opposizione a questi due provvedimenti sia andata di pari passo a quella sui tagli ai costi della politica). Le corporazioni hanno potuto più dei sindacati, in fondo: la minaccia di chiudere e sabotare tutto ha potuto più di uno sciopero congiunto di CGIL, CSIL e UIL.

Tutto questo è inaccettabile. Qui lo si è sempre sostenuto: il compito del Governo Monti non è solo quello di traghettare l’Italia in mezzo a un mare in tempesta; c’è bisogno di riforme strutturali e profonde, che non investano solo le pensioni o il mercato del lavoro, ma che contemplino, per l’appunto, le liberalizzazioni e le privatizzazioni. Perché se non si riusciranno a piegare davvero le assurde pretese di queste corporazioni, il duro sacrificio economico chiesto agli Italiani sarà davvero iniquo e impossibile da digerire. Per questo, Presidente Monti, qui bisogna dire no a questo ricatto e aprire la porte al futuro (al libero mercato, cioè). Proprio come Lei ci ha giustamente spiegato tempo addietro.

 

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Banche e crisi, appunti a margine.

postato il 12 Dicembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Le banche, nel sistema economico sono fondamentali: tramite loro, le imprese e le famiglie possono finanziarsi, e soprattutto per le prime è fondamentale avere accesso al credito per potere proseguire la propria attività. Con un paragone semplicistico potremmo dire che le banche sono il sistema venoso che porta ossigeno e nutrimento (i soldi) ai muscoli (le imprese). Se la circolazione sanguigna si blocca, il corpo muore.

Premesso quanto sopra, può capitare che le banche vadano in crisi, come rischia di accadere in Germania. In questi giorni, si è anche affacciata l’ipotesi di una nazionalizzazione della Commerzbank, dato che l’istituto bancario tedesco ha grossi problemi di tenuta e anzi c’è chi parla apertamente di un possibile crack finanziario di questo istituto, cui seguirebbe quello di Deutsche Bank, Deutsche Post, Credit Suisse e Societe Generale.

Questa situazione ha generato una conseguenza importante: con l’esclusione dell’overnight o di scadenze brevissime, il mercato bancario è svanito, più o meno come accadde nel 2009 subito dopo Lehman. Che significa in concreto? Che le banche non si fidano tra loro o comunque preferiscono tenersi in casa il cash necessario per far quadrare a fine giornata i flussi finanziari. Inoltre, finora si poteva bussare (e lo si è fatto in modo massiccio) alla Bce per ottenere liquidità con una sorta di pronti contro termine, ma per scadenze anch’esse brevissime. Di più la Bce sembrava non poter fare, ma ora, come abbiamo detto, la situazione è cambiata e adesso vi è la possibilità per le banche di portare alla Bce “carta” con scadenze più lunghe, ma provvista di garanzia statale. Questo vuol dire che in astratto le banche potrebbero indebitarsi fino al patrimonio di vigilanza (è un’esagerazione, ma dà l’idea) per ottenere liquidità preziosa fino a quando sul mercato non si saranno ristabilite le normali condizioni di funzionamento. Pare che sia un meccanismo che le banche irlandesi stanno già sfruttando. Nel frattempo il fondo EFSF (il fondo salvastati) vedrà la luce nell’estate del 2012 con una capienza di 500 miliardi. Questa decisione è molto importante, perché ad oggi se il fondo Efsf andava sul mercato a chiedere soldi, rischiava un mezzo fiasco e comunque non avrebbe risolto il problema, perché molti gestori avrebbero sottoscritto bond dell’Efsf e per finanziarsi avrebbero venduto Btp e Bonos spagnoli, aumentando le tensioni sul mercato. Adesso, con il commitment, ovvero l’impegno degli Stati Ue a contribuire per 500 miliardi che è all’origine del fondo stesso, il fondo EFSF può ottenere dalla BCE una ulteriore riserva di 1.000 miliardi di euro. A questo punto, il fondo salvastati ha le dimensioni necessarie per mettere paura al mercato ribassista e dare tempo a Italia e Spagna di mettere a punto le loro manovre e riforme fiscali per risanare i conti.

Come si vede, ci siamo ricollegati alla situazione italiana, la quale ha un altro punto importante: l’articolo 6 della manovra voluta da Monti che è quello riguardante la possibilità da parte dello Stato di concedere la propria garanzia alle passività delle banche di durata da tre mesi fino a cinque o addirittura sette anni. E’ una garanzia sottoposta al vaglio preventivo della Banca d’Italia circa l’adeguata patrimonializzazione e solvibilità della banca stessa. E sarà ovviamente una garanzia a pagamento, con fee variabili a seconda della natura della passività. Perché questa garanzia è così importante? Le banche italiane sono patrimonialmente solide (più di molte banceh tedesche e francesi per capirci), ma hanno poca disponibilità liquida da concedere in prestito e al mercato secondario un bond a cinque anni di una banca italiana, sia pure con garanzia dello Stato, oggi interessa assai poco. La garanzia è invece importante se è possibile da parte delle banche emettere un bond a cinque anni, comprare dallo Stato la garanzia, presentarsi dalla Bce e utilizzare quel bond garantito dallo Stato come collateral (garanzia) per ottenere liquidità per un periodo pari a quello del bond stesso. Questa possibilità cambia di colpo lo scenario per tutte le banche e potrebbe permettere loro di superare l’attuale impasse della assoluta mancanza di liquidità interbancaria, soprattutto per le scadenze medio-lunghe. E l’effetto di questa mancanza di liquidità, per l’economia italiana è pericolosissimo: da più di un mese tutte le migliori medie e piccole aziende sono chiamate dalle banche per riavere indietro soldi o per comunicare loro di non voler concedere altre, determinando ulteriori effetti restrittivi per le imprese e l’economia italiana. Invece, i soldi ottenuti dalle banche italiane nel modo sopra detto, devono, per legge, essere destinati a crediti verso le PMI con tassi di interesse più bassi di quelli attuali, dando così ossigeno all’economia italiana.

 

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Dare il buon esempio

postato il 12 Dicembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Marta Romano

Mettiamo subito in chiaro alcune cose: tagliare gli stipendi dei parlamentari non é la panacea di tutti mali. Dire che la crescita riprenderà dopo questi tagli é assolutamente demagogico.
Detto questo, il punto é un altro: non si può chiedere agli altri, siano essi operai, dipendenti pubblici, lavoratori e imprenditori, di fare sacrifici su sacrifici senza pensare prima a se stessi.
Quella varata da Monti é una manovra impegnativa che toccherà le pensioni e reintrodurrà l’ICI, ma é necessaria. E’ necessaria per uscire fuori dalle difficoltà causate da anni di malgoverno, dalle conseguenze di questo bipolarismo malato e dagli ultimi anni caratterizzati dalla contrapposizione netta tra le due fazioni, tra “berlusconiani” e “antiberlusconiani”. La manovra serve; questa manovra serve.
Tuttavia, c’é un dato di fatto: un personal trainer grasso non può chiedere ad una persona ridotta già pelle e ossa di continuare a correre sul tapis roulant, o prima o poi il meccanismo si incepperà e la palestra sarà destinata ad un misero fallimento. Ora immaginiamo che i parlamentari siano tanti personal trainer, a cui si chiede di fare una dieta, di ridurre i carboidrati per dare l’esempio, per recuperare un po’ di credibilità agli occhi dei suoi allievi: non sarà la soluzione al problema dell’obesità, ma i soci della palestra ricominceranno a correre sul tapis roulant con più spirito.
Per questo non si può tornare indietro, né i parlamentari possono opporsi a questa scelta, né tanto meno cadere in stupidi vittimismi. E se qualcuno tra loro si chiederà il perché di tagli proprio alla propria categoria di appartenenza, qualcuno potrà consolarli dicendo che questa domanda se la pongono da anni piccoli e medi imprenditori, e non sono ancora riusciti a trovarvi una risposta.

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La lunga agonia delle Province

postato il 9 Dicembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Roberto Dal Pan

Da almeno 65 anni, cioè dalle discussioni in seno all’Assemblea Costituente, il destino delle Province è stato più volte messo in discussione ed altrettante volte la sorte è stata benigna, risparmiando generazioni di politici dallo spettro della disoccupazione. Questa articolazione periferica dello Stato, apparsa nella nostra penisola al seguito delle truppe napoleoniche agli inizi del XIX secolo, ha trovato qui un fertile terreno di coltura che ne ha garantito una rigogliosa crescita, facendole passare da quota 59 del 1861 a quota 110 del 2011 con un incremento medio di una neonata Provincia ogni tre anni di storia unitaria.

Come già detto, alla nascita della Repubblica si pose subito il problema della coabitazione tra le Province, retaggio centralista franco-sabaudo, e le nuove (sarebbe meglio dire le rinascenti) Regioni patrocinate da democristiani e repubblicani, forti delle rispettive tradizioni autonomistiche, ma fieramente avversate dai social-comunisti e dai conservatori. Come sappiamo, il compromesso scaturito dai lavori della Costituente rinviò fino agli anni ’70 del secolo scorso la piena attuazione del decentramento regionale ordinario e proprio allora ripresero vigore i tentativi di abolizione delle Province.

Negli ultimi tempi, alle motivazioni più precisamente giuridiche a favore dell’abolizione dell’istituto provinciale si sono aggiunte valutazioni di natura economica, in qualche caso con connotati di pura demagogia e scarsa obiettività. La realtà dei fatti è che, mentre la Regione si va sempre più affermando come pilastro non del mero decentramento amministrativo ma di un vero e proprio autogoverno del territorio, la Provincia si trova spesso a galleggiare nell’indifferenza dei più e sopravvivere all’ombra della prima garantendo buoni posti di ripiego per molti delusi dalle competizioni elettorali.

Nemmeno chi ha costruito le proprie fortune elettorali sparlando a vanvera di federalismo ha però saputo introdurre efficaci forme di innovazione degli strumenti del decentramento amministrativo; anzi con le proprie iniziative legislative ha per primo condannato alla morte per consunzione le amministrazioni provinciali, salvo versare oggi lacrime di coccodrillo.

Ma davvero oggi è possibile fare a meno delle Province? E se sì, a quali condizioni e con quali strumenti?

E’ sempre una buona abitudine cominciare ad analizzare un problema partendo dai dati sicuri a disposizione, uno dei più interessanti è quello relativo alla popolazione residente: la Provincia più popolosa d’Italia è Roma con più di 4 milioni di abitanti seguita da Milano con 3 milioni abbondanti; la meno popolosa è la Provincia dell’Ogliastra con 58.000 abitanti, preceduta dalla Provincia di Isernia con quasi 89.000. L’evidente sproporzione tra questi dati denuncia tutto il peso del problema!

Anche nell’analisi dei dati relativi alla superficie emergono considerazioni interessanti: la Provincia più estesa d’Italia risulta essere Bolzano con quasi 7.400 kmq seguita da Foggia, Cuneo e Torino che si fermano poco sotto i 7.000 kmq; la Provincia più piccola d’Italia è Trieste con i suoi 211 kmq al cospetto dei quali anche i 365 kmq della penultima, cioè Prato, sembrano tanti. Trieste è anche la Provincia che raggruppa il minor numero di Comuni, solo 6, mentre quelli che compongono la Provincia di Torino sono ben 315!

Il fatto che tutte queste amministrazioni provinciali siano rette dal medesimo impianto burocratico è cosa assolutamente incredibile; è ben comprensibile come Trieste e Prato potrebbero essere meglio organizzate sul modello delle città metropolitane mentre per Roma, Milano, Torino e Napoli il governo provinciale si trova ad amministrare più cittadini che un’entità statuale autonoma come la Bosnia, l’Albania o la Moldavia!

L’abolizione “tout court” delle Provincie ordinarie porterebbe ad un risparmio di circa 65 milioni di euro, stando ai più recenti calcoli dell’Università Bocconi, ma l’accento non credo vada posto tanto sull’aspetto economico quanto sulla necessità di una vera riforma federalista che faccia perno sulle Regioni e sui Comuni, enti questi ultimi che a loro volta andrebbero rivisitati nella loro strutturazione. Le politiche di area vasta potrebbero essere quindi affidate ad organi consorziali di secondo livello in cui siano chiamati a partecipare gli stessi amministratori comunali, nell’ambito delle linee di coordinamento regionali, a patto che non si vengano a creare nuovi centri di spesa.

Le uniche zone dove potrebbero essere mantenute strutture sul tipo delle attuali Province, con particolari attribuzioni di autonomia, sarebbero le aree montane delle Regioni più estese, allo scopo di adeguare le forme di governo dei territori di pianura alle realtà, anche molto diverse, delle zone maggiormente svantaggiate rappresentate per l’appunto dalle aree montuose, il tutto nel pieno rispetto dell’art. 44 della Carta Costituzionale.

Vedremo se questa volta il Parlamento avrà l’occasione per porre finalmente in atto una svolta storica nell’organizzazione delle autonomie locali oppure se, ancora una volta, le Province confermeranno la loro caparbia capacità di sopravvivere (politicamente) a tutto ed a tutti.

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Critiche a Monti, c’è chi può e chi non può.

postato il 9 Dicembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

La delusione e la rabbia di tante persone di fronte alla manovra economica non mi stupiscono. E’ comprensibile che davanti a sacrifici, anche notevoli, la gente sia arrabbiata e che dunque si sfoghi apertamente in famiglia, sul lavoro, nei luoghi di ritrovo e, oggi soprattutto, nella rete. Blog, forum e social network sono un fiorire di sfoghi, invettive ed anche italianissime ironie. Non bisogna allarmarsi per queste cose, sono normali addirittura necessarie, e chi ha buona memoria ricorderà, al netto di internet, parole e sentimenti molti simili ai tempi delle stangate dei governi Amato e Ciampi. So che Mario Monti, come a suo tempo Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, non se la prenderà per le ironie ed anche per qualche tono un po’ sopra le righe degli italiani. Indulgenza dunque per il popolo, un po’ meno per autorevoli commentatori e politici di ogni colore che in queste ore si stanno esercitando al tiro al bersaglio contro Monti e i suoi provvedimenti. Ho letto di giornalisti improvvisati grandi economisti che hanno stilato liste di cose da fare, o che hanno fatto le pulci alla manovra, ho letto anche articoli di celebri economisti ed esperti, forse un po’ irritati dal fatto di non essere nel governo, che facevano la lezioncina a Mario Monti. E non parliamo dei giornali che facevano titoli degni di uno stato di Facebook. Ora nessuno pretende da questi signori applausi e lodi per il professor Monti, però sarebbe stato gradita una certa indulgenza, senza abdicare al diritto di critica, per chi si è preso enormi responsabilità e sarebbero stati auspicabili un contributo, un suggerimento od una sensibilizzazione del tessuto sociale piuttosto che un banale ed inutile populismo. Ma ciò che è più insopportabile sono le critiche della politica, quella stessa politica che avrebbe dovuto evitare questa situazione, quella politica che avrebbe dovuto fare le riforme quando era tempo. E il riferimento non è alle posizioni di Lega ed Idv che per esistere hanno bisogno di essere contro qualcosa, ma alle posizioni di chi pur avendo avuto nel passato responsabilità di governo ora sgrana il rosario dei “non mi piace” e dei “non è la nostra manovra”.

La manovra, come già detto da alcuni, è una medicina amare e si sa che le medicine amare non piacciono a nessuno, nemmeno a chi, come Monti, le deve somministrare. Ci sarebbero migliaia di miglioramenti da fare, non è la manovra dei sogni indubbiamente, ma è quella necessaria fatta da un governo che non è presieduto dal genio della lampada ma da un onesto e stimato civil servant. Questo non è un invito all’acriticità ma una esortazione a non sparare sul presidente Monti che si sta facendo generosamente carico di una situazione terribile; dalle forze politiche e sociali in questo momento tutti si attendono responsabilità e serietà, ci sarà tempo per tornare ai bizantinismi e ai riti della politica. Ora è necessario adeguarsi alla sobrietà, al rigore e alla velocità di Mario Monti; lo si faccia per l’Italia o se non se ne è più capaci almeno lo si faccia per cortesia verso una persona che si è fatta carico di immense responsabilità non sue. La classe politica deve tanto a Mario Monti, a partire da quel piccolo dettaglio, che però dice tanto, dell’attenzione che Monti riserva agli interventi di tutti i parlamentari. E tutti noi sappiamo che spesso in Parlamento non parlano statisti.

 


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La manovra incentiva l’assunzione di donne e giovani

postato il 8 Dicembre 2011

Giovanni Villino racconta, a modo suo, le novità presenti nella manovra:

Se mi assumete potete dedurre 15.200 euro

Il testo ufficiale della manovra varata dal governo Monti fa emergere piacevoli novità. Una di queste è contenuta nell’articolo due che potete leggere qui. Cari datori di lavoro, non lasciatevi sfuggire questa occasione:

Le imprese che assumeranno donne e giovani sotto i 35 anni a tempo indeterminato avranno la possibilità di dedurre 10.600 euro per ogni donna e giovane sotto i 35 anni assunto a tempo indeterminato. Lo sconto sale a 15.200 nelle regioni del Sud. Le imprese interessate allo sconto maggiorato, a 15.200 euro, sono quelle che assumeranno giovani a tempo indeterminato sotto i 35 anni o donne in Sicilia.

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Ricominciamo da infrastrutture e piccole e medie imprese

postato il 6 Dicembre 2011

“Riceviamo e pubblichiamo” di Mario Pezzati

Dopo 10 anni in cui il settore delle infrastrutture è stato sistematicamente mortificato, si torna ad investire con decisione su questo importante volano di crescita.

E’ una decisione importante perchè investire sulle infrastrutture porta benefici nel breve periodo e nel lungo periodo: nel breve periodo, porta lavoro ha ricadute positive in un vastissimo indotto; nel lungo periodo, infrastrutture eccellenti, permettono alle aziende di risparmiare sui costi, le merci viaggiano più speditamente, i cittadini usufruiscono di servizi migliori.

Con il Governo Berlusconi, o meglio con l’intervento di Tremonti, nel triennio 2009-2011 sono state ridotte del 34% le risorse per le nuove infrastrutture (il livello più basso degli ultimi 20 anni) trasformando l’Italia  nel Paese dei cantieri fermi.

Ora invece, il capitolo infrastrutture torna prepotentemente alla ribalta grazie a 5,2 miliardi di euro che Monti e il CIPE destineranno a cantieri e progetti fermi da troppo tempo: il MOSE a Venezia, l’alta velocità, la statale ionica, il porto di Taranto e la metropolitana di Napoli.

Considerando che la maggior quantità di merci viaggia per mare, la notizia dei fondi per il porto di Taranto, non può che fare piacere, perché è segno di un investimento realizzato non per accontentare oscuri appetiti politici e locali, ma per un preciso ragionamento economico: favorire il commercio e quindi la crescita economica.

Altro punto fondamentale dell’agenda economica sono le Piccole e Medie Imprese (PMI) che sono la base del tessuto imprenditoriale italiano: tramite il rifinanziamento per 20 miliardi del Fondo di Garanzia per le PMI, queste ultime avranno un importante iniezione di liquidità che servirà a contrastare la contrazione e le difficoltà dei prestiti bancari, motivati da una situazione di grande illiquidità e tensione nel mercato interbancario che ricorda la situazione venutasi a creare dopo il fallimento delle banche americane.

Infine il terzo punto a cui guardare con favore è la totale deducibilità dall’IRAP della componente lavoro, che permette di premiare le aziende che assumono e stimolare la lotta alla disoccupazione,  si stratta de “il meccanismo Ace”, ovvero la riduzione delle imposte sugli utili “connessi al rendimento del nuovo capitale immesso nell’impresa” e permette di aumentare la capitalizzazione del sistema produttivo rinforzandolo e dando nuovo stimolo alla crescita economica.

Questi punti, se realizzati correttamente, possono dare un grosso stimolo all’economia italiana che potrebbe finalmente tornare a crescere con ritmi pari a quelli dei paesi europei più avanzati.

 

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A futura memoria (se la memoria ha un futuro)

postato il 3 Dicembre 2011

Prima di iniziare a leggere vi prego di guardare attentamente la foto a fianco e di considerare come degli imbecilli hanno ridotto Oscar Giannino che era stato invitato a parlare ad una conferenza alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Detto questo mi appresto a scrivere un post molto banale, ma anche molto umiliante per una persona che crede di essere in un Paese civile e democratico: sono convinto che impedire ad un giornalista di parlare in una università e lanciargli contro uova e pomodori non è solo antidemocratico e incivile ma è da cretini.  Sono gli stessi cretini che hanno lanciato un bengala contro Bonanni e che hanno sputato in faccia a Marco Pannela, gente che si comporta come se gli anni settanta non fossero mai finiti, o per dirla con Francesco Costa “sedicenti rivoluzionari di sinistra, minorenni, di mezza età e più stagionati che si considerano in missione per il bene del pianeta”. Sono un po’ stanco di questa gentaglia che non ho ben capito perché bivacca nelle nostre università, ma sono anche infastidito da chi minimizza queste cose. Scrivo queste cose a futura memoria, sempre che, come diceva Sciascia, la memoria abbia futuro.

Adriano Frinchi

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Cinque anni dopo possiamo dirlo: avevamo ragione noi.

postato il 2 Dicembre 2011

Sono già passati cinque anni da quella splendida serata. Sono già passati cinque anni da quando l’Udc decise di smettere di essere solo un’appendice di un centrodestra ormai da archiviare e di diventare un partito maturo e autonomo. Sono già passati cinque anni: i più difficili, impegnativi, emozionanti e importanti della nostra storia. Fu il 2 dicembre 2006, infatti, che dal palco del Palasport di Palermo, Pier Ferdinando Casini prese coscienza che il suo e il nostro destino politico non potevano più rimanere legati alla vecchia, paternalistica e raffazzonata idea di politica (e di centrodestra, ça va sans dire) di Silvio Berlusconi e ammise chiaramente che la CDL aveva fallito nella stessa misura in cui stava fallendo il Centrosinistra: “la Casa delle Libertà non ha più senso. Il suo ritualismo fa parte del passato e non di una prospettiva presente”. Disertando Piazza San Giovanni, dove invece si riunì il grosso della vecchia coalizione, l’Udc scelse di dare un segnale forte: l’alternativa a Prodi e alla sua Unione non poteva più essere Berlusconi. Non ci si poteva più accontentare dell’alternanza, serviva un’alternativa. Vera.

Da lì, da quel 2 dicembre, ha avuto inizio il nostro lungo cammino, difficile e solitario ma coraggioso e coerente. E oggi possiamo dire di aver avuto ragione: del resto, il Governo Monti è la dimostrazione che quella sera eravamo riusciti a vedere lontano. Abbiamo chiesto, ai vari governi che si sono succeduti in questi ultimi anni, le celebri riforme strutturali: dopo anni di rinvii, solo Monti oggi è in grado di affrontare questioni che la politica finora non è stata in grado di risolvere. Ecco perché noi – e il Terzo Polo, che nel frattempo si è stretto intorno alle nostre intuizioni e alle nostre scelte – sosteniamo questo governo con convinzione, senza pretese personali o veti. Questo esecutivo, come abbiamo sempre sostenuto, non è e non sarà una semplice parentesi nel quadro politico italiano. Tutto cambierà: nuovi schieramenti nasceranno su nuovi valori e su nuove idee e ci lasceremo finalmente dietro questi 18 anni deludenti.

Cinque anni fa, decidemmo di scommettere tutto: la posta in gioco era alta, forse anche troppo per un partito piccolo come il nostro. Avevamo ragione noi, però. Perché saremo forse piccoli nei numeri, ma siamo grandi nel resto: a partire dal senso di militanza e di sostegno che ciascuno di noi ha sempre avuto nei confronti del partito. E quindi, cinque anni dopo, concediamoci il grado di soddisfazione che meritiamo. Avevamo ragione noi.

Giuseppe Portonera

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