Archivio per Febbraio 2011

“Il Multiculturalismo è fallito” parola dell’Europa (che conta)

postato il 8 Febbraio 2011

Dimentichiamoci per un attimo dell’attuale “politica” italiana. Ruby, la casa di Montecarlo, Scilipoti e i responsabili, ecco per 2 minuti -solo 2, giusto il tempo di leggere queste poche righe- dimentichiamoci di tutto ciò, e proviamo a guardare a ciò che accade in Europa in particolare riguardo alle politiche sociali e dell’integrazione.

Cittadinanza e integrazione sono un tema scottante per la società, e quindi, “ovviamente” (non per l’Italia),  sono un argomento di cui c’è necessità di discutere. E, infatti, due dei principali leaders europei hanno deciso di mettere il tema in discussione, oserei dire, aprendo un dibattito europeo:

Prima la Cancelliera Tedesca, Angela Merkel (Cdu), lo scorso ottobre, poi, la scorsa settimana, David Cameron (Partito Conservatore), hanno pressochè espresso lo stesso concetto: “Il Multiculturalismo è fallito“.

Queste sono parole forti. Molto forti. E’ riscontrabile la volontà di cambiare metodo d’azione riguardo cittadinanza e integrazione, forse perché riconosciute fallimentari. E, vista la sede scelta da Cameron per affrontare la questione (Conferenza di Monaco sulla sicurezza), chissà che forse non sia giunta l’ora di affrontarla pienamente  con un approccio unico europeo.

Ma cosa hanno detto la Merkel e, soprattutto, da ultimo, Cameron?
Hanno detto che il Multiculturalismo -ossia l’accostare, l’affastellare tante culture diverse, le une vicine alle altre, nel pieno rispetto di ciascuna, ma nella totale incomunicabilità, nonché impenetrabilità, nonché mancanza di volontà di integrazione- è fallito. Perchè non può bastare un appello al rispetto di ogni cultura, che si traduce nel lasciare in pace chi rispetta la legge. Non può bastare una posizione neutrale in mezzo a diversi valori.  Non può bastare, parrebbe dire, una libertà fatta da un lasciare fare senza coordinate utili a percorrere una certa direzione, una libertà, quindi, che si rivela essere disorientante e senza punti di riferimento, né per chi è già cittadino né per chi miri a diventarlo.

E già qui, già affermando, in sede ufficiale ed internazionale, quella che è una sentenza definitiva senza ritorno, si sono poste le basi per una svolta.
Ma ciò non basta.

Perché dopo la “pars destruens” viene la “pars construens”.
E anche questa è forte, e capace di scontrarsi con alcuni luoghi comuni e facili risposte di pancia .

Sono sempre buone e attuali le parole di J.F.Kennedy, pronunciate sotto la Porta di Brandeburgo: “dobbiamo costruire un maggior senso di orgoglio comune così che le persone si sentano libere di poter dire: sono musulmano, hindu, cristiano, ma sono anche londinese o berlinese“.
Ne è passata di acqua sotto i ponti, ma, evidentemente, le Politiche adottate sinora non sono riuscite a conseguire questo chiaro, ma ancora non raggiunto, obiettivo.

La proposta di Cameron è “bastone e carota”. “Bastone” quando chiarisce che non si può abbassare il livello di guardia quanto al rischio che si creino zone potenzialmente capaci di creare sacche estremistiche. Ma proprio il multiculturalismo, l’affermazione del diritto alla convivenza di tante culture le une a fianco delle altre , ma allo stesso tempo chiuse nella loro stanze a chiusura stagna, sfocia in questa, certamente non voluta,  pericolosa degenerazione. Quindi va riconosciuta e combattuta senza esitazioni “l’ideologia politica” -così dice Cameron- che sta alla base del radicalismo di matrice islamica.

Ma, ecco qui un bel pò di “carota”, Cameron ha detto chiaramente che “Estremismo e Islam non sono la stessa cosa. C’è chi dice -prosegue il Premier inglese- che Islam e Occidente siano inconciliabili e che sia in corso una guerra di civiltà. Quindi dobbiamo proteggerci da questa religione, o attraverso la deportazione forzata vista con favore da certi fascisti, o vietando la costruzine di nuove moschee come suggerito in alcune parti d’Europa (ecco, forse qui Cameron parla anche di noi…forse…). Queste persone -conclude chiaramente Cameron- alimentano l’slamofobia e io respingo fermamente i loro argomenti”.

In Patria, come in tutta Europa (forse qui, però, noi non siamo compresi), il discorso è stato accolto da forti e intense discussioni.
Ma, forse, il fatto significativo è che Germania e Inghilterra (e, probabilmente anche in  Francia) hanno deciso che è il momento della svolta, quanto a cittadinanza e integrazione.
Non si può avere, così, su due piedi, e da una persona sola, la soluzione a tutti i problemi. Questo è chiaro.

Il fatto importante è che in Europa, non in Italia, si è deciso di affrontare, seriamente e, chissà, magari anche in questo ambito, coralmente un problema concreto e che tocca tutti i cittadini dell’Unione Europea (attuali o futuri!) da vicino, da molto vicino.

Quello che mi chiedo adesso, dopo aver letto le posizioni di Cameron e della Merkel, è una cosa semplice:
Quale è il pensiero del Governo Italiano attuale al riguardo?

“Riceviamo e pubblichiamo” di Edoardo Marangoni

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La triste maschera del processo breve

postato il 8 Febbraio 2011

Vedere Silvio Berlusconi e il suo governo occuparsi della riforma della giustizia è come stare a guardare un bracconiere che riforma la legislazione sulla caccia o affidare al peggiore capitalista di questo mondo la riforma del diritto del lavoro. E’ mai possibile che in Italia si debba occupare di riformare il processo penale un signore che passa gran parte delle sue giornate a confabulare con i suoi avvocati per evitare i processi e dunque allungarli all’inverosimile fino all’agognata prescrizione? Si aggiunga a questo paradosso l’assenza di un progetto nuovo di riforma, magari scritto come ha sottolineato il vicepresidente del Csm Michele Vietti, e l’idea di catapultare Marco Pannella al Ministero della Giustizia per compiere la “grande riforma”. In realtà non esiste nessuna grande riforma, ma esiste solo l’esigenza di salvaguardare il Premier dai suoi guai giudiziari. Così dopo che la Corte costituzionale ha azzoppato il “legittimo impedimento”, creatura dell’avvocato Ghedini, l’entourage del Presidente del Consiglio ha ritirato fuori dal cilindro il mitico “Processo breve”.

Peccato che in questa riforma di breve ci sia solo il tempo per azzerare i processi, non solo quelli del Premier. Effettivamente se uno ci pensa bene l’idea è geniale: visto che non possiamo eliminare i processi (eppure gli piacerebbe tanto) li rendiamo monchi, li priviamo della decisione. Togliendo anche un po’ di risorse economiche a forze dell’ordine e magistrati il gioco è fatto: il Cavaliere può dormire sogni tranquilli e con lui tutti i potenti che hanno guai seri con la giustizia. Il processo breve sarebbe infatti una vera e propria manna dal cielo per gli imputati di altri grandi processi in corso (casi di Eternit, ThyssenKrupp, Cirio, Parmalat e diversi casi di malasanità) che vedrebbero in breve tempo estinguersi i loro processi. Ciò che è sconcertante non è solamente il fatto che per risolvere i suoi problemi personali con la giustizia il Presidente del Consiglio metta a rischio prescrizione  il 50% dei procedimenti pendenti a Roma, Bologna e Torino; il 20-30% a Firenze, Napoli e Palermo, ma che disegni una giustizia dove giungano a termine solo i processi dei poveracci che rubano nei supermercati e che non hanno l’avvocato Ghedini, mentre tutti gli altri processi, anche quelli per i reati più gravi, la cui linea di confine con i reati di mafia è assai sottile, andranno in fumo.

Nel governo non c’è nessuna volontà di riformare la giustizia, c’è solo un’azione coordinata su più campi per tentare di mantenere a galla un Premier che rischia di andare a fondo per il suo immobilismo e per i suoi problemi personali. In questa strategia di sopravvivenza il “Processo breve” è solo un bel nome, una maschera d’oro che parla di riforma epocale del rapporto tra cittadino e giustizia, ma che in realtà nasconde il triste volto di un uomo, attaccato al potere e che non vuole, come tutti i comuni mortali, rispondere delle proprie azioni alla giustizia.

“Riceviamo e pubblichiamo” di Adriano Frinchi

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Rassegna stampa, 8 febbraio 2011

postato il 8 Febbraio 2011
Il Cav. ha paura e preme su Bossi: il tema della giustizia (che ritorna prepotente nell’agenda politica) è troppo importante e quindi si lanciano appelli alla distensione, o – meglio ancora – si tentano abboccamenti vari – come ci racconta Francesco Bei su La Repubblica – “federalismo in cambio del processo breve”. Eppure, scrive La Stampa e conferma l’intervista di Calderoli sul Sole, o i numeri sono certi o sono meglio le urne a maggio (magari dopo la riforma, magari no, chi lo sa); secondo Marcello Sorgi, poi, “Umberto è berlusconiano per amore”, sì, ma soprattutto “per forza” e quindi si cercherà in tutti i modi un accordo in extremis. Folli scrive invece di una via sempre più stretta per la maggioranza e il Foglio fa il punto della situazione su riorganizzazione del Pdl e riposizionamenti della Lega (da leggere). Nel frattempo, Onida sul Sole assicura che la modifica dell’art. 41 è un “falso problema”, mentre il Riformista ci racconta dell’ennesimo stop alla frustata di rilancio economico immaginata da B. e sottoscritta dalla Marcegaglia (pur tra diverse riserve) e si allarga il perimetro del Rubygate (leggete, dalla Stampa, delle accuse che la showgirl Sara Tommasi ha indirizzato a Lele Mora).

E il Cavaliere preme su Bossi: “Sulla giustizia non ti sfilare” (Amedeo La Mattina, La St ampa)

L’ultimo patto tra Silvio e Umberto: “Federalismo in cambio della giustizia” (Francesco Bei, La Repubblica)

Federalismo, i “paletti” della Lega (Roberto Bagnoli, Corriere della Sera)

«Urne a maggio dopo la riforma», il Senatùr pressa Silvio (Alberto Gentili, Il Messaggero)

Il Pdl rilancia il processo breve, è scontro (Donatella Stasio, Sole24Ore)

Processo breve, si riaccende lo scontro (Angelo Picariello, Avvenire)

Processo breve: seconda edizione riveduta e corretta (Francesco Grignetti, La Stampa)

Roberto Calderoli: «Numeri certi o stacchiamo la spina» (Barbara Fiammeri, Sole24Ore)

Il punto di Folli – Le intenzioni e la realtà: il sentiero stretto della maggioranza (Stefano Folli, Sole24ore)

Umberto berlusconiano per amore e per forza (Marcello Sorgi, La Stampa)

Il Quirinale condanna gli scontri ad Arcore (Lorenzo Fuccaro, Corriere della Sera)

Il Cavaliere divide Pannella e Bonino (Monica Guerzoni, Corriere della Sera)

Tutte le parti in commedia (Il Foglio)

II Cav fa harakiri se esclude Casini (Marco Bertoncini, ItaliaOggi)

«Basta accampamenti. Subito alloggi dignitosi» (Luca Liverani, Avvenire)

E la frustata per la crescita slitta ancora (Simona Ciaramitaro, Il Riformista)

Lotteria delle riforme: esce il 41 (Valerio Onida, Sole24ore)

Sondaggi in risalita. Azzurri al 30% (Gianluca Roselli, Libero)

La Tommasi accusa Mora “Drogava le ragazze” (Guido Ruotolo, La Stampa)

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Se la Lega stacca spina ne prendiamo atto

postato il 7 Febbraio 2011

Se la Lega vuole staccare la spina noi non possiamo che prenderne atto con serenità. Le elezioni sono sempre un momento di democrazia, tanto più se la maggioranza non riesce a produrre risposte concrete.
Quanto alla composizione delle commissioni, non e’ colpa nostra se la maggioranza si trova a fare i conti con la contabilità parlamentare pur essendo partita con 80 parlamentari in più.
Le regole alle Camere sono sempre state rispettate: la maggioranza si abitui a convivere con i numeri che ci sono.

Pier Ferdinando

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E’ il momento del cordoglio, no a sciacallaggi

postato il 7 Febbraio 2011

Questo è il momento del cordoglio comune dell’intera comunità nazionale per la morte dei quattro bambini rom. Ed è anche il momento della riflessione per assumere decisioni conseguenti affinché questi fatti non si verifichino più. La speculazione di chi è abituato agli sciacallaggi non mi è mai piaciuta, né ieri contro Veltroni, né oggi contro Alemanno.

Pier Ferdinando

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Russia, la porta dei due mondi

postato il 7 Febbraio 2011

La storia della Russia affonda le proprie radici in tempi antichissimi. La cultura di questo sconfinato paese, da sempre un ponte tra due mondi totalmente diversi come l’Europa e l’Asia, si è sempre distinta per la propria terzietà. Una terra attraversata da 11 diversi fusi orari che lambiscono e racchiudono infinite culture, che affondano le proprie radici nei due diversi continenti, ma che in realtà sono terze ed indipendenti.

Dal XVIII secolo in poi, lo sforzo dei governanti russi è sempre stato volto a modernizzare il proprio Paese sul modello delle monarchie europee. Da un lato il tessuto sociale russo, composto in grandissima parte da contadini, garantiva il potere dello Zar e della nobiltà dal malcontento che andava crescendo negli stati in cui l’assolutismo era ormai in crisi. La pressoché totale assenza di una classe borghese salvaguardò la monarchia russa dal pericolo di contagio in ordine agli ideali rivoluzionari francesi del 1789. Dall’altro però condannò per oltre tre secoli il paese ad un cronico arretratezza economica ed in parte culturale.

Sino ai primi anni ’30 del XX secolo, la base economica del paese era rimasta immutata: l’agricoltura era in maniera quasi assoluta il fattore principale. Culturalmente, anche sotto l’impulso di sovrani illuminati come Caterina la Grande, la corte stimolò grandemente la creazione di una “inteligencja”, circondandosi di artisti. Questo fenomeno però porto ad una concentrazione della cultura nelle mani del ceto aristocratico, escludendo in maniera assoluta il mai realmente emerso ceto borghese e precludendo definitivamente la possibilità dello sviluppo di quella coscienza liberale e nazionale che si andava affermando in altri stati europei, ponendo così le basi per l’inevitabile declino di una monarchia mai percepita come garante dello stato.

La Rivoluzione d’Ottobre aprì una fase politica nuova: persino Lenin, nell’importare il modello rivoluzionario marxista, si trovò innanzi a dei limiti considerevoli. Marx aveva infatti preso a modello lo stato dove il liberismo ed il capitalismo avevano già raggiunto un relativo avanzamento (egli infatti era un tedesco e visse per lungo tempo a Londra). Per importarlo in Russia, Lenin dovette stravolgere i propri piani: mancava totalmente una classe di alta borghesia industriale; la ricchezza era detenuta dall’aristocrazia che ancora applicava modelli economici tardo-medievali. La base della lotta di classe non sarebbero potuti essere quindi gli operai, che rappresentavano un numero alquanto esiguo, ma sarebbero dovuti essere i contadini.

Stalin, succedendo a Lenin, comprese la necessità di un adeguamento dell’economia russa ai criteri industriali del XX secolo, sia per motivi strategici (l’indipendenza produttiva russa si era resa necessaria da quando gli stati occidentali, temendo un contagio al proprio interno del morbo del socialismo reale, avevano in pratica chiuso i canali diplomatici e commerciali con l’U.R.S.S.), sia per motivazioni ideologiche (adeguare quindi la società sovietica alla visione marxista). I Piani Quinquennali, alla base di queste politiche economiche, strapparono milioni di famiglie dalla terra per reinsediarle nei grandi complessi industriali, provocando uno shock produttivo in ambito agricolo.

La politica estera sovietica ricalcava il modello dettato da quella zarista, differenziandosi non tanto nei modi, quanto nel fine perseguito. La monarchia russa si poneva come ultima legittimata potenza discendente direttamente da Roma (Czar in russo significa infatti Cesare). Ereditando il trono dell’Impero Romano d’Oriente, il trono di Bisanzio, la corona russa si riteneva di fatto legittimata a difendere gli interessi di tutta la comunità greco-ortodossa e slavofona d’Oriente.

L’Unione Sovietica, differentemente, basava la propria diplomazia sulla convinzione di essere il faro del comunismo mondiale, con il chiaro obbiettivo di esportare le dottrine socialiste ovunque nel mondo. Da ciò presero le mosse varie linee politiche, dal consolidamento dei propri confini con l’instaurazione di regimi satelliti (Dottrina Breznev della “sovranità limitata”), sino allo spiccato Terzomondismo, che consisteva nel fornire aiuti economici e militari a qualunque regime si opponesse all’ “imperialismo statunitense”. Negli anni Ottanta, ciò che il Segretario di Stato Herny Kissinger definì “un gigante miliare ed un nano economico”, iniziò a mostrare i propri limiti.

L’elezione negli Stati Uniti di Ronald Reagan impose una svolta significativa: il presidente varò nel corso del suo primo mandato un poderoso investimento nel settore militare, che ebbe il proprio culmine nel progetto difensivo denominato “Star Wars”. L’Unione Sovietica si trovò costretta ad inseguire gli Stati Uniti nella corsa al riarmo. Gli sforzi sostenuti non le valsero la tanto agognata parità strategica: in compenso aprirono un abisso sul proprio deficit economico.

Agli inizi degli anni ’90 la bandiera rossa fu ammainata dal pennone sul Cremlino. La Russia fu costretta ad un’apertura al mondo occidentale impostale dal proprio ridimensionamento geopolitico a seguito della caduta del Soviet. La Federazione governata da Boris Eiltsin si trovò innanzi un disastro di proporzioni bibliche: a 70 anni di socialismo reale seguì l’introduzione di un liberismo senza regole, che mise in ginocchio una società che, non solo non ne comprendeva le dinamiche, ma che per generazioni l’aveva combattuto. In questo clima nascono le fortune degli oligarchi: spesso giovani figli di funzionari dell’elefantiaco apparato di governo, che sfruttando la posizione sociale all’interno delle stanze del potere, e con l’apporto di capitali spesso di dubbia liceità, riuscirono ad acquistare le aziende di Stato, in particolar modo quelle legate ai processi estrattivi, ad un prezzo irrisorio.

Oltre all’adozione forzata del libero mercato, anche la propria influenza strategica su quelli che sino a due decenni prima erano propri satelliti, venne meno. L’apparato militare, nonostante la oggettiva potenza dovuta anche dai missili strategici, appariva in gran parte obsoleto ed indebolito dal frazionamento dell’Unione Sovietica. Le stesse politiche per l’integrazione seguenti alla caduta del colosso comunista, furono blande e poco convincenti: la Comunità degli Stati Indipendenti sorta a questo scopo non riuscì ad arginare le spinte centrifughe che si vennero a creare all’interno dei singoli Stati membri. In Russia la polveriera caucasica esplose: la Cecenia si autoproclamò indipendente nel 1991, approfittando della situazione di grave incertezza in cui verteva la Federazione Russa.

A seguito del fallimento di ogni iniziativa politica, nel 1994 Eiltsin decise di passare ai fatti, ordinando l’invasione dell’autoproclamata Repubblica Cecena con l’obbiettivo di ripristinare la sovranità russa nella zona. Ciò che seguì fu una disastrosa quanto sanguinosa guerra di due anni, che portò alla sconfitta russa ed al riconoscimento de facto dell’indipendenza cecena. Fu proprio in Cecenia che si giocò la prima e più importante partita del neo Premier Putin.

Nel 1999 un malato Boris Eiltsin lasciò la guida del Paese all’allora Primo Ministro Vladimir Putin; la situazione interna russa si presentava estremamente complessa: sull’onda di un decennio di crisi economica, le periferie reclamavano un’autonomia maggiore dal potere centrale, spesso in maniera violenta. In Cecenia si acuirono le tensioni interne: la lotta per la liberazione e la creazione di un emirato caucasico divampò di nuovo e rischiava di espandersi ai turbolenti territori confinanti.

Il casus belli fu fornito da una serie di attentati terroristici in alcune città russe tra cui Mosca: i servizi di sicurezza non esitarono ad attribuire la paternità delle azioni a dei gruppi di guerriglieri ceceni. Ne seguì come rappresaglia l’invasione della regione del Daghestan da parte dei guerriglieri stessi. Il 26 agosto 1999 si riaprirono le ostilità: le operazioni militari su vasta scala si conclusero nel maggio del 2000, con la presa da parte delle truppe russe della capitale Grozny, già completamente rasa al suolo.

Putin ebbe così modo di consolidare il proprio potere innanzi all’apparato militare, molto influente in Russia e contemporaneamente spegnere le istanze locali di indipendenza che videro nella Cecenia un tragico memento. Iniziò così il decennio dell’Uomo forte del Cremlino. La politica economica, estera e militare russa fu improntata sulla necessità di una revanche sullo scacchiere mondiale: era necessario che la Russia tornasse ad occupare il posto che fu dell’Unione Sovietica e che di diritto le sarebbe spettato nel mondo.

Nel Paese ha acquistato progressivamente consenso l’impostazione definita “Neo-imperiale” del Presidente Putin: riscoprire la grandezza della propria storia attraverso l’iniziativa politica. In materia economica la principale applicazione di questa dottrina politica fu data dall’ondata di nazionalizzazioni che coinvolsero le aziende strategiche controllate dagli oligarchi, giovani che approfittando della propria influenza nell’establishment e con capitali di provenienza spesso oscura, riuscirono ad acquistare la totalità dei comparti estrattivi nazionali.

In particolar modo l’estrazione di carburanti, che ai tempi dell’Unione Sovietica non fu mai sviluppata ai massimi livelli, ha conosciuto negli anni Duemila un boom: il Cremlino ha trasformato così la politica di esportazione di energia nella propria punta di lancia per la penetrazione in Europa. La necessità di approvvigionamento energetico ha reso diversi Paesi nel Vecchio Continente strettamente dipendenti dall’import russo, tanto da arrivare a condizionarne la politica estera. In Europa si sono creati due blocchi. Il primo è composto da nazioni fieramente anti-russe, che vedono nell’imperialismo di Mosca una minaccia storica alla propria esistenza: si tratta di Paesi che hanno subito la dominazione sovietica, come la Polonia o gli Stati Baltici, o tradizionalmente avversi a Mosca sin dalla Guerra Fredda, come il Regno Unito: questi sono i più fedeli alleati di Washington in Europa.

Accanto ad essi vi sono poi Paesi che non hanno mai risentito in maniera diretta o tanto incisiva dell’influenza di Mosca sui propri cittadini ovvero non hanno mai subito lo scontro ideologico violentemente come altri. Si tratta di Paesi che vedono nell’Orso Russo non tanto una minaccia quanto un’opportunità: in questa schiera annoveriamo la Germania, che ha importanti partnership commerciali in campo energetico ed industriale e che ha beneficiato dell’apertura del mercato russo alle proprie aziende, in particolare elettroniche ed automobilistiche. L’Italia negli ultimi anni, a approfondito il rapporto con Mosca sulla base della necessità di una diversificazione energetica che ha portato l’E.N.I. a stringere accordi con la major russa dell’energia Gazprom, pur di dubbia utilità economica.

Vi sono infine Paesi storicamente filorussi, come la Serbia, che è ha ritrovato nella Sorella Russia un appoggio importante, in particolare sulla questione del Kosovo, dopo decenni di gelo tra il Cremlino e Tito; o come la Grecia, che ha rinsaldato i propri rapporti anche nel nome della comune fede ortodossa dopo la ricomposizione dello Scisma tra le due Chiese nazionali.

Le ripercussioni del “divide et impera” energetico sullo scenario internazionale sono molteplici. Il governo russo negli ultimi anni è ricorso più volte al ricatto per poter perseguire la propria politica di rafforzamento in ciò che esso considera una propria area di influenza. Ne è un chiaro esempio l’Ucraina e le tensioni occorse con la Federazione Russa su diverse questioni negli ultimi anni: dal rinnovo della concessione della base navale di Sebastopoli all’avvicinamento all’area N.A.T.O.; in tutti i questi casi, come strumento di pressione il potente vicino ha esercitato il blocco delle forniture di gas al Paese, lasciando di conseguenza senza approvvigionamenti mezza Europa.

La politica estera russa nell’agosto 2008 ha raggiunto un nuovo grado di intensità con l’invasione militare della piccola repubblica caucasica della Georgia. Formalmente il casus belli addotto da Mosca era la violazione di una zona smilitarizzata in Ossezia del Sud, che assieme all’Abkhazia erano sottoposte alla tutela delle forze di pace russe e riconosciute come Stati autonomi solo dalla Federazione. In realtà la partita era ben diversa: in quello stesso anno il Presidente Bush aveva posto le basi per l’allargamento della N.A.T.O. ad Est; era in fase di completamento lo scudo missilistico e le basi radar in Polonia e Repubblica Ceca e la stessa Georgia aveva intrapreso il cammino di partneraniato che l’avrebbe condotta a divenire membro effettivo del Patto Atlantico.

L’Orso Russo, sentendosi stringere intorno alla morsa ha reagito furiosamente: nei delicati equilibri di poteri del Cremlino hanno prevalso i Siloviki, l’area intransigente e militante di cui l’inflessibile Ministro degli Esteri Lavrov è un sostenitore. Ha avuto così luogo la vittoriosa campagna militare georgiana, che ha portato alla luce anche un altro dato: la preparazione militare russa.

Nei primi anni Duemila, inquadrata nella politica di potenziamento nazionale in ogni fronte e supportata dalla crescita economica, lo Stato russo decise di modernizzare le proprie forze armate, in particolare il settore strategico. Nel 2008 lo Stato Maggiore russo ha annunciato le prime prove in mare di sottomarini di nuova generazione della classe Borej, che imbarcheranno il missile balistico RSM-56 Bulava, un nuovo vettore con la capacità di trasportare testate nucleari con una potenza di 500 kilotoni. Nel 2001 a Shanghai, la Federazione ha firmato un accordo di cooperazione militare con la Cina, riavvicinando i due Paesi dopo decenni di gelo diplomatico e stabilendo un’asse alternativo in Estremo Oriente, grazie anche al coinvolgimento di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e divenendo un interlocutore fondamentale per supporto logistico alla missione I.S.A.F. in Afghanistan.

Con la crisi economica mondiale, l’ascesa dell’Orso russo sulla scena internazionale ha subito tuttavia una violenta battuta d’arresto: tra il 2008 ed il 2009 il p.i.l. russo è calato di circa 400 bilioni di dollari: il 7,9%. Ciò è dovuto sopratutto a causa dell’eccessiva dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi, che costituiscono l’ossatura della crescita decennale. Nel corso del 2010 tuttavia, anche grazie all’ascesa dei prezzi dei combustibili, il dato ha subito un’inversione di tendenza, tornando ad un + 4,2% : resta tuttavia la debolezza endemica di un sistema economico eccessivamente sbilanciato nel settore estrattivo.

Ben più preoccupante è il drastico calo demografico del Paese negli ultimi anni, che ha toccato un tasso di – 0,61% nel 2003, mettendo così a rischio la stesso sviluppo nel medio termine. Nonostante ciò, la Russia si presenta come una potenza in divenire, le cui fragili basi economiche e sociali non ne frenano l’ambizione a tornare sul palcoscenico mondiale da protagonista: concentrando la propria attenzione sui Paesi che la circondano cerca infatti di consolidare le fondamenta di ciò che i russi sperano sia il risveglio del grande Orso da un letargo forzato decennale.

Riceviamo e pubblichiamo” di Federico Poggianti

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Rassegna stampa, 7 febbraio 2011

postato il 7 Febbraio 2011
Casini e Fini si dicono sicuri che il Cavaliere si trovi isolato (e non sbagliano, anche la Chiesa comincia a nutrire forti riserve) e che pertanto gli inviti a progettare riforme condivise, siano solo specchietti per allodole. Ogni tanto, il nostro Premier, potrebbe seriamente pensare al bene del Paese: lo diciamo per lui, a meno che non preferisca finire i suoi giorni politici su un’isola deserto, nell’ennesimo, inutile delirio di onnipotenza. Ma pensate davvero che Pannella e gli “irresponsabili” responsabili (leggete il durissimo pezzo di Pigi Battista sul Corriere) possano salvare la situazione? Ma quando mai, ma dove! Ha ragione Della Loggia: o una tregua vera o meglio al voto (come già chiede un terzo degli italiani, spiega Mannheimer); anche perché – all’interno del Governo – l’irrequietudine e delusione aumentano ogni giorno di più e c’è chi, come Alfano e Bondi, progettano un ritorno a tempo pieno nella gestione del partito. Come finirà? Tra ladri e cretini (leggete il dialogo tra Celentano e Grillo), la piazza civile e i soliti violenti (Merlo su Repubblica) e l’anima romana della Lega sempre più forte (Diamanti), chi vivrà vedrà.

Fini- niente riforme condivise. Casini- Cavaliere isolato (Ajello Mario, Il Messaggero)

Il premier da Bertone e Bagnasco. Nella Chiesa timori per il «clima di confusione» (Gian Guido Vecchi, Corriere della Sera)

Berlusconi: “Non mi dimetterò. Pm e stampa sanno solo spiarmi” (Silvio Buzzanca, La Repubblica)

Fini e Casini: «Silvio resterà solo su un’isola deserta» (L’Unità)

Casini la butta sull’ironia: «Ogni tanto pensi anche al Paese» (QN)

Pannella: “Io e Silvio? Sostenere le istituzioni è dovere repubblicano” (Jacopo, Iacoponi, La Stampa)

Battista – L’irresponsabilità dei «responsabili» (Pierluigi Battista, Corriere della Sera)

Mannheimer – Per il 30% degli italiani si deve andare a votare (Renato Mannheimer, Corriere della Sera)

Santilli – Politici distratti, il paese ha perso la virtù del fare (Giorgio Santilli, Sole24Ore)

Una tregua vera o meglio il voto (Ernesto Galli della Loggia, Corriere)

Ma nel governo sale l’inquietudine e il rimpasto diventa l’occasione per lasciare (Marco Conti, Il Messaggero)

L’anima romana della Lega (Ilvo Diamanti, La Repubblica)

La piazza civile e i soliti violenti (Francesco Merlo, La Repubblica)

Chi non ruba è un cretino (Adriano Celetano e Beppe Grillo, Corriere della Sera)

“Caro Giuliano, la frustata di Berlusconi va bene, ma…” (Emma Marcegaglia, Il Giornale)

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Le manifestazioni ad Arcore sono l’altra faccia del degrado

postato il 7 Febbraio 2011

L’opposizione deve dare un’altra idea dell’Italia

Le manifestazioni davanti la casa di Berlusconi ad Arcore non sono certo la risposta giusta da dare al Governo ed al Presidente del Consiglio.
Lasciamo perdere i violenti, che è meglio che stiano nelle patrie galere e non agli eventi politici, ma l’idea stessa di protestare con quelle modalità ed in quel luogo, rischia di essere l’altra faccia della medaglia del degrado che stiamo vivendo.
L’opposizione deve dare un’altra idea dell’Italia non la stessa, eguale e contraria.
Con tutto il rispetto per gli altri, non siamo né in Tunisia né in Egitto e non vogliamo finirci.

Pier Ferdinando

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«Silvio al Colle? No. Lui ha solo diviso»

postato il 6 Febbraio 2011

Anche il Pd ha fallito e la “santa alleanza” non è il mio progetto

L’intervista a Pier Ferdinando Casini pubblicata su Avvenire di Arturo Celletti

«Berlusconi è convinto che fino a quando resiste a Palazzo Chigi è più forte. Ma non è così. La scelta di restare asserragliato nella roccaforte del governo lo rende solo più debole. Infinitamente più debole».
Parla piano Pier Ferdinando Casini, e all’improvviso, anche se ha davanti solo il cronista di Avvenire, si rivolge direttamente al capo del governo. «Non ti garantisci restando immobile nel bunker, ma solo avendo la lucidità di capire che un disegno politico non si esaurisce nella propria persona». È un invito forte a fare un passo indietro per aprire una fase nuova. È un appello a privilegiare la Politica rispetto alle convenienze. E a capire che il progetto di un grande rassemblement dei moderati che abbia come riferimento i valori del Partito popolare europeo è ancora possibile.
Casini insiste: «Non sarò io a indicare a Berlusconi una soluzione, un nome, un percorso. Tocca a lui capire che questo è il momento della generosità e delle scelte coraggiose. Tocca a lui individuare in fretta una soluzione. Perché ormai è diventato un ostacolo anche per i suoi attuali compagni di cordata. E perché se avesse il coraggio di lasciare Palazzo Chigi, quelle convergenze che oggi appaiono impossibili diventerebbero immediatamente realizzabili. E così tante riforme. Penso a una grande intesa sulla giustizia. E penso a segnali chiari sulle intercettazioni: non serve il bavaglio che pretende Berlusconi, ma certo potrebbero essere disciplinate in fretta e con vasto consenso». Diètro quel pressing prende forma il “salvacondotto” per il Cavaliere.
Casini insiste: «Silvio trovi la forza di gestire l’ultima fase con le armi della politica. E non arroccandosi nel fortino e gridando al complotto». [Continua a leggere]

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Se Berlusconi continua così rimarrà da solo su un’ isola deserta

postato il 6 Febbraio 2011

Pensi ai problemi degli italiani, non ai suoi
Il nostro Paese cresce ormai meno di altri, ha più disoccupati, le opere pubbliche sono ferme e tutti gridano all’allarme. Berlusconi continua a proporre emergenze come il processo breve o le intercettazioni, che esistono ma solo per lui, e li impone all’agenda della politica italiana. Se continua così, rimarrà da solo su un’isola deserta.
Se un mattino su quattro si alzasse dicendo: ‘Oggi mi voglio preoccupare dei problemi degli italiani e non dei miei’ sarebbe una giornata splendida.

Pier Ferdinando

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